Appunti sugli stereotipi maschili

di Lorenzo Marsili

                                  

Nessuno può limitarsi a sostenere che qualcosa non sembra sessista, o che secondo la propria opinione non lo è. La percezione e l’opinione sono esattamente i mezzi con i quali il sessismo si diffonde, si propone, si riproduce, si perpetua tra tutti gli attori sociali.
Quello che cercherò di raccontare qui sarà il modo in cui tutto questo avviene, e il modo in cui iniziare a pensare di opporsi, da uomo etero.
Sì, in quanto uomo etero, perché i vantaggi sociali che il patriarcato mi conferisce per il solo appartenere a questo genere sono pagati a caro prezzo, non solo dagli altri generi ma anche dal mio, che si vede confinato in un mondo di virilità, mascolinità, machismo, maschilismo, prepotenze, razzismi vari e che mi pone sempre obiettivi irraggiungibili.
Il tutto mentre mi istupidisce raccontandomi che tutto ciò è innato, immutabile, perché è, con la più ipocrita delle parole, naturale
L. Gasparrini[1]

I. La strumentalizzazione del concetto di natura e la contrapposta storicizzazione delle norme di genere operata dal femminismo

            Priulla afferma che «ogni potere interviene in primo luogo sugli usi dei corpi, e li descrive come “naturali” e “legittimi” oppure li interdice come eterodossi e li punisce come “innaturali” o “perversi”. […] Il potere delle prassi è tale che quando sono consolidate si coprono del velo dell’ovvietà: fanno sì che non pensiamo che possano svolgersi in altro modo. L’operazione di presentare come naturale ciò che ha una genesi culturale porta a ritenere automatici, ineluttabili, necessari modelli che sennò sarebbero suscettibili di una messa in discussione»[2]. La forma di potere patriarcale e sessista perpetua tacitamente il dominio maschile e le gerarchie di genere che esso implica. L’uso strumentale del concetto di natura porta a giustificare tutte le norme imposte alle quali ognuno e ognuna deve adeguarsi «per rientrare nella categoria degli individui “normali” mentre altri, classificati come irregolari e “diversi”, sono patologizzati, inferiorizzati, marginalizzati, o addirittura esclusi, perseguitati»[3].
Il genere nel quale si nasce diviene sin da subito elemento centrale dell’identità personale: alla differenza dei corpi sessuati si legano rappresentazioni, costruite lungo tutto l’arco della storia, che differenziano doveri, piaceri, ruoli, aspettative, vincoli e opportunità[4]. Il patriarcato spaccia per naturali contrapposizioni antitetiche, elimina tutti gli elementi che non rientrano nella sua logica binaria. «Un possente macchinario appiattisce la ricchezza delle differenze e delle sfumature, preclude una conoscenza complessa della vita e dei soggetti»[5]. Tutto ciò per Priulla fa si che per ogni individuo sia difficile «(e costoso e doloroso in termini personali) agire in difformità dal calco preformato, disattendere le aspettative e le pressioni sociali»[6].
L’azione oppressiva e costrittiva dei modelli di genere passa inosservata grazie ai meccanismi dell’habitus e della profezia che si auto adempie. Il termine habitus si usa «per definire una percezione della realtà ricevuta attraverso l’apprendimento»[7]. L’educazione rende invisibile l’azione delle norme imposte, esse vengono incorporate e agite senza essere messe in questione. Gli stereotipi maschili e femminili semplificano la realtà fino a prenderne il posto[8]. Il quadro si complica ulteriormente se consideriamo il fatto che proiettando sugli altri le nostre aspettative stereotipate facciamo in modo che essi effettivamente rispondano a queste aspettative[9]. L’unico modo per uscire da questo vicolo cieco è riattivare il senso critico, denaturalizzare ciò che è un prodotto storico, mettere in questione ciò che il senso comune mostra come ovvio.
Per compiere questo programma bisogna fare tesoro delle conquiste teoriche del femminismo. Questo movimento «è nato dalla possibilità di portare alla storia, alla cultura, alla politica tutte le vicende che riguardano il corpo, che sono il corpo: di sottrarle a quella naturalizzazione che ce le ha consegnate come immobili»[10]. È stata la rivoluzione femminista ad aver «posto in luce quanto lo schema della divisione dei ruoli di genere sia limitato e comprima la ricchezza e la varietà dell’esperienza umana»[11] e, prosegue Volpato, «l’aver dato voce alla necessità di liberare la tenerezza maschile e la competenza femminile è forse il suo risultato più importante»[12]. Affermando che “il personale è politico” il femminismo mette in crisi quella dicotomia tra privato e pubblico imposta dalla struttura di potere patriarcale al fine di perpetuare comportamenti maschilisti senza che essi possano essere messi in questione nello spazio comune, rompe quella opposizione/separazione funzionale al patriarcato tra naturale (femminile) e civile (maschile)[13]. Per iniziare una lotta antisessista a partire dal posizionamento degli uomini e dalla messa in discussione del modello di mascolinità egemone[14] serve, come segnala Gasparrini, «cominciare un lavoro di traduzione, adattamento, rielaborazione, discussione di temi e pratiche efficaci nei femminismi e che facendo perno sul “nemico comune” patriarcale possano dare all’uomo eterosessuale antisessista certezze, se non altro per iniziare il suo percorso, la sua diserzione»[15].

II. Analisi degli stereotipi maschili

Vivo all’interno della gabbia comportamentale in cui sono cresciuto: uno spazio angusto, ma vi sono così assuefatto da confondere le sbarre con lo sfondo, con il paesaggio
A. Marcellini[16]  

Volpato afferma che il privilegio maschile consiste nel fatto che siano solo le donne a essere pensate in termini di genere, a essere costantemente ricondotte alla propria condizione femminile. L’uomo invece si arroga il diritto a una presunta neutralità, parla a nome dell’intero genere umano disconoscendo il condizionamento operato dalla sua mascolinità[17]. Negli ultimi decenni, però, si sono sviluppati i cosiddetti men’s studies i quali si pongono come obiettivo la storicizzazione dell’immagine del cosiddetto uomo “normale” e il compito di mostrare la parzialità dell’indebita coincidenza tra le sorti del genere maschile e quelle dell’intera umanità. Il nodo focale di questa visuale teorica consiste nell’analisi e nella decostruzione degli stereotipi maschili[18]. Concedendo maggior presenza e voce ai men’s studies, sostiene Ruspini, gli uomini potrebbero scoprire «la possibilità di liberarsi da molti spettri: gli spettri di un passato (antecedente alla tarda modernità) popolato di mascolinità unidimensionali e di uomini che erano non disposti e non socializzati al dialogo con se stessi, il proprio corpo, con gli altri uomini, con le donne, con il mutamento sociale; gli spettri – opprimenti e densissimi – del patriarcato e di un’egemonia maschile artificiale e fittizia sostenuta dall’aggressività»[19].
Nei successivi paragrafi riporterò vari stereotipi maschili suddividendoli nelle diverse fasi della vita. Cercherò – servendomi dei lavori di Volpato, Priulla e Gasparrini – di effettuarne un’analisi quanto più completa individuando anche le loro radici, l’influenza che essi hanno avuto nella mia esistenza e le possibili vie di uscita.      
II. 1. «Non fare la femminuccia!»

Sin dalla nascita i bambini e le bambine sono pensati come diversi e tutta la loro educazione è costruita a partire da questa differenza. «Ma siamo proprio sicuri che tutto questo sia corretto? Che la visione dicotomica che vuole i generi così diversi l’uno dall’altro poggi su basi scientifiche? […] Studi recenti e approfonditi ci dicono che le differenze tra uomini e donne su specifici tratti psicologici impallidiscono fino a scomparire di fronte alla variabilità delle differenze individuali all’interno di ciascuna categoria di genere. Detto altrimenti, ci sono più differenze tra donna e donna che tra il gruppo maschile e il gruppo femminile, considerati nel loro insieme»[20].
Se quindi non è dimostrabile una differenza biologicamente determinata tra i tratti psicologici degli uomini e delle donne è evidente che l’educazione attuale, operando sin dalla tenera età una netta distinzione tra le “cose da maschio” e le “cose da femmina”, porti a una differenziazione coercitiva sui comportamenti ritenuti accettabili per i due sessi. Accade così che «la vivacità sarà lodata nel bambino come indizio di temperamento dominante verso il mondo circostante, sarà rimproverata alla bambina perché poco consona al suo più adatto ruolo di cura e di riflessione; quella sensibilità che nella bambina rassicura della sua indole ripiegata su di sé e sull’attenzione ai sentimenti, nel bambino viene decisamente rimproverata perché non adatta al comando, all’azione, alla risolutezza che nel maschio è considerata spontanea. […] Il risultato di queste abitudini combinate è noto: è considerato naturale per gli uomini parlare poco e agire molto, mentre al contrario è attribuita al sesso femminile l’innata loquacità unita a una certa irrisolutezza. Sarà il caso di cominciare a pensare che questi siano invece, come tanti altri, comportamenti appresi e non iscritti nel codice genetico di maschi e femmine»[21].
Le regole e le divisioni di genere sono apprese in modo inconscio durante gli anni dell’infanzia, anni centrali per l’apprendimento e anche quelli in cui la richiesta ad adeguarsi a modelli imposti è più forte che in qualsiasi altra età della vita. Dalle diverse aspettative che hanno i genitori dipendono i diversi stili relazionali che essi intrattengono con i propri figli e figlie e i diversi modi di socializzarli alle emozioni[22]: i comportamenti ritenuti appropriati al sesso del bambino o della bambina sono incentivati, quelli considerati non idonei repressi[23]. È evidente che «una società che prescrive […] gli aggettivi adatti a una femminuccia e quelli consoni a un maschietto non ha alcun interesse a concedere loro la possibilità di esplorare il mondo per decidere in piena autonomia che tipo di persona vogliono diventare»[24].
Sono stato un bambino dall’indole insicura, indecisa, più orientato alla riflessione che all’azione. Avevo bisogno di parlare a lungo delle mie emozioni e delle mie esperienze per poterle elaborare. Credo che, viste le mie inclinazioni, il fatto di essere nato in questa società in un corpo maschile mi abbia causato molte sofferenze.

II. 2. «Non fare il frocio! Non fare lo sfigato!»         

Gasparrini afferma che «l’abietto è di volta in volta il non-soggetto che non si sottopone alla volontà normativa patriarcale: il maschio che non appare aggressivo, machista, interessato al sesso (“Frocio!”), […] il ragazzo non competitivo o non interessato agli obiettivi e alle dinamiche del gruppo maschile dominante (“Sfigato!”)»[25]. In questo paragrafo cercherò di esporre le principali sfaccettature del modello di maschilità imposto nell’adolescenza e nell’età adulta.
Il nocciolo centrale del modello machista consiste nel contemplare un’unica via per essere un “vero uomo”, ovvero il dover aderire a priori a tutte quelle norme che orbitano intorno alla figura del maschio eterosessuale vincente senza avere la possibilità di maturare liberamente le proprie inclinazioni e i propri desideri[26]. «I rapporti sono posti immediatamente non come alla pari, per una reciproca scoperta, ma antagonistici, per una reciproca gerarchia: gli altri generi sono o sopra o sotto, mai alla pari»[27]. Questa contrapposizione instaura in ogni ragazzo il compito dell’auto-differenziazione dal femminile, il compito infinito e interminabile della mascolinizzazione del corpo e della mente. Gli adolescenti devono cancellare le influenze effemminanti della madre e acquisire i modi bruschi che preludono alla durezza dell’età adulta. La loro esistenza è costellata da prove di virilità che hanno come fine il confermare la propria appartenenza al gruppo maschile senza essere relegati tra i deboli e i pavidi[28].
Volpato afferma che «esiste una perpetua preoccupazione maschile, che può trasformarsi in angoscia, di fronte alla necessità di dimostrare la propria mascolinità. Non si è mai maschi abbastanza, e se non lo si è, allora si è pericolosamente “non maschi”. […] La virilità è una nozione eminentemente relazionale, costruita di fronte e per gli altri uomini e contro la femminilità, in una sorta di paura del femminile, e innanzitutto di se stessi»[29]. È in questo contesto che si inserisce lo stigma dell’omosessualità: l’omofobia diviene mezzo per affermare la propria “normalità”, per difendere la propria virilità minacciata. Anche chi non agisce in modo omofobico monitora attivamente il proprio comportamento al fine di non essere considerato omosessuale[30]. Fachinelli scrive che «di fronte all’omosessuale, è come se ciascuno sentisse messa in discussione la sua posizione stessa di maschio e ciò che lo differenzia come individuo; come se quella posizione si rivelasse improvvisamente precaria, o incerta, più di quanto succede di solito. Di qui le reazioni di rifiuto e disprezzo»[31].
Queste prescrizioni hanno forti ripercussioni sui primi rapporti che l’adolescente maschio ha con la sessualità. Gasparrini sostiene che «se si è uomo, ragazzo, dopo anni di sfottò per ogni aspetto sentimentale della propria indole – in quanto modo poco maschile di porsi –  […] [l’esperienza] sentimentale verrà abbandonata per molto tempo per essere poi ripresa, forse, chissà quando, e rimpiazzata nel pensiero e nell’azione dall’obiettivo numero uno del maschio che vuole crescere: il sesso. Ma, che sia chiaro, l’obiettivo non è tanto l’atto sessuale in sé quanto il desiderio di dare una chiara indicazione della propria mascolinità»[32]. Il rapporto sessuale si fa prestazione per verificare la propria identità: il maschio deve dimostrare costantemente la propria resistenza e la propria potenza senza poter partire da sé e dai propri desideri e poter scoprire il desiderio dell’altra. Viene così precluso un rapporto fondato sulla scoperta reciproca[33] e da ciò scaturisce la mancanza del riconoscimento del piacere femminile e l’oggettificazione del corpo della donna[34].
Vengo al secondo insulto, ovvero “sfigato”. Esso si gioca sull’intreccio di due diversi livelli di significato. Quello letterale corrisponde a “colui che non riesce a trovare neanche una partner”. Però «nel campo semantico dell’espressione “sfigato” […] rientra anche colui che fa un lavoro poco qualificato e poco considerato»[35]. Ciò a segnalare che nella visione patriarcale lo status sociale dell’impiego del maschio é direttamente proporzionale al successo o fallimento della sua vita amorosa. In riferimento a ciò Gasparrini commenta che «il patriarcato ha adottato il capitalismo come modo e motivo per tenere saldo a sé l’uomo eterosessuale, come strumento perpetuante la gerarchia di potere; il suo modo di fare oscillante permette di continuare nei secoli una illusione di successo personale, che in realtà è un successo del sistema che produce “uomini di successo”, e di affermazione su altri uomini, “falliti” e “sfigati”, che sono l’esempio negativo necessario a perpetuare l’ambizione di potere necessaria ad alimentare quel sistema»[36].
A partire dall’adolescenza tutti questi stereotipi sono spesso alimentati dal gruppo di amici sessista. La vicinanza tra amici maschi «è probabilmente fondata sul tacito accordo di virilità, di unione sodale in quanto maschi riconosciutisi l’un l’altro. Ciò di cui parlano tra loro è un mondo popolato da altri maschi più virili e più vincenti. […] La cerchia, anche extrafamiliare, continua nel lavoro incessante di togliere ed eliminare possibilità alternative al patriarcato: con il crescere dei desideri di conoscenza, di esplorazione del mondo e di se stessi, della volontà di realizzare i propri desideri, aumentano le costrizioni esterne che cercano di contenere tutte queste energie nell’unico modo ammesso di espressione simbolica: l’eterosessualità maschile patriarcale»[37]. Volpato in tal proposito parla di male bonding, ovvero di quelle relazioni tra uomini che legittimano la superiorità maschile tramite rassicurazioni fornite dalle credenze ideologiche e dalle complicità quotidiane. «L’omosocialità favorisce la separazione tra uomini e donne, da un lato, e tra mascolinità egemoni e non egemoni, dall’altro, dettando regole di comportamento basate su distacco emotivo, competitività, oggettivazione della donna»[38].
Ho sentito a lungo il peso dei due insulti presi in esame gravare sulla mia esistenza. Ho percepito sin dalla prima adolescenza l’ingiustizia degli usi sessisti e ho sempre disertato le norme di comportamento machiste, però mi rendo conto che l’ambiente sessista in cui ero immerso ha fatto si che io abbia percepito per lungo tempo il mio posizionamento non egemonico come una mancanza, un vuoto incolmabile rispetto a una norma che non poteva in alcun modo essere sostituita con altre pratiche poiché era posta sul piano della naturalità. L’effetto di ciò è stato l’esclusione dal gruppo di maschi dominanti o l’inclusione al prezzo di essere l’individuo da ridicolizzare, il termine di paragone negativo tramite il quale gli altri membri del gruppo potessero affermare per differenza la propria virilità oppure ergersi a maestri di vita per espormi i segreti della maschilità vincente. Un altro salato prezzo da pagare per il mio posizionamento è stato il totale allontanamento dalla sessualità poiché non vi erano alternative a un “provarci” che non fosse un’oggettivizzazione dell’altra, non vi erano alternative alla repressione totale dei sentimenti. Credo che se avessi letto questi testi all’inizio della mia adolescenza mi sarei risparmiato tanto dolore.

II. 3. La diserzione possibile

«L’uomo eterosessuale, imprigionato dalla nascita nelle costrizioni della maschilità virile, vincente, oppressiva, alpha, obbligato a parlare il linguaggio, a praticare le abitudini e a indossare la divisa del macho per essere socialmente accettato, non deve attuare una resistenza, ma una “diserzione”; e per questo non c’è né una storia né un senso comune a cui richiamarsi»[39]. Gasparrini sostiene che lo strumento centrale per effettuare la diserzione del patriarcato è l’ironia: «svelare le ambiguità del potere maschile eterosessuale, privarne di certezze la gerarchia sociale, smascherare a quali condizioni sussiste il patriarcato è un compito politico evidentemente di natura ironica»[40]. Il ridicolo, l’impaccio, il goffo sono strumenti per mettere in discussione il proprio modo di presentarsi, la propria fisicità. L’uso del proprio corpo e la presa di parola in momenti diversi da quelli imposti e ritenuti “naturali” serve per mostrare che in questi ultimi non vi è nulla di immutabile. Disertare il patriarcato vuol dire consolidare relazioni non gerarchiche, confrontarsi con il mondo femminista, gay, queer[41]. «La necessità dell’ironia sta nel dover costruire tutto questo dentro il patriarcato e mentre il patriarcato funziona ancora; non solo come fornitore di linguaggio, immagine sociale, abitudini e atteggiamenti, ma anche e soprattutto come educatore, che ha cresciuto anche gli uomini che con questi strumenti vorranno successivamente opporsi alle sue direttive»[42].
Priulla afferma che a partire dagli anni 70 si sono creati gruppi maschili impegnati nella ridefinizione della mascolinità, convinti che «fuori dalle vetuste strutture di potere c’è una vita personale e sociale migliore»[43]. L’uomo che si inoltra in tale percorso «scopre la bellezza della fragilità, la possibilità liberatoria di raccontarsi e di mostrare le emozioni anziché nasconderle. Impara ad ascoltare: attività che la storia non gli ha mai chiesto»[44].

III. Manifesto Xenofemminista: una proposta anti-naturalista per l’“abolizionismo del genere”

            Nelle prime righe di Xenofemminismo: una politica per l’alienazione si afferma: «la libertà non è un dato di fatto – e non è certamente data da qualcosa di “naturale”. La costruzione della libertà implica non meno, ma più alienazione; l’alienazione è il lavoro di costruzione della libertà. Nulla dovrebbe essere accettato come fisso, permanente o “dato” – né le condizioni materiali né le forme sociali. XF muta, naviga e sonda ogni orizzonte. Chiunque sia stat* ritenut* “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci. […] XF è veementemente anti-naturalista. Il naturalismo essenzialista puzza di teologia – prima viene esorcizzato, meglio è»[45]. Se il concetto di natura viene sistematicamente strumentalizzato al fine di rendere invisibile l’oppressione, gli stereotipi, la violenza costrittiva effettuata su ogni corpo, bisogna dichiararsi anti-naturalisti. Fare ciò consiste nel rifiutare il “dover essere”[46] che ci viene imposto, vuol dire accettare come “dover essere” solo la propria progettualità per costruire un sé il più libero possibile, sempre in divenire, che non sia mai il frutto di un’essenzializzazione.
In passi successivi del manifesto[47] si torna sul concetto di natura per affermare che la visuale anti-naturalista dello Xenofemminismo porta con sé l’idea che nulla è sacro, ma ciò significa unicamente che nulla è sovrannaturale. È quindi l’anti-naturalismo normativo di questo pensiero a trascinare verso un «naturalismo ontologico incrollabile»: è naturale tutto ciò che c’è. Nell’essere umano natura e storia coincidono, qualsiasi norma storicamente determinata è naturale poiché non può essere definita come sovrannaturale. Questo però non implica che sia giusta, sta a noi il compito di costruire un mondo giusto in cui poter essere liberi. Il manifesto si chiude sostenendo che «abbiamo bisogno di nuove possibilità concrete di percepire e agire, senza i paraocchi delle identità naturalizzate. In nome del femminismo, la “Natura” non sarà più ricettacolo di ingiustizie o la base per qualsiasi tipo di giustificazione politica! Se la natura è ingiusta, cambiala!»[48].
La conseguenza più importante dell’anti-naturalismo è il perseguimento dell’“abolizionismo del genere”. Tale prospettiva non si propone di «eradicare quelli che sono attualmente considerati i tratti “di genere” della popolazione umana. […] Non abbiamo alcun interesse a vedere ridotta la diversità sessuata del mondo. Che sboccino un centinaio di sessi! Con il termine “abolizionismo del genere” intendiamo l’ambizione di costruire una società i cui tratti attualmente riuniti sotto la rubrica del genere non possano più fornire una griglia per il funzionamento asimmetrico del potere»[49]. “Abolizionismo del genere” vuol dire distruzione della gerarchia di potere patriarcale. Esso si pone in un’ottica prettamente anticapitalista proprio perché «non è possibile intervenire sui rapporti di genere senza intervenire nello stesso tempo su quelli di classe»[50].
Per me “abolizionismo del genere” significa anche creare un’educazione che cancelli gli stereotipi di genere, che si basi sui concetti di uguaglianza e differenza. I due termini non sono in contraddizione poiché «l’opposto di uguaglianza non è differenza ma disuguaglianza e l’opposto di differenza non è uguaglianza ma assimilazione. […] L’uguaglianza è il denominatore comune presente in ogni essere umano, a cui va resa giustizia; la differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano e la peculiarità delle sue esperienze»[51]. Serve un’educazione che sappia avere occhi liberi da pregiudizi, che sappia osservare le inclinazioni e i desideri di ogni singolo individuo e sia in grado di incentivarli, che nella sua pratica faccia piazza pulita di ogni schema imposto: la differenza è ciò emerge nella relazione tra singolarità, non può essere il frutto di una divisione imposta. «Immaginate quanto saremmo stati più felici, quanto più liberi di vivere le nostre vere individualità, se non avessimo avuto il peso delle aspettative di genere»[52].
Se la differenza biologica tra uomo e donna è evidente è però innegabile che «quali siano le differenze tra i sessi sarà difficile saperlo fino a quando i sessi saranno trattati diversamente, fino a quando non saranno considerati sullo stesso piano»[53]. Pensare i generi come categorie non può che essere oppressivo e costrittivo poiché «quando si ragiona in termini categoriali si tende a massimizzare le differenze tra le categorie e a minimizzare le differenze entro le categorie»[54]. È proprio il pensare attraverso le categorie di genere che può compiere quell’assimilazione che significa «essere costretti a essere simili agli altri e diversi da sé stessi»[55], che può rendere insensibili alla percezione delle differenze tra ogni singolarità producendo la violenza delle separazioni dicotomiche.
“Abolizionismo del genere” significa poter essere se stessi, dove ciò non ha alcun riferimento alla ricerca di un’essenza della propria identità personale. Essere se stessi significa avere la facoltà di realizzare la propria libertà al di là dai condizionamenti imposti, vuol dire poter costruire, decostruire, ricostruire il proprio sé, vuol dire autodeterminazione.

Note 

[1] L. Gasparrini, Diventare uomini, Settenove, Milano 2016, pp. 19 – 20.

[2] G. Priulla, La libertà difficile delle donne, Settenove, Milano 2016, pp. 7 – 8.

[3] Ivi, p. 10.

[4] Ivi, pp. 11 – 12, 37. Anche Volpato si sofferma su tale tematica e sostiene che queste credenze dipendono dal fatto che «chi aderisce a questa visione crede che le differenze biologiche tra i sessi determinino le differenze psicologiche e che quindi pensieri, sentimenti e azioni di uomini e donne siano biologicamente fissati e immutabili», C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, Laterza, Bari 2013, p. 34.

[5] Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 159.

[6] Ivi, p. 11. Successivamente Priulla afferma che «in maggioranza, coloro che avvertono una dissonanza tra ciò che desiderano e le richieste dell’ambiente in cui vivono tendono ad aderire alle aspettative di ruolo. Per non sentirsi rifiutati ed emarginati, per non provare ansia, per non rischiare la confusione identitaria, si sentono costretti a vivere dissociandosi dagli aspetti di sé che li collocherebbero “fuori norma” come maschi o come femmine», ivi, p. 27.

[7] Ivi, p. 20.

[8] Priulla però sottolinea che «se è vero che gli stereotipi pesano su entrambi i generi è anche vero che storicamente sono serviti a giustificare la disuguaglianza tra uomini e donne, ponendo queste ultime in una posizione di inferiorità», ivi, p. 68.

[9] Un esempio che mi sembra particolarmente interessante riportare, trattato sia da Priulla che da Gasparrini, è quello della paternità: terreno di gravosi stereotipi e proprio per questo di possibili trasformazioni radicali. «Nell’immagine stereotipata agisce un codice potente che influisce sulla formazione delle identità e delle stesse capacità delle persone. […] Può convincere ad esempio […] i padri a non cantare la ninna nanna perché “tanto il bambino vuole la mamma”. Di fronte al confronto con lo stereotipo, con il modello che la nostra cultura ha costruito per noi, impariamo a uccidere una parte di noi stessi, quella non corrispondente alle aspettative», ibidem. «Moltissimi padri si sentono ancora inadeguati a gestire con il proprio corpo il rapporto con il neonato o la neonata di cui sono genitori perché il loro corpo è stato abituato da sempre a usare il massimo della forza, nel lavoro e nelle relazioni; quando devono regolare quella forza per accudire e accogliere, scoprono di non saperlo fare e pensano che a questo siano “più adatte” le donne e il loro corpo. Tutto questo, però, gli è stato insegnato, non è affatto “naturale” o innato. Il corpo del padre è uno dei tanti luoghi da dove potrebbe partire una rivoluzione antisessista»,  L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., p. 137.

[10] G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 14.

[11] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 145.

[12] Ibidem.

[13] L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., pp. 142 – 146. G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 155.

[14] «Con mascolinità egemone ci si riferisce a quell’insieme di pratiche che perpetuano il dominio dell’uomo sulla donna, sottese a livello ideologico dall’eterosessualità, dalla presa di distanza dalla femminilità, da meccanismi di dominazione. […] Nella società capitalistica occidentale l’ideale maschile egemone è rappresentato, secondo Connell, da uomini competitivi, orientati al successo, aggressivi, cinici, anaffettivi, eterosessuali». C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 6.

[15] L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., pp. 154 – 155.

[16] G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 108.

[17] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., pp. 3 – 4. Anche Priulla afferma: «come hanno notato gli autori dei men’s studies, delle donne si parla “in quanto donne” (questione femminile, condizione femminile, specifico femminile); degli uomini in quanto uomini non si parla mai», G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 15. In Italia tale fenomeno è legittimato implicitamente dall’uso della grammatica: «resta invisibile il fatto che il maschile assegna agli uomini il diritto di parlare per tutti, una specie di possesso della lingua entro un sistema grammaticale che non prevede il neutro. […] Le parole universalizzate significano il mondo, producono immaginari, costruiscono gerarchie, legittimano esclusioni», ivi, pp. 115 – 116.

[18] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., pp. 5 – 6.

[19] L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., pp. 113 – 114.

[20] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., pp. 25 – 26.

[21] L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., pp. 49 – 50.

[22] Per i maschi «il contenimento delle emozioni provoca quello che Levant ha definito “l’alexitimia normativa maschile”, vale a dire l’incapacità di identificare, descrivere e provare alcune emozioni. Gli uomini sono invitati a controllare i sentimenti e a mostrarsi stoici, al fine di essere meno vulnerabili e mantenere la posizione di dominio; non tutte le emozioni però sono proibite: paura, empatia e tenerezza vanno nascoste, ma non la rabbia, emozione associata allo status elevato». C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 85.

[23] G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., pp. 24 – 25. Mi sembra interessante considerare il motivo dell’interdizione del pianto in pubblico per i maschi alla luce degli studi sulle sue cause cognitive. Miceli afferma: «abbiamo cercato di identificare una causa psicologica unitaria del pianto, cioè un comune denominatore cognitivo, la percezione di impotenza, sottostante l’eterogeneità (e a volte netta contrapposizione) dei contesti in cui si piange. La percezione di impotenza è la diretta conseguenza di ciò che Lazarus chiama “appraisal secondario negativo”, cioè della valutazione negativa sulle proprie capacità di fronteggiare una frustrazione, ed è insieme la premessa della resa. Il pianto esprime questo “crollo” della resistenza, ed è un segnale di resa, se non un mezzo per arrendersi. In ogni caso, tende a svolgere un ruolo di rinforzo della percezione di impotenza» M. Miceli, Il pianto: cause e scopi, in La mente del cuore, a cura di I. Poggi, Armando, Roma 2008, p. 161. I “veri uomini” non possono piangere in pubblico poiché devono sempre rispondere all’aspettativa di mostrarsi potenti, attivi, efficaci.

[24] G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 24. In un passo successivo Priulla cita Sforza per constatare gli effetti della prescrizione di durezza maschile: «la cosa peggiore che facciamo ai maschi – spingendoli a credere di dover essere duri – è che li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costretto a essere duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché insegniamo loro a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi», ivi, p. 36.

[25] L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., p. 98.

[26] Ivi, pp. 72 – 73.

[27] Ivi, p. 72. A tal proposito Volpato, riferendosi a uno studio di Murnen, afferma che «una meta-analisi ha provato che aderire in modo acritico al ruolo maschile favorisce l’esercizio della violenza, perché incoraggia gli uomini a essere dominanti e aggressivi e insegna loro che le donne sono inferiori e meritano la violenza». C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 84.

[28] Ivi, pp. 43 – 44. Tali tematiche sono affrontate anche in G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., pp. 102 – 105.

[29] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 44. Altri riferimenti a tale tematica sono contenuti in ivi, p. 33.

[30] Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 38.

[31] Ivi, p. 103.

[32] L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., pp. 69 – 70.

[33] Ivi, p. 71, 85.

[34] Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., pp. 200 – 201. C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 85. Riguardo quest’ultimo tema Gasparrini pone l’attenzione sulla pornografia e sul “rimorchiare” come pratiche di oggettivazione del corpo della donna. «Quello che la pornografia commerciale abitua a fare […] è proprio praticare l’indifferenza verso l’altra, ridotta al manichino/attrice di un copione scritto da un uomo solo», L. Gasparrini, Diventare uomini, cit., p. 86. «Molti non riescono a capire che non esiste un “provarci”, un approccio, un abbordare che non sia rendere l’altro oggetto, e che quindi questo altro, cui nessuno ha chiesto prima esplicitamente se è d’accordo a essere reificato, potrebbe trovare qualcosa da ridire sul suo sedicente innocuo modo di fare. Molti uomini non si chiedono, neanche quando a domandarglielo sono tanti e tante, se possa esistere un modo alternativo di manifestare un lecito interesse sessuale che non sia rendere l’altro un mero oggetto di desiderio. Non gli interessa neanche sapere se possa esistere un altro modo, non vedono perché cercare di trovare un altro modo. Molti uomini non vogliono credere che ci sia una differenza enorme tra “ciao” e “ciao bella”; tra uno sguardo e quello sguardo; tra il conoscere e il voler conoscere qualcuno; e che tutte queste differenze non contino nulla», ivi, p. 100.

[35] Ivi, p. 119.

[36] Ivi, p. 123 – 124. Per quanto riguarda il tema del fallimento mi sembra interessante l’analisi compiuta da “Bifo” Berardi sugli omicidi di massa compiuti da sostenitori del “darwinismo sociale” che però non si sentono forti abbastanza per poter competere. Non è un caso che tutti i massacri analizzati siano stati compiuti da maschi. “Bifo” sostiene che la psicologia degli autori di tali stragi potrebbe essere etichettata «come bisogno suicida di affermazione neoliberale. Dopo la proclamazione neoliberista della fine della lotta di classe, le sole categorie rimaste sono quelle di vincente e di perdente. Non più capitalisti e operai, non più sfruttatori e sfruttati. O sei forte e furbo, o meriti la tua miseria. La vittoria neoliberista si fonda sull’adesione di massa, per lo più inconscia, alla filosofia della selezione naturale. L’assassino di massa è uno che crede nel diritto di vincere del più forte e del più adatto, ma al tempo stesso sa o sente di non essere né il più forte né il più adatto, e quindi sceglie il solo atto possibile di rappresaglia e di auto-affermazione: uccidere ed essere ucciso», F. “Bifo” Berardi, Heroes, Baldini&Castoldi, Milano 2015, p. 64.

[37] Gasparrini, Diventare uomini, cit., pp. 91 – 92.

[38] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 50. Nelle pagine successive Volpato fornisce altri elementi sulle relazioni maschili: gli uomini tendono a essere più restii delle donne a chiedere aiuto in caso di bisogno e quando ciò accade lo fanno tardivamente. Ciò si spiega in parte con il maggior isolamento sociale a cui sono soggetti gli uomini: rispetto alle donne essi sviluppano poche e meno strette amicizie e le amicizie maschili generalmente tendono a offrire minor supporto emotivo rispetto a quelle femminili. Ivi, pp. 51 – 53. «La particolare vulnerabilità maschile nelle relazioni interpersonali trae quindi origine dalla difficoltà a parlare delle proprie emozioni e ad abbandonarsi all’intimità», ivi, p. 54.

[39] Gasparrini, Diventare uomini, cit., p. 153.

[40] Ivi, p. 152.

[41] Ivi, pp. 152 – 154.

[42] Ivi, p. 154.

[43] Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 106.

[44] Ivi, p. 107. Tale tematica è ripresa anche in ivi, pp. 239 – 240.

[45] Laboria Cuboniks, Xenofemminismo: una politica per l’alienazione,     http://www.laboriacuboniks.net/it/index.html, par. 0x01

[46] In riferimento al “dover essere” che ogni singolo assume su di sé per uniformarsi a un modello imposto mi sembra importante tentare una riflessione a partire dal concetto psicologico di ambivalenza. Monaci sostiene che, secondo Katz, «il fatto di sentirsi ambivalente determinerebbe uno stato di tensione che il soggetto risolve con una estremizzazione delle risposte verso gli individui stigmatizzati. Un individuo con atteggiamento ambivalente può quindi reagire con maggior violenza di una persona con atteggiamento chiaramente negativo», M. G. Monaci, Ambivalenza, in Introduzione alla psicologia delle emozioni, a cura di V. D’urso e R. Trentin, Laterza, Urbino 1998, p. 167. Successivamente Monaci afferma anche che una «fonte di ambivalenza dovuta all’agire delle norme sociali è il contrasto a volte esistente tra ciò che proviamo e ciò che dovremmo provare ed esprimere in determinate circostanze», ivi, p. 171. Alla luce di ciò, è possibile affermare, ad esempio, che la violenza maschile possa scaturire da questa ambivalenza tra un modello che impone la durezza, l’aggressività e un sentire che non corrisponde a ciò che il “dover essere” detta? È possibile che si preferisca la crudeltà sull’altro piuttosto che provare a pieno il senso di impotenza che si sente proprio perché quel senso di impotenza è interdetto dalle norme di genere?

[47] Laboria Cuboniks, Xenofemminismo: una politica per l’alienazione, cit., par. 0x11

[48] Ivi, par. 0x1A

[49] Ivi, par. 0x0E

[50] C. Arruzza e L. Cirillo, Storia delle storie del femminismo, Alegre, Roma 2017, p. 81.

[51] Ivi, p. 36.

[52] Dall’intervento che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ha tenuto durante una TED Talk del 2013, in G. Priulla, La libertà difficile delle donne, cit., p. 41.

[53] C. Arruzza e L. Cirillo, Storia delle storie del femminismo, cit., p. 88.

[54] C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, cit., p. 28.

[55] . Arruzza e L. Cirillo, Storia delle storie del femminismo, cit., p. 93.

 

    Bibliografia

G. Priulla, La libertà difficile delle donne, Settenove, Milano 2016.
L. Gasparrini, Diventare uomini, Settenove, Milano 2016.
C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, Laterza, Bari 2013.
Laboria Cuboniks, Xenofemminismo: una politica per l’alienazione,        http://www.laboriacuboniks.net/it/index.html
C. Arruzza e L. Cirillo, Storia delle storie del femminismo, Alegre, Roma 2017.
F. “Bifo” Berardi, Heroes, Baldini&Castoldi, Milano 2015.
M. G. Monaci, Ambivalenza, in Introduzione alla psicologia delle emozioni, a cura di V. D’urso e R. Trentin, Laterza, Urbino 1998.
M. Miceli, Il pianto: cause e scopi, in La mente del cuore, a cura di I. Poggi, Armando, Roma 2008.
J. Butler, La vita psichica del potere, Mimesis, Milano 2013.
           

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