Il femminismo dopo il femminismo

di Lorenzo Picca

 La donna è l’altro rispetto all’uomo.
L’uomo è l’altro rispetto alla donna.
L’uguaglianza è un tentativo ideologico
per asservire la donna a più alti livelli.

Manifesto di rivolta femminile

A un orecchio inesperto il termine “femminismo” suona oggi come qualcosa di proveniente da un tempo ormai passato, antico. Il dibattito è invece apertissimo e in continua crescita. Vale la pena dunque approfondire le tematiche femministe tenendo in conto un fatto fondamentale: le rivendicazioni hanno subito un cambio di rotta non indifferente. Se prima si ricercava l’omologazione dei sessi – col fine di eliminare le disuguaglianze in termini di diritti – ora la questione non è divenire soggetti a tutti gli effetti al pari degli uomini ma sottrarsi al modello patriarcale che ha nell’uomo il suo archetipo e, se possibile, sovvertirlo. Il femminismo degli anni ‘70, in particolare quello italiano, rompe con il passato sotto la bandiera della differenza ontologica tra uomo e donna. Una differenza che oramai non possiede più un originale, non è differente rispetto a un modello ma, stando così le cose, vuole riconosciuta la sua valenza di differenza in sé. Il modello che viene meno è quello maschile che non ha nessun diritto di erigersi a vertice ma deve, o dovrebbe, comprendere di essere differente rispeto alla donna, proprio come la donna lo è rispetto a lui. Due differenze poste sullo stesso piano e non sintetizzabili sotto un genere neutro. Tenere conto di questo è fondamentale per non consentire a una parte di imporre il proprio modello all’altra. Questo lavoro si prefigge dunque il compito di analizzare cosa questo passaggio dall’emancipazione (attraverso i diritti) al rifiuto dell’uguaglianza (in favore della differenza) comporti, ora e nel prossimo avvenire.

§1 C’era una volta… il patriarcato

Il termine femminismo comincia a essere utilizzato attorno al XIX secolo per indicare la sollevazione generale femminile contro l’ordine patriarcale, all’epoca predominante e forse non del tutto superato. Spesso si associa il femminismo solamente al movimento di richiesta di uguaglianza da parte delle donne rispetto agli uomini. In un primo momento si tratta proprio di questo ma attorno agli anni ‘70 cominciò ad assumere altri significati. La donna non deve emanciparsi ma bensì liberarsi, sottraendosi a priori, al regime maschilista patriarcale. La libertà è da ricercarsi non nell’uguaglianza con il maschio ma nel netto rifiuto di un modello fondato sul maschile come genere neutro. Non la ricerca di un astrazione ideale che renda tutti uguali, quantomeno nei diritti, ma la libera espressione delle proprie potenzialità, un po’ alla Aristotele.
L’Ottocento è stato il punto più basso per la storia delle donne nonostante sia un secolo moderno (Cfr. Boch 2001). Vi furono notevoli cambiamenti nella società rispetto a quella agraria precedente. La famiglia da allargata cominciò sempre più a tendere verso un focolare nucleare: formato da genitori e rispettivi figli. Di conseguenza anche la casa cambiò le sue peculiarità: da luogo centrale di vita e di produzione divenne solo abitazione; il lavoro si staccò dalla residenza e cominciò a svolgersi in altri luoghi. Così nacque la figura della casalinga che, costretta a rimanere a casa dedicandosi alla cura di questa e all’accudimento dei figli, viene staccata e isolata dalla società, prerogativa maschile in quanto formata dai lavoratori oramai tutti uomini. Così facendo le donne si vedevano estromesse dai diritti civili, prima che politici, come istruzione, lavoro, capacità giuridica, facoltà di disporre dei propri beni e la potestà sui figli.
Le donne però avevano occupato un posto in prima linea nella Rivoluzione francese. Tant’è che la Costituzione francese del 1791 stabilisce uguali diritti di successione tra uomo e donna e ammette queste a testimoniare; Le leggi del 1792 inoltre instituiscono il matrimonio come contratto civile, teorizzando così un’uguaglianza tra i coniugi, e la possibilità del divorzio. Rimaneva però impensabile la partecipazione politica della donna. Sopravvive infatti una concezione della donna come in preda alle passioni e non in grado di erigersi alla ragione maschile. La figura simbolo della furia passionale femminile, nell’epoca della Rivoluzione, è quella della tricotense: la donna che fa la maglia assistendo alla ghigliottina. Una furia passionale pericolosa se lasciata fuori dal controllo degli uomini, almeno così credevano questi ultimi.
Nel 1791 Olympe de Gouges pubblica la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, che sul modello della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 invoca l’uguaglianza giuridica e legale delle donne nei confronti degli uomini. Le donne sono esseri razionali, non meno degli uomini, e anch’esse possono venir educate affinché sviluppino al meglio le loro capacità anzi devono di diritto poter prendere parte all’educazione. Il Codice napoleonico del 1801 invece, da cui discendono molti codici europei (come in Italia il Codice Pisanelli), considera la donna come eterna minorenne, posta necessariamente sotto la tutela del padre, del marito o del fratello. Per qualsiasi evenienza la donna ha bisogno dell’autorizzazione del padre prima e del marito poi, o in qualsiasi caso della figura maschile che ne fa da tutore, proprio come un minorenne.
La realtà della città che esclude le donne dallo spazio pubblico fa da contraltare a un progressivo venir meno dei lavori pesanti. Grazie alla nascita di nuovi servizi come l’acqua corrente, la luce e il gas nelle abitazioni, gli ospedali, le strade e soprattutto gli elettrodomestici il tempo delle donne viene liberato. A questo processo si accompagna anche una riduzione del numero di gravidanze così le donne acquistano più tempo che poi spenderanno a riflettere su se stesse, confrontarsi e associarsi. Così facendo, pian piano, le donne riuscirono a evadere dal privato e cominciarono a fare politica, rompendo così con il modello patriarcale che le voleva subalterne della figura maschile. Uscirono dalla loro Casa di bambola e per di più sbattendo la porta.

§2 Inclusione ed esclusione: due alternative opposte

Quando si considerano le rivendicazioni ideologiche dei movimenti femministi le questioni di esclusione e inclusione si pongono come due strade alternative e in costante opposizione. La richiesta di inclusione caratterizza un femminismo detto politico le cui parole chiave sono emancipazione e diritti. Questo ingaggia un duro braccio di ferro con le istituzioni per modificarle dall’interno. Il rischio è di tralasciare la differenza sessuale, che evidentemente non può essere tralasciata senza commettere un’ingiustizia, ponendo la soggettività femminile tra parentesi in nome dei diritti; la richiesta opposta, ovvero di esclusione, la ritroviamo nel femminismo definito della differenza. Una forma di femminismo antiegualitario e antiemancipazionista. Da questa ottica, la lotta per la conquista dei diritti, o dei posti di potere e rilievo, sminuisce le donne riducendone il valore simbolico che non risiede nei diritti ma si trova altrove. Il femminismo della differenza fu ispirato da Virginia Woolf. Carla Lonzi ne scrisse il Manifesto affermando che «l’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire le donne a più alti livelli» (Rivolta Femminile 1970) . Qui è evidente la posizione antiegualitaria che auspica una totale liberazione della donna dal paradigma che ha nel maschio il suo vertice. «Ci tiriamo fuori» dichiarano le donne della differenza. La differenza sessuale infatti viene ritenuta una categoria ontologica e irriducibile al genere neutro, solitamente assunto dal termine “uomo”. Vi è un’essenza donna a cui tutte le donne partecipano, in tutti i luoghi come in tutti i tempi. La libertà femminile si trova a essere così in antinomia con l’uguaglianza. Non ci possono essere, evidentemente, libertà e diritti per le donne all’interno di un parlamento interamente composto da uomini. L’emancipazione non può che ridursi a uno sforzo di omologazione al modello di uomo.
Il termine femminismo della differenza è tipico di Italia e Francia. Questo si basa su una definizione della donna non a priori, non a tavolino, ma come risultante dell’interazione delle singole donne nella realtà che le circonda e nella quale esse vivono. Si parla di comportamenti condivisi, di pratiche, che eliminano il problema dell’anarchia dell’azione singola a favore di un modus operandi che sia si condiviso ma non imposto in maniera paradigmatica, come una forzatura esterna imposta da un deus ex machina. Questo atteggiamento di fondo fa si che ci sia la possibilità, più volte divenuta reale, di conflitto tra varie forme di organizzazione, tra varie forme di femminismi appunto. Le diverse concezioni riguardo la libertà che le donne rivendicherebbero fanno sì che non ci si trovi d’accordo, creando così discussioni e divergenze negli ideali femministi, che come abbiamo visto non si riducono a uno solo. Un principio però appare come condiviso unilateralmente: nessuna, e nessun gruppo, può parlare a nome di un’altra donna o di un altro gruppo.
Le donne sono state, e forse in maniera diversa, continuano a essere sottomesse a delle regole di un gioco imposte da soggetti specifici: gli uomini. Quando si parla di differenza e liberazione/esclusione si parla di una fuga da queste regole, della volontà di venir escluse da un gioco che è tuttaltro che divertente. Questo è sicuramente motivo di scontro con quante vanno ricercando un’inclusione tramite la legislazione. Questo però dalle femministe post ‘70 è visto come un problema dato che l’inclusione va bene ma solo a certe condizioni.
In Italia nel 1970, in area radicale, nacque il Movimento di liberazione della donna, un progetto socialista, libertario e antipatriarcale. A venir combattuti non sono i maschi in quanto tali ma in quanto maschi patriarcali che impongono il loro paradigma. Le più grandi battaglie dell’Mld sono la legalizzazione dell’aborto, le iniziative popolari contro la violenza e la costituzione di luoghi esclusivi delle donne, come la Casa delle donne, «parlaimo solo con donne» recita il Manifesto di rivolta femminile. Il femminismo della differenza contesta questa presa di posizione e anche gli obbiettivi del movimento: «Non ci interessa l’aborto ma mutare la sessualità». Le femministe afferenti all’area milanese della differenza dichiareranno che l’aborto è una risposta violenta al problema della gravidanza che rimarrà però tale se non si porrà fine alla libertà dell’uomo di predisporre del corpo della donna.
Nascono luoghi di appropriazione delle conoscenze scientifiche per le donne sottraendole al predominio dei medici.
La legge però è sempre in contrasto con l’autodeterminazione poiché il diritto è estraneo alla donna che non ha voce in capitolo, essendo il parlamento a uso esclusivo degli uomini. Il Movimento di liberazione della donna voleva modificare lo status quo tramite nuove norme giuridiche. L’esempio più limpido è la raccolta di firme a favore di una modifica del Codice Rocco che considerava lo stupro un reato contro l’onore – dell’uomo – e non contro la persona che lo subiva – la donna. Le firme raccolte furono 300.000, ben più delle 50.000 necessarie affinché passasse la proposta di legge. Anche in questo caso il femminismo della differenza non si trovò d’accordo. Infine l’Mld si ritirò e il femminismo della differenza prese l’egemonia culturale, affiancato da tanti piccoli gruppi autonomi. Fu il primo passo verso un femminismo globale che coincise con la nascita del movimento Lgbt.
Gli anni ’90-2000 in Italia sono gli anni del “berlusconismo” che presenta l’immagine di una donna “scollacciata”, ammiccante e che offre il proprio corpo mostrando le sue nudità. La realtà della donna italiana al contrario è di una donna che studia di più e che lavora. Nascono nuovi movimenti di rivolta come Se non ora quando nel 2011. La rivendicazione principale è quella di una Democrazia paritaria, ovvero una Democrazia dove si decida al 50%, metà donne e metà uomini. Non si tratta né di quote rosa né di pari opportunità.
Ancora una volta il femminismo della differenza criticherà questa presa di posizione rifiutando ogni ipotesi di rappresentanza. La rappresentanza è un fatto quantitativo che si riduce a un mero incremento numerico di donne nelle istituzioni. Il rischio è che le donne assorbite dal sistema divengano tali e quali agli uomini nell’operare legislativo. La strada da seguire è quella della rappresentazione, una strada che mostri qualitativamente la differenza ontologica della donna rispetto all’uomo. Si deve rappresentare la dimensione femminile.
Se non ora quando arriverà a spaccarsi a causa dei conflitti interni tra le giovani che vogliono “fare” e le anziane che vogliono “filosofare”.

§3 Un nuovo inizio

Come anticipato, il punto di svolta che segnerà la nascita del femminismo detto della differenza è la stesura e la pubblicazione del Manifesto di rivolta femminile che nel 1970 apparirà sui muri di Roma. Il testo, elaborato da Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti, chiarisce in maniera inequivocabile la rottura con il pensiero precedente. Già dal quarto punto si esplicita la presa di posizione contro un femminismo che desideri l’emancipazione della donna in termini di omologazione all’uomo: «La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli». Per questo motivo «la donna non va definita in rapporto all’uomo» e si rifiuta questo come archetipo, ovvero di originale, a cui la donna dovrebbe essere eguagliata. Si rovescia totalmente il pensiero femminista precedente.
È interessante notare come il Manifesto prenda le mosse da una citazione dei Olimpe De Gouge: «Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?)» (O. de Gouges 1791). Questa scelta appare un disperato tentativo di continuità e una richiesta di collaborazione con chi la pensa diversamente ma fa sorridere poiché introduce in realtà un cambio di paradigma di per se inconciliabile. La frattura apportata dalla differenza italiana è dunque insanabile, non si può tornare indietro. Quello che rimane da analizzare è se la situazione possa evolversi in qualcosa di nuovo o se rimanga statica. Mi spiego meglio. Il dato di fatto è che, logicamente, le due posizioni sono differenti ma anche antitetiche. Soprattutto non ci sono possibilità terze, tertium non datur, o almeno così pare. È evidente, sempre a rigor di logica, che posto lo status quo di una società organizzata su un modello maschile – ancora oggi vigente anche se in maniera meno esplicita – due solo le strade possibili per eliminare le disuguaglianze e l’oppressione delle donne da parte degli uomini: la prima è rendere uguali le due categorie, con tutte le critiche a questo atteggiamento esposte supra, che riprenderò più avanti; la seconda è rigettare in toto lo status quo. Non ci sono altre possibilità. Se oltretutto ci rifacciamo al pensiero post ‘70 che vede la liberazione della donna come unica possibilità trasformiamo la lotta femminista in una fuga che non auspica un ritorno quando le acque si siano calmate. Dunque stando così le cose andremmo sempre più verso una divisione e separazione tra uomini e donne. La soluzione sarebbe quella di trovare una sintesi tra queste due posizioni – impresa che come detto sembra impossibile – così da non darla vinta ai maschi patriarchi e cambiare le cose.
Il primo atteggiamento infatti, tentando di uguagliare le donne in termini di diritti, rischia di sminuire la valenza ontologica della donna. Nella pratica questo vorrebbe dire dimenticarsi dei bisogni specifici dei soggetti donne. Provo a fare un esempio. Un lavoratore uomo avrà dal proprio superiore una determinata quantità di giorni di ferie. Questi verranno calcolati in una maniera che io non conosco ma credo tenendo presente le varie leggi che regolano ciò. Poniamo ad esempio che una donna lavori nello stesso ufficio e in quanto assunta a tempo determinato (questo è un problema che trascende le differenze uomo donna ma anche in questo caso tra gli svantaggiati probabilmente la donna sarà ancora più svantaggiata) e in quanto donna ha diritto a nessun giorno di ferie. Il fatto che si diano meno giorni di ferie a causa del sesso del lavoratore è evidentemente un’ingiustizia. Si comincia allora una battaglia sindacale che porterà a eguagliare il numero di ferie tra uomo e donna in nome di un’uguaglianza dei generi. La donna in questione e tutte le altre dell’ufficio otterranno i dovuti giorni di ferie. Questo sembra un successo. La donna ora non è più discriminata, è uguale all’uomo e come lui ha diritto allo stesso numero di giorni da spendere in vacanza. Poniamo però che questa lavoratrice, nel frattempo, assunta a tempo indeterminato, rimanga incinta. Avrà bisogno adesso di rimanere a casa per molto tempo – poniamo che per un’altra ingiustizia in quest’ufficio la donna sia costretta a prendere dei giorni di ferie durante la gravidanza – creando così un’assenza nel posto di lavoro. Il contratto però non prevede nulla a riguardo e la donna viene licenziata. Questo a mio avviso è quello che il femminismo della differenza intende parlando di liberazione dal modello maschile. Una società fondata, e spesso governata da uomini, come fa a tenere da conto le esigenze delle donne? Preciso che parlo di gravidanza non come evento che identifica la donna ma come evento che appartiene solo alla donna per mostrare come un modello fondato sull’uomo, anche se equo fra i sessi, rimarrà sempre manchevole verso le specificità della donna. Sarebbe importante creare una coscienza condivisa e una regolamentazione giuridica che tuteli le donne in gravidanza. Va detto che esistono per fortuna norme del genere ma oltre a scriverle andrebbero fatte rispettare, come direbbero le femministe della differenza.
Secondo me dunque è condivisibile il turning point della differenza italiana poiché l’unico modo per evitare discriminazioni e sottomissioni è quello di comprendere ed esprieme le potenzialità e le particolarità del singolo individuo. Sia esso donna, uomo, moro o biondo, alto o basso. Proprio per questo il femminismo si pone come rivendicazione trasversale contro ogni forma di imposizione dall’altro di un modello che ci inscriva in un ruolo definito da altri. La Gender theory è la chiara evidenza di ciò, partendo dal presupposto che i ruoli di genere sono costruzioni sociali, si evita di educare il bambino o la bambina in un modo piuttosto che l’altro, lasciandolo libero di esprimersi – va detto infatti che oggi, grazie agli studi di genere, si distingue tra sesso, genere e orientamento.
Ma anche qualora ci trovassimo tutti d’accordo con questo progetto teorico, come lo si può realizzare? Come si avvia una rivoluzione femminile? Innanzi tutto va detto che il termine rivoluzione non è auspicabile poiché spesso una rivoluzione comporta delle vittime, il sommovimento femminile invece è più una rivolta che non vuole sacrificare nessun corpo di quelli che la portano avanti (Cfr. l’intervista da me realizzata alla Dott.ssa Federica Castelli per il programma I Vuoti Cosmici andato in onda su RomaTreRadio: https://www.mixcloud.com/parla-per-tre/ivuoticosmici-rivoluzioni-e-rivolte-intervista-a-federica-castelli/). Il punto di partenza è «il partire da sé, dove il soggetto è inteso come corpo, esperienza, vissuto, relazioni, e lo spostamento rispetto al piano della presa del potere a vantaggio della costruzione di orizzonti simbolici e di pratiche alternativi» (Castelli 2015).

§4 …e forse c’è ancora

L’esempio della maternità non è scelto in maniera casuale poiché come su detto questo evento rappresenta qualcosa di specificatamente femminile, qualcosa che appartiene in maniera univoca alle donne. La specificità però non andrebbe confusa con un qualcosa che identifica la donna poiché non ne è la sostanza, parlando in termini aristotelici, ma è un accidente che ha la caratteristica di appartenere solo a lei. Questo assunto è fondamentale per non legare con un doppio nodo le donne con la capacità di accogliere in grembo i futuri nascituri. Purtroppo però il pensiero maschilista patriarcale ha osato spesso e ripetutamente stringere questo filo, fino a creare un immagine unica della donna e della madre.
Anche se parliamo da un punto di vista evolutivo dove la teleologia, il fine, è la riproduzione della specie, non solo la donna ha questo fine ultimo ma anche l’uomo. Infatti la donna ha il privilegio e l’onere di portare in grembo il bambino ma entrambi sono necessari affinché questo venga al mondo. Dunque la continuazione della specie è un fatto di uomini e donne. Certo la specificità del portare in grembo va riconosciuta e proprio per la sua specificità e per il suo peso va tutelata e agevolata, in termini etici e politici, ma non deve mai diventare etichetta da affibbiare alle donne trasformandole in “macchine sforna figli”. Purtroppo però questo è avvenuto…
È interessante analizzare come la questione della maternità sia stata affrontata dalle diverse forme di femminismo per esplicitare meglio nella pratica le differenze che occorrono tra emancipazioniste e liberazioniste. Avevo già accennato supra a le questioni relative ma cercherò di andare più nel dettaglio. Già da Platone e Aristotele la donna veniva considerata un errore, un errore utile però alla riproduzione (Cfr. Botti 2007). Per cambiare la condizione femminile è dunque necessario confrontarsi con la questione della maternità, questione che la tradizione ha relegato al livello della pura animalità. Vediamo dunque come è cambiata la rivendicazione femminile in questi termini. L’assunto di fondo di questa discriminazione è che le donne siano inferiori sia nella mente che nel corpo. Le possibili risposte sono due: La prima è che non è affatto vero, le donne sono e devono essere riconosciute come uguali all’uomo; la seconda è rifiutare questa pretesa di eguaglianza. Non si vuole aderire a un modello normativo ma si rifiuta questo in toto. Fatto ciò si rivendica la stessa libertà di dare senso alla propria esistenza. La donna ha diritto alla sua autonomia, alla sua autocoscienza e dunque a partire da sé rifiutando paradigmi imposti da altri (eteronomia). La prima ipotesi, che è il femminismo politico, ha il difetto, oramai dovrebbe essere chiaro ma nel caso della maternità risulta a mio avviso ancora più evidente, di prendere a modello della vita libera il maschio. Così facendo che ne è della maternità? Che cosa ne è di questa specifica caratteristica della donna che in un parlamento composto da uomini non si ha interesse a tutelare? Per questo un femminismo che va a tenere conto solo di un omologazione dei diritti non può andar bene se questi diritti si fondano sul modello maschile. È invece auspicabile un miglioramento dei diritti della donna e sicuramente un ampliamento di questi fin dove si estendono quelli degli uomini, ben venga ciò, ma non bisogna dimenticarsi delle specifiche esigenze. Questo naturalmente vale anche a parti invertite.
Dobbiamo dunque svincolare le donne da questo modello patriarcale. In questo atteggiamento si inserisce anche la pratica della nominazione al femminile. «Le parole sono importanti» dice Nanni Moretti e mi sento di dargli ragione. Anche se spesso appare come un mero impuntarsi, la conversione al femminile di alcune parole è un vero e proprio gesto di rivolta. La pratica femminista, se ho ben capito, è proprio questo, ha un aspetto fortemente simbolico che sfugge alle dinamiche classiche del potere tentando di sottrarvisi ricreando da sé i propri immaginari (Cfr. Castelli 2015). Nominare è un atto di potere e non a caso molte delle cariche più alte, che siano all’interno di un ufficio o del governo, hanno la sola declinazione maschile. Questo perchè queste cariche precedentemente erano riservate solamente agli uomini. Dunque rinominare e sottolineare la desinenza al femminile è un atto di protesta e si situa come un avvertimento ai naviganti: sono una donna ma non per questo non posso ricoprire cariche importanti. Anche tralasciando la cacofonia di alcuni termini che la costanza e la tradizione ci hanno scolpito nel pensiero sembra, credo, a volte superfluo e irritante per le donne che hanno questo messaggio ben chiaro in mente doverlo sottolineare, come a dimostrarne la fragilità. Sono pienamente d’accordo con questo ma spesso purtroppo il segnale sta lì proprio per quegli uomini che non ne vogliono sapere di leggerlo. Sarà anche banale dirlo ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Facciamo un piccolo salto indietro e torniamo all’assunto di fondo secondo cui la donna è inferiore nella mente e nel corpo all’uomo. Per il femminismo il patriarcato è sbagliato a priori poiché fondandosi su una presunta inferiorità femminile viene meno quando questa si dimostra, ed è auto-evidente che le donne non sono inferiori e non sono neanche utili solamente alla riproduzione (Cfr. Supra). La donna è donna anche se non diviene madre. Bisogna quindi liberare la donna dalla maternità come sua unica prerogativa e come suo unico fine (Cfr. Filippini 2017). Si comincia a discutere di aborto, di pillole anticoncezionali e di contraccezione. L’obbiettivo delle donne della differenza qui non è quello di eliminare la riproduzione ma di svincolarla dalla visione patriarcale – che ne fa un oggetto da utilizzare – al fine di riappropriarsene come piena esperienza femminile. Adrienne Rich nel 1976 scriverà che «non è la maternità che ci rende schiave ma la concezione patriarcale». Concetto espresso anche da Carla Lonzi che pensava che non è il bambino a rendere schiave le madri ma bensì il padre. In fin dei conti l’obbiettivo sarebbe quello di riappropriarsi di una maternità concepita non come destino ma come una scelta consapevole e libera (Cfr. Rich 1995). Come recita Macbeth «L’umanità nasce di donna» poiché ogni essere umano è nato da una donna; ma non ogni donna fa nascere un umano. La maternità va infatti risignificata, attraverso le pratiche femministe, cambiando l’immaginario comune per trasformare la maternità in un valore, nel valore che intrinsecamente le appartiene.

§5 Conclusioni

Possiamo quindi concludere che il femminismo degli anni ’70 abbia portato una novità concettuale da non sottovalutare. Ha ampiamente argomentato contro una richiesta di pari diritti e la pratica di tutti i giorni conferma che questi non bastano. I diritti infatti, anche se scritti su carta possono, e troppo spesso accade, essere smentiti dai comportamenti collettivi. Esempio lampante ne è la legge del 1978 sull’interruzione di gravidanza: esiste la possibilità in termini giuridici ma può essere impossibile ricorrere a questa visto che la percentuale dei medici obbiettori di coscienza è molto alta. Il diritto c’è, i comportamenti possono svuotarlo dall’interno. Stesso discorso vale per le professioni. Anche qui pari diritti e pari ruoli ricoperti non risolvono il problema della discriminazione di genere se la mentalità maschile che fa della donna una sua subalterna non cambia drasticamente.
L’emancipazione e la liberazione dunque non possono venir accomunate, la presa o meno del maschio a modello fa si che si debba scegliere l’una o l’altra. Una possibile sintesi, anche se imperfetta, sarebbe quella di incrementare sia i diritti civili che quelli sociali delle donne, come pensa Emma Bonino. Andrebbe cambiata la mentalità attraverso una continua pratica femminista per ricordarci che le diversità dovrebbero essere un arricchimento. Una volta creato un immaginario nuovo, svincolandosi dal modello preesistente, il personale delle singole donne potrà diventare materia del politico. Il passaggio sarebbe dal #MeToo al #WeToogheter, un movimento collettivo che parta e salvaguardi l’esperienza del singolo individuo all’interno di un sociale inclusivo. Così finalmente la “lodoletta” potrà tornare nella sua Casa di bambola, trasformandola in una casa vera, dove esprimere la sua vera identità. Anche se forse non ne avrà più voglia.

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l’emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d’amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra.

Alda Merini

Bibliografia essenziale

Castelli, F. (2015), Corpi in Rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica, Mimesis.

Bertilotti,T., Scattigno, A. (2005 a cura di), Il femminismo degli anni Settanta, Viella.

Boch, G. (2001), Le donne nella storia europea, Laterza.

Botti, C. (2007), Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza, Il saggiatore.

Filippini, N. M. (2017), Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, Viella.

De Gouges, O. (1791) Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, ed. it. O. De Gouges, O. (2012) Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, Caravan, Roma.

Ibsen, H. (1972) Casa di bambola, Einaudi.

Passerini, L. (1991), Storie di donne e femministe, Rosenberg&Sellier, 1991.

Rich, A. (1995), Of woman born. Motherhood as experience and institution, Norton.

Rivolta Femminile (1970), Manifesto di Rivolta Femminile, in C. Lonzi, C. (1970) Sputiamo su Hegel e altri scritti, Rivolta Femminile.

Sileoni, S. (2008 a cura di), Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, Liberilibri, 2008, ed or. Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, 1789.

Stelliferi, P. (2015), Il femminismo a Roma negli anni Settanta, Bononia University Press.

Redazione

Del comitato di redazione fanno parte le responsabili dei contenuti del sito, che ricercano, selezionano e compongono i materiali. Sono anche quelle da contattare, insieme alle coordinatrici, per segnalazioni e proposte negli ambiti di loro competenz (...) Maggiori informazioni