“Revolution in the making” – Intervento di Claudia Korol

Provengo dal sud di Abya Yala. Cosi chiamiamo, con un termine preso dal popolo Kuna –originario di Panama e della Colombia -, il territorio che gli invasori europei denominarono America, in onore a uno dei loro, il commerciante e navigatore fiorentino Amerigo Vespucci. Scoprì che quelle terre, in cui era arrivato Cristoforo Colombo, non erano le Indie, ma un continente sconosciuto agli europei fino a quel momento.
Abya Yala significa “sangue che scorre libero” o “terra di sangue vitale”. Da Abya Yala – dal nostro sangue che vuole correre libero e senza frontiere – porto l’emozione delle donne che vibra con la rivoluzione delle donne kurde. Porto l’emozione che, attraverso il loro esempio, ci solleva dai nostri dolori. Ci sentiamo ferite quando una bomba cade su Afrin, o quando perdiamo valorose guerriere sotto i colpi da fuoco. Sappiamo in ogni caso che loro sono già sangue che corre libero, non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo.
Noi, femministe popolari dell’Abya Yala, celebriamo e ci compromettiamo con ogni vittoria, con ogni bandiera che si alza nei territori vinti dalla lotta rivoluzionaria delle donne kurde. Per questo le nostre prime parole sono di riconoscimento e di amore verso chi rende possibile non solo questo incontro, ma l’incontro quotidiano delle nostre speranze e delle nostre azioni, per rendere reali le nostre speranze. Grazie compagne. Grazie a quelle che ci sono e a quelle che non ci sono. Un saluto alle combattenti sulle montagne, nelle città, nei paesi. Un saluto alle combattenti nelle carceri turche. Un saluto a chi ci accompagna con la memoria ribelle delle donne.
Vi porto dal sud del mondo le lacrime e l’allegria, il brivido che abbiamo sentito quando durante lo Sciopero Internazionale delle Donne abbiamo ascoltato, in una Plaza de Mayo pienissima di donne, lesbiche, travestite/i e trans, le parole della compagna Bese Eezincan, portavoce del movimento delle donne del Kurdistan. Ha incoraggiato il nostro movimento, Ni Una Menos, e ha rotto con il suo messaggio le frontiere e la distanza. Abbiamo ascoltato ognuna delle sue parole, sostenute dai gesti autonomi di donne libere. Voi, con la vostra diplomazia femminista e popolare, avete teso ponti da continente a continente. Ci avete insegnato che è possibile rivoluzionare tutto, non solo i mezzi di produzione, ma anche i modi di riproduzione della vita, i modi di pensare e sentire il mondo. Il nostro ringraziamento alla vostra lotta, al vostro coraggio, alla capacità di resistenza, alla sfida materiale e spirituale al patriarcato capitalista e coloniale. Avvaloriamo le finestre che avete aperto per ripensare il femminismo e le teorie sociali, a partire dalla prospettiva della Jineoloji, la scienza delle donne. Idee e proposte che ampliano le possibilità di capire e trasformare la realtà.
Porto la voce delle femministe dell’Abya Yala, una rete di collettive di donne, lesbiche, traveste/i, trans, indigene, nere, campesine, migranti, afrodiscendenti, donne dei quartieri popolari, lavoratrici. Abbiamo assunto collettivamente le esperienze che recuperano e affermano l’idea di comunità, che ricreano il femminismo a partire dal nostro corpo e territorio, dalle nostre esperienze e dai nostri sentimenti, decolonizzando i nostri sguardi sul mondo. Sguardi attraversati dalle logiche occidentali razziste, machiste, mercantiliste, colonizzatrici e colonizzate. Sentiamo la possibilità di ri-conoscerci come donne e come dissidenti del regime etero-patriarcale che sostiene e riproduce la famiglia patriarcale e l’organizzazione sociale capitalista.
Noi, femministe dell’Abya Yala, facciamo parte di popoli storicamente rasi al suolo, saccheggiati, sterminati dai centri capitalisti che garantiscono la riproduzione ampliata del capitale attraverso politiche di morte. Ci incontriamo davanti alla sfida di rompere –politicamente e culturalmente- le frontiere degli stati nazione imposte dal colonialismo, per sentirci parte di uno stesso continente che invece è stato frammentato dalle logiche patriarcali, dalla conquista e colonizzazione prima europea, poi nordamericana e oggi dalle corporazioni trans-nazionali, di differenti origini.
Stiamo cospirando insieme per costruire i nostri mondi a partire dal territorio corpo e dal territorio terra, dalle nostre genealogie di ribellioni, dai saperi delle streghe di ogni tempo, dagli sguardi del femminismo popolare. Pensando al corpo come primo territorio e alla comunità come corpo collettivo.
Noi, femministe dell’Abya Yala, facciamo parte di organizzazioni che pongono limiti all’espansione distruttiva del capitale, alle sue armi, ai suoi mezzi massivi di disinformazione, alla sua cultura consumistica e mercantilizzante di tutte le dimensioni della vita. Siamo della terra dove è nata Alina Legerin, la giovane medica ‘piantata’ nelle terre del Kurdistan, dove si è incontrata con i più puri dei suoi sogni, insieme alle sue sorelle kurde. Siamo parte delle donne che hanno assunto la forma di sentire come proprio territorio, ogni angolo del mondo dove si alzino bandiere di libertà. Ci vediamo nell’esempio di Berta Caceres, di Sakine Cansiz, della comandanta zapatista Ramona, di Rosa Luxemburg, le quali ci invitano a svegliarci, ad alzarci, a trasformare le crisi in opportunità rivoluzionarie e a trasformare le opportunità in azioni.
Come donne in lotta sentiamo sui nostri corpi il brutale impatto della crisi civilizzatrice. Il sistema patriarcale, capitalista coloniale, per rigenerarsi richiede ogni volta di più violenza contro le donne, le comunità, le dissidenze sessuali, i popoli. Utilizzano intensivamente i progressi delle scienze e la tecnologia per acutizzare le nostre disgrazie, per promuovere la militarizzazione e il controllo, continuando ciò che è stato fatto in più di cinque secoli di devastazione della natura, di genocidi, di femminicidi, di etnocidi, di epistemicidi, di promozione di una cultura di morte. Occupano i territori, privatizzano i fiumi, le lagune, le fonti di acqua dolce, i boschi, i venti, le montagne, i sempi, i nostri corpi, per controllarci, dominarci e subordinarci alla geopolitica della fame.
L’espansione del regime patriarcale capitalista è basata sul saccheggio dei beni comuni della natura, sullo sfruttamento –fino allo schiavismo- della forza lavoro dei popoli, del lavoro invisibile delle donne, sulla violenza contro le comunità e i popoli, sull’attacco alle identità, ai saperi delle donne, alla cosmovisione dei popoli, sulla distruzione della soggettività di bambini, bambine e adolescenti con la società del consumo e le offerte di morte che si realizzano attraverso le reti del narcotraffico, della tratta e della prostituzione.
Mercato e armi. Territorio e guerra. Il linguaggio della violenza recupera il centro della politica nel menù attualizzato con il quale l’impero cucina la modernizzazione della sua egemonia. Quando parliamo di militarizzazione, non ci riferiamo solo alle grandi basi militari nordamericane ed europee, non solo alla guerra imperialista, non solo agli eserciti di tanti paesi che ci invadono, con i loro aerei, le bombe, i proiettili. Ci riferiamo anche a tutto il tessuto mafioso delle narcoreti, del traffico di armi, del traffico di donne, giovani, bambine e bambini, del traffico di organi, e alla criminalizzazione della povertà, alla giudizializzazione della protesta. Con quest’ultima distruggono le comunità nella loro essenza più profonda, strutturando una violenza che non si presenta sempre come statale ma che trova però protezione nelle istituzioni statali, che viene esercitata nella forma più impudente e brutale, seminando terrore con l’intenzione di paralizzare qualsiasi rivolta.
Le molte impunità, accumulate in cinque secoli di colonialismo nel nostro continente, creano la forza immorale della così chiamata “civilizzazione”, del così chiamato “sviluppo”. Con la sua base di razzismo, di machismo e di un estrattivismo vorace, che rapina, rompe, ruba, distrugge, contamina, che disorganizza i metodi di vita ancestrali e incluso le forme di vita create sulla base del lavoro capitalista. La grande maggioranza delle donne non ha possibilità di accesso ai lavori formali, ma ai soli lavori precari e in molti casi invisibili. Molte donne non hanno quindi nemmeno la possibilità di essere sfruttate nei termini classici, ma sono sovra-sfruttate e sottomesse a regimi mostruosi di servitù e schiavitù. Il luogo che ci è assegnato a causa della divisione sessuale dei lavori è quello delle “curatrici della vita”. Ciò diventa una condanna quando le politiche neoliberali tolgono la possibilità di accedere alla salute, all’educazione, alla terra, alla casa, a programmi sociali solidari.
Nonostante le corporazioni transnazionali abbiano posto le loro basi in Europa, negli Stati Uniti, in Cina e in altri grandi paesi, gli Stati Uniti si presentano progressivamente al mondo come la testa di un continente fortezza, il cui corpo è tutto il continente. Per questo estende le sue basi in tutta Abya Yala, per affrontare il resto del mondo da li. Combinano alcune grandi basi con altre più piccole, travestite da aiuti umanitari, appoggi contro le catastrofi naturali. Basi che in realtà non sono altro che uffici o spazi che hanno bisogno di meno spese e che però assicurano centri operativi per le manovre militari dell’impero. Questa guerra per la spartizione del mondo è parte di una guerra dei potenti più ampia contro le donne e i popoli. Una guerra che cercano di giocare in una tavola di scacchi nella quale i pezzi bianchi sono re, regina, alfieri, cavalli, bombe ad ampio raggio, armi di ultima generazione, sviluppo scientifico e tecnologico, grandi mezzi d’informazione, saperi certificati, e i pezzi neri sono una moltitudine di pedoni disoccupati, disorganizzati e disarmati, che soffrono non per provare alcune giocate, uno scacco all’impero, ma per sopravvivere ogni giorno.
Noi, le donne del mondo, dobbiamo alzare più forte la nostra voce e moltiplicare le nostre azioni, per denunciare che questa non è la nostra guerra, che costruiremo i nostri territori di pace, che i nostri corpi e le nostre vite non saranno al servizio delle loro guerre patriarcali, ma creeremo nuovi mondi dove, come dicono le zapatiste, entriamo tutte.
Sappiamo che l’avanzata del controllo delle multinazionali sui territori si produce allargando i campi di concentramento dei e delle senza lavoro, senza educazione, senza terra, senza salute, senza casa, senza alimenti. Collocando fortezze militari al lato di ogni multinazionale, di ogni recinto, di ogni avamposto poliziesco convertito in caserma. Non è possibile uccidere i fiumi e i boschi insieme alle comunità che li vivono, senza uccidere alle Berta Caceres, alle Macarena Valdes, alle Betty Carino, alle Marielle Franco, alle Juana Ramirez, alle donne del popolo che hanno gridato e organizzato le loro genti per resistere all’invasione delle multinazionali e per difendere ogni copro e ogni territorio. I femminicidi territoriali sono una modalità d’intervento delle forze militari statali e dei gruppi paramilitari diretti a disorganizzare il movimento delle donne, specialmente le donne leaders delle comunità in lotta.
Noi, femministe dell’Abya Yala, diciamo che non abbiamo bisogno e che non ci appartiene il vostro mal chiamato “sviluppo”, la vostra mal chiamata “civiltà”, le vostre mal chiamate “rivoluzione industriale” e “rivoluzione digitale”, che creano disoccupazione e più miseria o i vostri mal chiamati “avanzamenti” scientifici e tecnici, che oggi sono impiegati per distruggerci. Non sono rivoluzioni. Sono dinamiche al servizio della controrivoluzione.
Sappiamo che la robotica, la nanotecnologia, la biotecnologia, le tecnologie di informazione e comunicazione, l’intelligenza artificiale, potrebbero essere poste al servizio dei popoli. Però fino ad ora sono state utilizzate come armi di questa guerra contro le donne e i popoli. Secondo il Forum Economico Mondiale di Davos, entro il 2020 si perderanno 5 milioni in più di impieghi. Sappiamo che saranno molti di più. Sappiamo anche che a causa loro continueranno ad acutizzarsi il cambiamento climatico, le forme di controllo sulle nostre vite, la perdita di autonomia, e continuerà a crescere la concentrazione e centralizzazione capitalista, con i grandi oligopoli che controllano la produzione e le tecnologie. Sappiamo che le grandi corporazioni dell’agroingegneria alimentare con la biopirateria stanno “patentando” le sementi, privatizzando queste forme originarie di vita, e stanno perdendo grandi quantità di semi, impoverendo il patrimonio dell’umanità. Sappiamo che gli stati sono parte dell’ingranaggio del potere patriarcale capitalista, e che stanno modernizzando le leggi e gli apparati repressivi per agevolare questi processi di distruzione massiva di popoli e territori. Sappiamo che l’infrastruttura digitale e di telecomunicazioni finora installata, è molto diseguale ed è anche al servizio del controllo del mondo, avendo effetti negativi profondi sulla salute e la biodiversità.
Nel capitalismo, la dimensione finanziera comanda e gestisce tutto il sistema, controllando la vita sociale, specialmente delle donne. Le donne, che quando la povertà aumenta, assumono maggiori compiti di cura, sono più vulnerabili a questo sistema di crediti travolgenti. Per questo nelle nostre lotte abbiamo rifiutato i prestiti da usura del FMI e tutto il sistema di crediti e finanziario che ci lega. Ci vogliamo libere e senza debiti.
Noi, le femministe dell’Abya Yala, facciamo parte di una marea femminista che ricorre il continente gridando “ora basta!” alle politiche di morte, e realizzando, partendo dai nostri territori, politiche di vita.
Troviamo nella crisi opportunità. L’opportunità di mostrare che queste politiche ci impoveriscono, ci uccidono e che non possiamo fidarci delle loro promesse. Cresce il discredito ai loro parlamentari, alla loro giustizia, alle loro istituzioni, alle loro leggi, ai loro governi.
La furia antipatriarcale, ha reso un grido, quello “Ni Una Menos”, che non significa solo affrontare la violenza femminicida e patriarcale. Diciamo “Ni Una Menos” alle politiche capitaliste neoliberali. “Ni Una Menos” alle politiche razziste e fasciste. Diciamo “Ni Una Mujer Menos” nei testi di storia. “Ni Una Menos” per aborto clandestino, nei posti di lavoro, di studio. “Ni Una Menos” per mancanza di terra, di case. “Ni Una Menos” perché morta in vita nelle carceri e nei luoghi di clausura. Il nostro Ni Una Menos nel sud del mondo, si incrocia con il Nunca Mas (Mai Più) genocidi, Nunca Mas dittature, un grido collettivo che ha permesso che più di 200 responsabili di genocidio siano finiti in carcere. Non stiamo cercando risposte che puniscano però si, vogliamo detenere l’impunità della violenza patriarcale e fascista.
Incontriamo nella crisi opportunità. Non moriremo di fame. Stiamo organizzando pasti popolari, orti e mense comunitarie. Con queste politiche collettive affrontiamo la femminilizzazione della povertà. Affrontiamo la povertà con la femminilizzazione della resistenza, il rafforzamento delle organizzazioni territoriali, la sovranità alimentare, con il recupero delle nozioni di comunità e territorio, rotte dalle logiche cittadiniste occidentali.
Troviamo nella crisi opportunità. Rifiutiamo il razzismo patriarcale istituzionalizzato, tutti i suoi modi di perseguire le donne originarie che difendono i territori, le donne nere rese invisibili nelle loro esistenze; donne, travestit*, trans, lesbiche, migranti, che pretende espellere o precarizzare fino alla schiavitù. Tutte, in un momento della nostra vita, siamo state obbligate a migrare dalla violenza patriarcale. Tutte possiamo e dobbiamo ricostruire i legami tra di noi, per poter affrontare la cultura del razzismo e la xenofobia, e stabilire i ponti tra i nostri luoghi d’origine e di transito.
Troviamo nella crisi opportunità. Stiamo recuperando i saperi ancestrali che noi, le donne del popolo, abbiamo saputo conservare e trasmettere come tesori. Con questi possiamo riprendere ad alimentarci senza agrotossici, a sanarci senza i prodotti letali dell’industria farmaceutica e a curarci tra di noi. Dobbiamo difendere quelle donne che hanno potuto esercitare il controllo sui loro territori, che è il modo che ci permette di garantire l’autonomia della vita e la cultura comunitaria. Ci diciamo anche plurinazionali perché sappiamo che gli stati nazione sono stati fondati sul genocidio dei popoli che abitano questi territori.
Incontriamo nelle crisi opportunità. Moltiplichiamo i dialoghi nelle lingue originarie, sapendo che i linguaggi importati sono serviti per dominarci e colonizzarci. Sapendo anche che nei linguaggi originari ci sono molte delle parole proprie della resistenza. Con chi di noi non ha accesso a questi linguaggi originari, discutiamo con il linguaggio imposto il suo sessismo, il suo razzismo, la sua funzionalità nella naturalizzazione del patriarcato e del colonialismo.
Troviamo opportunità nella crisi. Difendiamo ogni donna che soffre la violenza patriarcale. Processiamo la giustizia patriarcale. Accompagniamo le denunce di trans, travestit*, lesbiche, assassinate dal regime eterosessuale che sostiene la famiglia patriarcale. Ci uniamo e sosteniamo ad ogni passo le vittime della violenza. Siamo femministe, compagne. L’accompagnarci permette di rompere le logiche dell’individualismo, della rivalità tra donne, della frammentazione e generare esperienze di autodifesa, di cura collettiva, di creazione di comunità.
Tutto quello che abbiamo fatto e tutto quello che manca da fare, ci riempie di allegria. L’allegria è il combustibile della nostra rivoluzione femminista. Non ci arrendiamo davanti al colpo che cerca di disanimarci. Sappiamo tutto ciò che ci manca. Dobbiamo organizzare e dare base in ogni territorio alla marea femminista, non per incanalarla ma per ampliarla e potenziarla. Dobbiamo affinare le esperienze di base territoriali, attraverso la formazione politica femminista. Dobbiamo dialogare di più con le esperienze storiche di resistenza. Dobbiamo rivoluzionare la nostra vita quotidiana, uscendo dalle comodità che ancora ci offre un sistema che ci invita a negoziare la sopravvivenza di ognuna, in modo individuale, offrendoci briciole. Dobbiamo pensare alle molte forme di controllo alle quali siamo sottomesse: l’amore romantico, il consumismo, il controllo digitale, la manipolazione delle emozioni da parte dei grandi mezzi d’informazione, la creazione della paura.
Non rinunciamo nelle nostre lotte alla felicità che nasce dall’incontro, dall’amicizia, dall’amore, dalla solidarietà, dal desiderio, da una sessualità non addomesticata, dal nostro essere e stare nella natura, dalla nostra identità e cura verso i fiumi, i boschi non deforestati, le montagne non perforate. Cerchiamo di mettere insieme le nostre energie e le nostre diverse spiritualità, in un’azione rivoluzionaria collettiva, che nasca dai dolori e che però si trasformi in ribellione.
Trasformiamo la crisi in opportunità. La rivoluzione femminista, delle donne, delle dissidenze di fronte al patriarcato si alza … La marea inonda i cuori delle donne del popolo, e insieme vinceremo. Per noi, per le sorelle cadute in queste rivoluzioni, per quelle che verranno a rivoluzionare queste nostre rivoluzioni.

 

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Conclusione