Angela Lamboglia – Intervista a Saskia Sassen

Questa intervista è stata realizzata da Angela Lamboglia per la rivista DWF-DONNAWOMANFEMME, e compare sul numero del 2016 “Europa. Ragioni e sentimenti” (2016, 2-3, 110-111, aprile-settembre).

Ringraziamo ancora una volta la redazione di DWF per la disponibilità alla ripubblicazione.

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Esiste un legame, dal punto di vista sistemico, tra fenomeni diversi come l’aumento del numero di sfollati provenienti dall’Africa subsahariana, l’incremento dei disoccupati cronici e della popolazione carceraria negli USA, le privatizzazioni e i piani di austerity imposti ai paesi del sud Europa e in particolare alla Grecia?

Nel suo ultimo lavoro Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (in italiano con Il Mulino) Saskia Sassen individua questo legame in quella che lei chiama la logica dell’espulsione. L’espulsione è qui intesa come cifra di un capitalismo che, a differenza del periodo precedente caratterizzato da disuguaglianza e concentrazione di ricchezza, ma anche dalla tendenza all’inclusione di fasce sempre più ampie di popolazione nella produzione e nel consumo di massa opera secondo meccanismi di selezione complessi quanto brutali negli esiti: dall’espulsione di lavoratori a basso reddito dall’accesso a lavoro, servizi sociali e previdenza, all’espulsione della popolazione rurale da terreni acquistati da parte di multinazionali e governi stranieri.

Queste espropriazioni sono anche alla base del modello di crescita delle città moderne, che insieme a suo figlio, l’artista Hilary Koob Sassen, Saskia Sassen ha descritto, in una sorta di favola urbana, come un mostro che distrugge il tessuto urbano delle città, divorando gli abitati esistenti per sostituirli con giungle di nuovi edifici alti come torri e tutti uguali tra loro da ribattezzare ‘smart cities’ (https://www.theguardian.com/cities/2015/dec/23/monster-city-urban-fairytale-saskia-sassen?CMP=twt_gu – settembre/2016).

Nonostante le diverse geneologie delle differenti crisi globali in atto, nel libro un’origine comune a questi fenomeni viene individuata nella svolta impressa alle dinamiche del capitalismo negli anni Ottanta: da una parte, da quel momento si assiste infatti all’avanzata della finanza in forme e in settori sempre più complessi; dall’altra, si procede allo sfruttamento di aree sempre più estese per la manifattura a basso costo e per l’agricoltura industriale, cui fanno da contraltare reti di città globali nelle quali si concentrano le funzioni strategiche di management e controllo. Città non necessariamente di grandi dimensioni, ma con un ruolo chiave nella finanza, a livello logistico, nello sviluppo dell’economia della conoscenza o di nuovi strumenti di intermediazione e di nuovi mercati (http://www.straitstimes.com/opinion/rise-of-the-niche-global-city – settembre/2016).

Allo stesso tempo, le città globali che detengono le funzioni strategiche e dettano le tendenze dell’oppressione e dell’espulsione sono anche terreno di vita e di resistenza degli oppressi e degli espulsi (http://blogs.forbes.com/megacities/2011/03/22/the-global-city-and-the-global-slum/#more-33 – settembre/2016).

In Espulsioni le città globali sono descritte come spazi vitali di azione in quanto luogo in cui il potere diventa concreto e può essere affrontato, a cominciare da quello di governi e loro propaggini aziende controllate che gestiscono utilities, edilizia popolare, ecc che all’interno mietono vittime sponsorizzando i dogmi del neoliberismo e dell’austerity e all’esterno sono mandanti di espropriazione di spazi urbani e rurali, sfruttamento di risorse, militarizzazione (http://www.theguardian.com/cities/2015/nov/24/who-owns-our-cities-and-why-this-urban-takeover-should-concern-us-all – settembre/2016).

La doppia natura di queste città da una parte, centri di comando da cui partono violenti processi di sfruttamento, dall’altro, terreno fertile di movimenti e pratiche di resistenza è evidente anche in Europa. Diventa allora significativo capire se queste città, così simili tra loro nei modelli di sviluppo quanto nei problemi e nelle lotte che le attraversano, possano anche rappresentare spazi chiave per costruire dal basso alternative alla subordinazione delle politiche pubbliche agli interessi delle grandi imprese, alla deregolamentazione e allo smantellamento dei diritti sociali, all’indifferenza verso l’ambiente e le popolazioni che lo abitano.

Nel suo libro Città globali: New York, Londra, Tokyo, lei sosteneva che in questo modello economico crescita e declino sono collegati, dal momento che le condizioni per la crescita delle città globali contengono elementi che contribuiscono al declino di altre città, a cominciare dai centri industriali, anche all’interno dello stesso Stato. Quali sono le conseguenze politiche della concentrazione dei benefici della crescita economica in poche città globali, mentre tanti centri prima economicamente solidi e un numero sempre maggiore di persone, nelle città grandi e piccole, scivolano nella povertà?

Al cuore della mia ricerca sulla città globale, ai suoi inizi, c’era la mia ipotesi che una nuova, in qualche modo elusiva formazione stesse prendendo forma e installandosi profondamente all’interno delle maggiori città2. Qual era la combinazione di elementi che poteva generare questo ironico risultato, cioè il fatto che gli attori economici più potenti, ricchi e digitalizzati avessero bisogno di ‘luoghi centrali’ e forse più di quanto fosse mai accaduto in passato? Le grandi corporazioni aziendali impegnate in produzioni standardizzate potrebbero localizzarsi ovunque. Ma se diventano globali hanno bisogno di avere accesso a un intero nuovo mix di complessi servizi specialistici quasi impossibili da produrre in house come si era soliti fare.

Una seconda ipotesi, più forte di quanto mi aspettassi, era che questa nuova logica economica, per quanto parziale, avrebbe generato posti di lavoro di alto livello e impieghi a basso salario, mentre avrebbe avuto bisogno di un minor numero di posti di lavoro di livello medio rispetto alle società tradizionali. I lavori di basso livello, che fossero d’ufficio o domestici, avrebbero però significato molto più di quanto si potesse immaginare. Pensando alla loro funzione nel loro insieme li ho descritti come il lavoro di mantenere un’infrastruttura strategica3.

In questo modo iniziò a prendere forma la nozione di Città globale: iniziai cioè a vedere uno spazio estremo per la produzione e/o l’implementazione di capacità intermedie molto diverse e molto complesse per gestire operazioni globali enormemente differenti. Questo particolare spazio complesso di produzione di capacità specializzate non si riferiva all’intera città. La mia idea era che la Città globale fosse una funzione produttiva capace di inserirsi in complesse città esistenti. Ma ho anche suggerito che si trattasse di una funzione con un significativo effetto d’ombra su più ampie porzioni di essa. Ad esempio, la crescita di una fascia di dirigenti altamente retribuiti si traduceva in una vasta e chiara gentrificazione di molte di queste città.

La funzione Città globale viene prodotta e questo processo di produzione è complesso e sfaccettato: ha bisogno di integrare leggi, pratiche contabili, logistica e un’ampia gamma di altri elementi, come l’esistenza di diverse culture di investimento che dipendono dai paesi e dai settori.

Questo processo di produzione non potrebbe darsi semplicemente all’interno di un’azienda o di un laboratorio. Deve essere centrato all’intersezione tra diversi tipi di circuiti economici globali emergenti con contenuti distinti, tutti che variano tra i diversi settori economici. Richiede uno spazio in cui professionisti e dirigenti provenienti da diversi paesi e culture raccolgono frammenti di conoscenze gli uni dagli altri anche quando non intendono farlo. Ho visto in questo processo la generazione di una forma distintiva di capitale di conoscenza urbano, un tipo di capitale che può essere prodotto solo attraverso un mix di condizioni tra cui rientra la città stessa, con i suoi diversi vettori di conoscenza ed esperienza.

Nel suo ultimo lavoro Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, le città globali sono descritte come luogo in cui il potere diventa concreto e può essere affrontato. Pensa che sia possibile che queste città siano sì i luoghi da cui partono i processi di sfruttamento e controllo globali che determinano le espulsioni, ma anche gli spazi decisivi per costruire alternative ai quei processi?

Sì, lo penso. Si tratta di luoghi chiave per la mobilitazione di coloro che non hanno potere. Sono una sorta di spazi di frontiera in cui i senza potere possono presidiare il territorio e dire mi piace dirlo con le parole di militanti poveri del sud America, in spagnolo “Estamos Presentes.” “Siamo presenti, potere, e non ti chiediamo niente, vogliamo solo che tu sappia che questa è anche la nostra città”. Questo è molto importante nel contesto delle nuove migrazioni4, ma anche a un livello più generale le grandi città complesse sono spazi in cui i poveri e i senza potere possono sviluppare una politica.

Faccio un esempio concreto. Centrale nel mio intero progetto sulla Città globale era quella che io definivo l’infrastruttura necessaria ad assicurare che i talenti altamente retribuiti garantissero il massimo risultato, quindi l’ampia gamma di condizioni che permettono la vita lavorativa dei grandi professionisti e dirigenti. Questa infrastruttura include una varietà di attività mal retribuite, dagli incarichi d’ufficio di basso livello al lavoro domestico retribuito, considerando il fatto che in molti sensi gli appartamenti del personale di alto livello sono un’estensione delle piattaforme aziendali e le attività lavorative vere e proprie sono solo una parte della storia.

Per uscire dal linguaggio degli impieghi mal pagati, io ho descritto queste attività come il lavoro che permette di mantenere un’infrastruttura strategica, che include domestici/che dei lavoratori di alto livello che svolgono le loro mansioni come un orologio meccanico, senza spazio per la minima crisi. Questa mossa interpretativa ha alimentato la nozione della Città globale come uno spazio molto specifico di produzione, ma allo stesso tempo che permette anche l’organizzazione dei lavoratori a basso reddito, come inservienti e lavoratori domestici, precisamente perché si tratta del mantenimento di uno spazio strategico.

La storia ha confermato questa analisi quando a organizzarsi in sindacati sono stati i lavoratori addetti alle pulizie nei centri delle maggiori città degli Stati Uniti e dell’Europa. Alcuni anni dopo sono stati i lavoratori domestici a creare un sindacato nei quartieri più esclusivi. Vale la pena sottolineare, perché raramente riconosciuto, che entrambi i tipi di organizzazione erano falliti quando i lavoratori si erano mobilitati nelle periferie, nelle città e nei quartieri abitati dalla classa media delle grandi città.

Nella mia lettura al tempo, e oggi, i particolari tipi di spazi in cui questi lavori vengono svolti conta. Questo conferma l’idea che vi sia una forza lavoro che ha il compito di tenere in piedi un’infrastruttura strategica. Il luogo conta. Le stesse attività in un tipico contesto suburbano non avrebbero permesso l’organizzazione dei lavoratori. In breve, i lavori non possono essere ridotti alle attività svolte.

Esistono a suo avviso dei varchi perché le pratiche politiche informali degli esclusi nelle città globali ispirino modelli di alternativi di sviluppo urbano, di welfare, di produzione? Conosciamo sperimentazioni di questo tipo in molte città europee, molte delle quali portate avanti da donne, grazie alla capacità di connettere e creare ponti tra attori e lotte differenti. E sappiamo che spesso queste pratiche urbane di lotta e autogoverno vengono seguite con interesse da altre comunità in città diverse.

Certamente!!! E questo è un trend in crescita, almeno lo è sicuramente in Europa e nelle Americhe, non ne sono sicura per quanto riguarda Africa e Asia.

Io credo che una componente chiave sia quello che io descrivo come il lavoro di rilocalizzare gli elementi dell’economia. Rilocalizzare in questo caso diventa una lotta contro la privatizzazione e la trasformazione in impresa commerciale di ogni cosa: abbiamo davvero bisogno di dipendere dalle corporation per bere una tazza di caffè, comprare della verdura, avere una libreria? Probabilmente ogni quartiere può contare su talenti locali che possono occuparsene.

Dobbiamo rilocalizzare qualunque cosa possiamo rilocalizzare. Questo sarà inevitabilmente un progetto parziale dal momento che molti dei nostri bisogni più complessi richiedono sistemi di conoscenza altrettanto complessi, pensiamo agli ospedali. Ma dobbiamo massimizzare la sostituzione delle catene commerciali con il lavoro realizzato nel nostro o in altri quartieri delle nostre città e dei nostri paesi.

Un franchise per definizione porta via una parte della capacità di consumo di un quartiere dal quartiere stesso, trasferendola verso le sedi centrali. Noi dobbiamo massimizzare la capacità di rimettere in circolo la nostra spesa all’interno delle nostre località e questo implica uno sforzo collettivo per soddisfare quanto più possibile i nostri bisogni localmente. Io vedo in questo tipo di sforzo un primo passo che può condurre ad altri sforzi, in particolare a un nuovo tipo di politica.

C’è lavoro da fare, nelle nostre analisi e sul campo.

E’ possibile pensare che le pratiche e i modelli alternativi sviluppati in talune città possano ispirarne delle altre? Oppure sono destinati a rimanere nel “margine sistemico”, pronti per essere espulsi alla prossima “crisi globale”?

Io penso che è proprio quello che tenderà ad accadere, una sorta di trasversalità che si muove dalle città, da un quartiere all’altro. A questo proposito mi sono anche concentrata sull’importanza di sviluppare app digitali che rispondano ai bisogni dei lavoratori a basso reddito e dei quartieri poveri5.

Secondo lei i diritti sociali possono essere un terreno solido per rafforzare le pratiche politiche degli esclusi? Ad esempio, all’ultima Biennale dell’architettura a Venezia, lei ha messo in guardia dai processi di gentrificazione e espulsione delle popolazioni locali da parte di grandi gruppi globali, capaci di acquistare, ristrutturare e chiudere intere aree urbane a vantaggio di un ceto socio-economico globale ad alto reddito. A questo proposito, è possibile pensare a nuovi diritti di cittadinanza essenziali, come ad esempio l’inviolabilita degli spazi pubblici?

E’ una questione importante. Mi concentrerò su una versione urbana dei diritti, per così dire: come sarebbe una città che prende sul serio le necessità delle donne con figli.

Le culture e le pratiche urbane, e la sicurezza di cui fanno esperienza le donne, gli uomini e i bambini variano enormemente da una parte all’altra del mondo. Ma cambiano molto anche all’interno di ciascuna città. Molti dei concetti chiave che ne catturano le variabili centrali vengono trattati come se fossero neutri rispetto al genere: popolazione, trasporti, distretti commerciali, forza lavoro urbana, parchi.

Nonostante ci siano state per lungo tempo ricerche pionieristiche su come i sistemi urbani di base falliscano nel rispondere alle esigenze delle donne, solo un decennio fa il tema si è affermato in tutto il mondo. I problemi emersi variavano dalle analisi accademiche di questioni finora non esaminate agli interventi pratici. Ogni città in cui sono stata ha all’attivo ricerche e iniziative che affrontano quello che io chiamerò qui un “urban planning gender gap”, un divario di genere nella pianificazione urbana.

L’organizzazione spaziale nelle città determina per lo più una cattura del tempo delle donne dovuta alle distanze inadatte con riferimento a trasporti, zone commerciali, scuole, servizi sanitari e verosimilmente posti di lavoro, tutte esigenze di cui le donne fanno esperienza nella loro vita di tutti i giorni. Aggiungerei che anche gli uomini poveri fanno esperienza di un divario urbano rispetto alla povertà, anche se prevalentemente è confinato alla sfera dei trasporti, della salute e dell’accesso al lavoro.

I sistemi di trasporto spesso non aiutano o non permettono alle donne di accettare dei posti di lavoro perché sono per lo più pensati per portare le persone nel centro delle città, dove si concentrano la maggior parte degli impieghi, mentre solitamente ci sono pochi servizi di trasporto trasversali tra i sobborghi e i paesi fuori città che implicherebbero spostamenti più brevi e quindi un uso pù semplice per le donne che vogliono lavorare vicino casa. E’ diventato chiaro in molti posti e in organizzazioni differenti che noi abbiamo bisogno di rivedere precisi elementi della pianificazione e della progettazione urbana (tra gli altri campi!) da una prospettiva di genere.

Questi effetti di gendering spesso prendono una forma specifica per le donne attraverso variabili etniche, di razza, di status e religiose, con alcune combinazioni in grado di produrre gli effetti più devastanti. Quello che può fare la differenza è dare alle donne più vulnerabili a questi fattori la capacità di sostenersi da sole. Non carità, ma sviluppo di capacità.

E’ possibile pensare un’Europa delle città, che dia spazio a sperimentazioni politiche che vanno in direzione contraria a quella dell’Europa degli Stati, verso un’Europa delle possibilità piuttosto che dei divieti? E se sì, è possibile evitare di farle diventare delle “Città Stato”, fin troppo note nella storia europea?

Sì, e ne abbiamo bisogno. Ancora una volta, partiamo dall’ottica delle donne con figli – per essere specifica piuttosto che proporre un punto di vista da una qualche sorta di prospettiva centrale – e teniamo in mente le altre formazioni specifiche che possiamo nominare come trans, ciascuna con specifici bisogni e potenzialità da aggiungere all’urbanità di una città.

Le donne hanno lottato per riavere le strade e per i loro diritti nella città. Nell’ultimo decennio e più, si sono moltiplicati movimenti in tutto il mondo – in America Latina, Africa, Asia Pacifica, Europa e Nord America – e un approccio che emerge con forza è quello dei diritti alla città.

Le donne stanno creando spazi urbani inclusivi sviluppando una serie di diagnosi sulle città e di pratiche: dalle analisi di genere sulla vita quotidiana ai cortei, ad esempio reclamando riconoscimento per la storia delle donne in quella città o indossando magliette con la scritta “donna pubblica” negli spazi di maggiore vulnerabilità. Marta Fonseca e Sara Ortiz Escalante catturano il senso di questo tipo di lotte quando sostengono che “la pianificazione neutra e universale non esiste. Quello che questa neutralità fa è ignorare la diversità nella nostra società, che sia basata sul genere, l’origine, la classe sociale, l’appartenenza etnica, la religione, l’orientamento sessuale, etc”6.

Concretamente, la maggior parte delle città sono troppo caotiche e anarchiche per rendere un fatto evidente la costruzione del genere che vi si è realizzata. Ma per vederla chiaramente è sufficiente muoversi negli spazi in cui le donne ricoprono la funzione di soggetti della cura familiare – e non tutte le donne lo fanno, anche quelle che hanno figli perché alcune possono assumere qualcuno cui delegare la cura. La pianificazione urbana che non guarda al genere all’interno di società che invece sono ancora molto connotate in base al genere penalizza le donne, soprattutto quelle che si fanno carico della casa e dei figli, cioè della maggior parte delle madri in molte città del mondo.

Indicazioni bibliografiche

SASSEN S., (2015), Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Bologna, Il Mulino.

SASSEN S. (2002), Globalizzati e scontenti, Milano , Il Saggiatore

SASSEN S., (2001), Le città nell’economia globale, Bologna, Il Mulino.

SASSEN S. (1997), Città globali: New York, Londra, Tokyo, Torino, UTET.

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Saskia Sassen: Nata nei Paesi Bassi, cresciuta tra Argentina e Italia, Sassen ha studiato in Francia e ha iniziato la sua carriera accademica negli Stati Uniti, dove è attualmente Robert S. Lynd Professor of Sociology alla Columbia University. I suoi studi si concentrano sulle città e sulle dinamiche connesse all’immigrazione nell’economia globale, in una prospettiva che utilizza i concetti di disuguaglianza, genere e digitalizzazione come variabili chiave. E’ autrice di numerosi volumi tradotti in oltre venti lingue, di cui l’ultimo, ‘Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale’, è diffuso in Italia da Il Mulino.

Angela Lamboglia
Angela Lamboglia

Angela Lamboglia, classe 1983, si è laureata nel 2008 in Filosofia politica con una tesi in cui ha indagato le relazioni tra sfera pubblica e transnazionalismo. Ha partecipato al gruppo di ricerca organizzato da Federica Giardini sulla forza al femm (...) Maggiori informazioni