Chandra Talpade Mohanty –  Pensare e agire la solidarietà femminista transnazionale: nuove connessioni tra lotte di liberazione al di là dei confini dello Stato-Nazione

Chandra Talpade Mohanty – Pensare e agire la solidarietà femminista transnazionale: nuove connessioni tra lotte di liberazione al di là dei confini dello Stato-Nazione

Introduzione

Il mio intervento di oggi* vuole porre al centro i metodi di una critica femminista postcoloniale e antimperialista che connetta le lotte di liberazione di diverse geografie e che dischiuda orizzonti per pensare pratiche femministe di solidarietà transnazionale.

Ho sempre creduto che questi siano i temi del femminismo, quantomeno di un femminismo ancorato all’antirazzismo e all’impegno anticapitalista transnazionale, che mi tiene viva e mi dà speranza.

Questa è la ragione per cui voglio iniziare raccontandovi brevemente il mio trascorso politico e personale come femminista, poiché credo profondamente che la creazione di alleanze e di solidarietà attraverso il genere, la razza e la classe, nonché lo smascheramento dei dispositivi nazionali e sessuali, possa mostrare il cammino da intraprendere.

Essendo cresciuta a Mumbai, in India, e facendo parte della generazione post-indipendenza, è stato impossibile non essere consapevole sia dei vincoli e degli spazi coloniali (anche istituzionali), sia delle pratiche dei movimenti decoloniali, delle lotte globali e nazionali di liberazione, degli stimoli generati da una visione postcoloniale socialista e democratica. Sono arrivata a credere all’idea dei mandati generazionali.

Per la mia generazione post-indipendenza questo mandato consisteva nel prendere in considerazione molto seriamente i problemi teoretici come problematiche di decolonizzazione, attraverso l’acquisizione di una consapevolezza forte: decolonizzare coscientemente gli spazi e vedere gli effetti che questa pratica dava.
Quindi, per esempio, rivedere la programmazione ufficiale delle scuole superiori che raccontava solo la storia del Regno Britannico e praticamente niente sulla nostra storia locale, sull’origine della nostra comunità, mi ha portata ad analizzare gli strumenti di funzionamento del potere. Cosa lo rende visibile, naturale e normativo.

La decolonizzazione non può mai essere un processo formale che consiste solamente nel rovesciare i governi e sostituirli con le elite locali. Deve essere un più profondo processo insurrezionale che trasforma le strutture del sé, delle comunità, delle forme di governo, a tutti i livelli. Si tratta di ridisegnare attivamente il consenso, in modo corrispondente alle pratiche di resistenza e ai processi di dominazione psichica e sociale.
La decolonizzazione deve essere un processo collettivo ancorato nella storia indigena delle lotte, non si può immaginare di recarsi da un terapista e così decolonizzarsi. Non può essere un processo individuale, deve avvenire dentro spazi collettivi in cui si pensa e riflette sulle medesime cose e in cui ci si pone domande comuni.

In India, gli studenti medi e gli insegnanti delle superiori, a partire dagli anni ‘60 hanno iniziato a inserire, anche nei corsi di dottorato, le letture di Fanon, Margaret Cezair-Thompson e poi Marcuse, Althusser e Said per avere altre prospettive e capire le pratiche di decolonizzazione. Il mio impegno nel movimento studentesco, contro lo stato fascista dell’emergenza imposto da Indira Gandhi, all’inizio degli anni ’70, e nei movimenti di sinistra e anticapitalisti, ha smascherato il ruolo chiave della classe, della casta e dei fondamentalismi religiosi nell’esercizio del potere statale in India.

Il mio lavoro in Nigeria ha poi mostrato su diversi livelli le linee tracciate dal potere, attraverso il colore e la razza, fino a quando, trasferitami in Illinois negli Stati Uniti nel 1977, ho iniziato veramente a capire le politiche interconnesse ai concetti di razza, colore, classe, nazionalità, specialmente in relazione al genere e alla sessualità.
È stato in quel momento che sono diventata totalmente una donna immigrata di colore con radici nel Sud globale, e lo dico con grande consapevolezza e chiaramente, perché queste non sono solo etichette, sono modi importantissimi di collocarsi e di intendere se stesse.

La mia esperienza, alla fine degli anni ‘70 e nei primi anni ’80, è stata quella di una donna di colore, migrante trapiantata, che viveva negli Stati Uniti.
Dal 1998, sono anche una cittadina statunitense e l’identificazione mi sembra sempre più fragile tanto più che oggi ci si aspetta di essere cittadini senza mai riceverne il permesso, in un mondo post-11 settembre.

Dopo 3 decadi di vita negli Stati Uniti sono una pensatrice politica ed un’attivista che ha messo in conto i significati mutevoli di cittadinanza, identità e dissenso. Chiaramente, questi significati intaccano l’essere femminista e l’essere una cittadina statunitense, e sono multipli, con affiliazioni affettive in India e negli Stati Uniti e alla storia postcoloniale del mio paese, laddove esistono reti di solidarietà e amicizia in entrambi gli spazi, come esistono nella diaspora. L’11 Settembre ha rappresentato un “arretramento” nei confronti del sud dell’Asia, del Medio Oriente, dei musulmani.
I miei primi incontri nelle diverse comunità degli Stati Uniti sono stati con gente di ogni etnia, specialmente con persone che condividono la mia visione politica e della giustizia.
Ho imparato molto presto nel mio percorso intellettuale che il miglior modo di pensare e trovare strategie emerge attraverso la collaborazione con diverse comunità di persone con impegni simili e simili visioni della giustizia. Ho lavorato per creare questo “vicinato intellettuale”, ovvero vicinanze radicali al servizio della giustizia sociale. Questa definizione di “vicinato intellettuale” (intellectual neighborhood), è stata coniata da Toni Morrison, quando parla della necessità di costruire delle vicinanze intellettuali nelle quali vogliamo vivere, perché spesso non si ereditano. Specialmente se fai un certo tipo di ricerca politica.

Ho iniziato a riflettere sui regimi securitari e sulla violenza soprattutto in seguito alla costruzione da parte degli Stati Uniti del Mega Security Wall, il grande muro di sicurezza tra il Texas del sud e il confine messicano e dopo aver sentito delle lotte degli attivisti migranti e dell’organizzazione di difesa delle donne apache, la Law Defense Organization.

Un’organizzazione di donne indigene che vuole contenere un specifico progetto imperialista di partenariato con le multinazionali sul loro territorio. Le pratiche di militarizzazione in tale contesto, lasciano emergere similitudini con le pratiche usate presso i muri costruiti in  Iraq o Afghanistan, dove viene usato il pretesto delle guerre mondiali per mobilitare discorsi simultanei sull’islamofobia e sul nativismo.  Le lotte di questa organizzazione di donne, e la stessa costruzione del muro securitario in Texas, sono stati argomenti totalmente assenti dalla discussione pubblica, nei media e nei circuiti femministi. Ma i progetti imperialisti degli Stati Uniti non sono nuovi, le formazioni  e le operazioni globali post 11 Settembre lavorano sul protezionismo e sul terrore della guerra e sono accompagnati da militarizzazioni e ambizioni neoliberali di cooperazione: è un fenomeno che merita l’attenzione del femminismo critico.

Regimi securitari a confronto

Quindi in questa  relazione esaminerò tre esempi di regimi securitari: Stati Uniti, Israele e India, attraverso tre specifici sguardi geopolitici su tali luoghi d’interesse, in particolare:

– il confine tra Stati Uniti e Messico, e le connesse lotte sulla migrazione e i diritti indigeni

– il controllo israeliano sui cosiddetti territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza

– il controllo militare dello Stato indiano e l’occupazione della Valle del Kashmir, come una zona di violenza normalizzata.

In questa prospettiva, le pratiche imperialiste e statali neoliberali e militarizzate sono spesso sostenute dallo sviluppo di progetti umanitari e di peace keeping.
Il nuovo controllo dello stato securitario funziona proprio come le democrazie imperialiste. Ogni esempio preso in esame ha collegamenti diretti con il colonialismo, spartizioni di territorio e frammentazione, nonché violenza durante il processo di costruzione della nazione.

Quello che la scrittrice pakistana Bapsi Sidhwa chiama the demand for blood, ci fa capire come
nei territori di confine nazionale i civili sono soggetti ad una violenza militarizzata legata alla produzione di identità e di genere, sono forze, quelle messe in campo, reazionarie e spesso razzializzate, rappresentanti di una mascolinità dominante.

Questi tre luoghi costituiscono tutti esempi di dispute su territori occupati: hanno cruente storie coloniali e insieme illustrano un nuovo e un vecchio ordine mondiale di violenza militarizzata e di genere che dà priorità all’economia neoliberista.
Per certi versi quello che vi presento oggi è un contributo metodologico, argomentando e trattando dei temi e spiegando come si possa guardare a tre luoghi diversi per elaborare modi di comprensione adatti ad analizzare diverse situazioni. Questo ci permetterà di capire come il potere statale e le priorità dei governi neoliberali dirigano la loro attenzione verso particolari gruppi di persone che vengono così razzializzate, marginalizzate e impoverite.

Sin dall’inizio degli anni ‘90, con il passaggio all’economia neoliberale e alle conseguenti strategie politiche, i legami tra Sati Uniti, Israele e India, sono stati forgiati dalla visione comune di chi deteneva il potere a quel tempo nei rispettivi luoghi, quindi, negli Stati Uniti c’era Bush e i conservatori, in Israele Sharon e in India il governo hindu.

Questi tre paesi hanno in comune una strategia geopolitica e una visione del commercio e della sicurezza che vedono nell’Islam e nei musulmani un nemico comune, una strategia inoltre garantita da alleanze economiche e militari. Ad ogni modo, in nome della protezione di cittadini, l’ideologia dello stato-nazione giustifica guerre, difesa dei confini  e regimi di incarcerazione. La connessione tra le analisi, la visione comune di giustizia transnazionale che femministe e pensatrici antipatriarcali condividono, è il punto d’ispirazione per le mie riflessioni. Non sono solo preoccupata di capire come funzionano il potere e la violenza in questi posti, sono molto più interessata a comprendere come gli attivisti e le attiviste stanno realizzando connessioni aiutandosi reciprocamente nell’analisi della situazione e nel portare avanti le rispettive lotte. Questo tipo di ricerca motiva il mio lavoro.

Le analisi comparative sui muri e sul muro, materiale e simbolico, mostrano la costituzione del regime securitario e definiscono le avventure imperiali degli Stati Uniti. In India e in Israele riguardano l’operazione ideologica del discorso sulla democrazia.

Ognuno di questi Paesi infatti afferma e rivendica in modo deciso un discorso democratico.
Israele guarda a sé come al paese più democratico nel Medio Oriente e l’India, allo stesso modo, considera se stessa la più grande democrazia dell’area, per via della sua enorme popolazione, e perché dall’Indipendenza vanta il succedersi di governi democratici. Infine, gli Sati Uniti, allo stesso modo, sarebbero il Paese più democratico tra tutti.

Questa operazione ideologica di discorso sulla democrazia suggerisce che la militarizzazione delle culture è profondamente legata ai valori capitalisti del neoliberismo e alla normalizzazione, a ciò che Arunhdati Roy ha chiamato “democrazia imperiale”.
Se usiamo l’aggettivo imperiale con il sostantivo democrazia, abbiamo in mente già qualcos’altro riguardo a ciò che succede. La militarizzazione coinvolge sempre la mascolinizzazione e l’eterosessualizzazione come processi legati allo Stato: ecco perché un’analisi femminista è la chiave imprescindibile per qualsiasi analisi. Le disposizioni di un sistema economico neoliberista si basano sulle divisioni di genere e razza e sulla costruzione di soggettività funzionali.

Il sistema securitario dello Stato-nazione, o regime securitario, è vincolato a strategie di connessione tra la militarizzazione dei territori, criminalizzazione e incarcerazione, per esercitare il controllo su specifiche popolazioni, rimodellando le soggettività individuali e le culture.

Come femminista riconosco che lo stato securitario mette in moto una particolare logica di protezione legata al genere, ovvero da parte maschile rivolta su donne e minori. Una logica che sottolinea e fa appello alla protezione e alla sicurezza della nazione e che si aspetta obbedienza e lealtà nello spazio domestico secondo una dimensione patriarcale. Allo stesso tempo le guerre dello Stato contro nemici interni ed esterni, nel contesto negli Stati Uniti ad esempio, legittimano – secondo la stessa logica che riconosce il potere autoritario nell’arena domestica – le aggressioni al di fuori dello spazio familiare. L’implementazione dell’incarcerazione è vincolata anche alla prigionia presente nel campo domestico.

In tutti questi Paesi è palese come i confini siano zone di violenza molto esplicita ma che hanno anche bisogno, per sussistere come tali, di misure di incarcerazione e addomesticamento dentro i confini dello stato-nazione stesso.

Gli Stati Uniti investono, all’interno del proprio territorio, in un grande complesso industriale privatizzato di prigioni, mentre consolidano allo stesso tempo un regime d’invasione, tortura e punizione collettiva In Iraq e in Afghanistan. Ma questioni simili si devono porre, dopo l’11 settembre, in relazione alle cosiddette democrazie di Israele e India: nei tre contesti geopolitici lo stato ha mobilitato un’ideologia mascolinizzata e securitaria basata non solo sulla difesa della nazione, ma sulla coesione, richiedendo partecipazione e consenso alla cittadinanza.

Questa ideologia genderizzata è ancorata alla mascolinità autoritaria o, come alcuni l’hanno definito al muscular militarism e alla ideologia patriarcale della protezione che richiede obbedienza.

Nelle terre di confine tra Texas e Messico, a Gaza e in Cisgiordania e nel Kashmir, la presenza di particolari soggetti quali donne, indigeni, poveri, mussulmani, migranti, nonché il fenomeno della prostituzione, coinvolgono da un lato il controllo sociale e dall’altro lo spossessamento legalizzato e la morte sociale, per giustificare forme di violenza su più livelli. Potrebbe essere interessante per voi pensare a quello che sta succedendo in Europa con le migrazioni. L’economia politica degli stati securitari si focalizza fondamentalmente sul permanente abbandono di certe popolazioni asservite, che messe in cattività, sotto controllo, son poste come funzionali all’ordine neoliberale. Qui il capitalismo militarizzato è custode dello stato securitario e entrambi lavorano insieme ad accrescere i fondamentalismi, da quello mulsumano, a quello indiano, ebraico e cristiano, e si creano allo stesso tempo movimenti sociali che reagiscono alla creazione di identità neoliberali e genderizzate.

Quindi il capitalismo è militarizzato (è importante chiamarlo così, e non solo intenderlo come un sistema economico, ma come un sistema di valori sempre connesso ad altri sistemi di regolamentazione).

Parlando dell’Argentina nel XX secolo, Rita Arditti si riferisce all’esercizio della violenza di Stato all’interno di una cultura d’impunità. Una cultura dell’impunità si ha quando lo Stato opera senza timore e l’impunità è normalizzata attraverso domini politici illegali producendo una specie di ordine nell’ordine, una specie di stato d’eccezione, nei termini di Agamben, necessari al processo di dominazione. Questa è una forma di governamentalità dove lo Stato implementa il regime di sorveglianza e criminalizzazione e commette l’illegale sospensione di diritti nel nome della protezione della nazione da forme di insorgenza, nella totale impunità. Pensiamo quindi in Argentina ai desaparecidos e alle desaparecidas, alla loro prigionia, al diniego di diritti civili basilari e al diniego di quelli economici di particolari comunità marginalizzate.

Vi voglio dare una breve illustrazione delle operazioni dei regimi securitari in ciascuno dei tre luoghi presi in esame .

Stati Uniti: lotte migranti al confine. Nel 2010 il National Network for Immigrants and Refugees’ Rights ha realizzato un report chiamato “The Rise of the U.S. Immigration Policing Regime”. Il report, elaborato dalla rete delle comunità civili per i diritti umani, dimostra come il regime di polizia usi lo status di migrante per segregare le persone, definendo le persone di colore in nuovi modi. Il report spiega come vengano eliminati i finanziamenti pubblici e come vengano create delle prigioni private come luoghi in cui incarcerare le persone per questioni di migrazione. Lo status di migrante è usato anche per negare l’esistenza di persone indigene e il loro diritto all’identità, alla terra e alla loro comunità. Nel 2003 il dipartimento degli Stati Uniti per la sicurezza dei territori ha fatto un’operazione che consiste in un piano lungo dieci anni per rimuovere tutte le aree removibili: è a questo punto che i servizi per le migrazioni e per le “naturalizzazioni”, così come vengono chiamati, son stati assunti sotto il dipartimento delle sicurezza dei territori. Lì ci sono espliciti legami con le questioni di sicurezza nazionale e le questioni della migrazione.

Ci sono quindi più di 11 milioni di migranti senza documenti. Così si è creato un nuovo regime di polizia che connette le questioni della migrazione, della cittadinanza, del terrore della guerra mondiale, il controllo dei confini, la sicurezza nazionale, il crimine, il rafforzamento della legge e l’economia. Tutto sotto l’idea guida di protezione della propria home-land, o difesa della patria.
Quindi,  nel momento in cui si ha questa tipologia di narrazione, per forza di cose si mobilitano tutte le componenti appena elencate. Il report elaborato mostra come con le crisi economiche il regime neoliberista securitario abbia criminalizzato sempre più, militarizzandosi, i/le migranti, collegando retoricamente la migrazione alla sicurezza nazionale. L’approvazione, nel 2010, di una legge chiamata sb1070, una legge razziale e anti-migrazione, richiamava l’intervento della polizia per combattere chi fosse sospettato di clandestinità. In altre parole, ogni poliziotto può fermare chiunque sia sospettato di non avere documenti, e se non identificabile, portarlo in prigione. Mi chiedo e vi chiedo di riflettere su che tipo di strategie sono usate in Europa.

In America, per esempio, chiunque sia arrestato in Arizona non può essere rilasciato sino a che la polizia non verifica lo stato di cittadinanza, così gli agenti delle forze dell’ordine possono arrestare chiunque. I migranti sono soprattutto donne, e la detenzione femminile ha specifiche connotazioni e impatti sulle famiglie. Inizia fortemente tra il 2009 e il 2011 in Arizona la criminalizzazione dei migranti e solo nel 2014 poliziotti di confine ne hanno arrestato più di 78 mila, che viaggiavano con le loro famiglie lungo il confine messicano.

Tra le strategie previste c’è l’uso di un bracciale gps, da mettere alle caviglie delle persone identificate, in particolare per controllare i capi famiglia che attraversano illegalmente i confini, e questo anche per ridurre i costi di detenzione dei migranti nei centri privati lungo il confine. Quando dico capofamiglia, generalmente si tratta di un uomo, e la questione funziona così: si può arrestare la persona o in alternativa, molto più facile, mettergli un bracciale alla caviglia, risparmiando così il costo del centro di detenzione.

Il secondo punto è la questione democrazia e sicurezza in Israele e Palestina. All’interno delle analisi sulla violenza di genere nell’occupazione di Gaza, Anouar Abdel-Malek sosteneva che la cornice entro cui lavora Israele è quella della sicurezza. Per alcuni gruppi questo significa l’insicurezza di altri, laddove la sicurezza di Israele dai palestinesi garantisce la democrazia. Lo stato di Israele basa infatti la sua democrazia interamente su nozioni etniche di cittadinanza con diritto di ritorno solo per gli ebrei. Quello di Israele è uno stato securitario con una divisione di classe molto forte che esclude i non ebrei e, coloro che non hanno la cittadinanza hanno pochissimi diritti e nessuna possibilità di parola. Dal 1948 la spartizione dei territori palestinesi ha significato l’establishment dello Stato d’Israele e il simultaneo allontanamento dei palestinesi dalle proprie terre.

Pertanto tale data rappresenta la nascita di una nazione per gli israeliani ma è anche la nakba, “catastrofe”, per i palestinesi, ovvero la sconfitta, lo spossessamento, i traumi delle violenze subite e l’inizio del movimento di liberazione. Abdel-Malek suggerisce che l’attuale discorso sul terrore porta alla distinzione tra civili e soldati nella sicurezza dello stato nazionale e le azioni umanitarie diventano così accessori della violenza di stato contro i palestinesi. Sostiene che il discorso umanitario israeliano rientra nella logica del terrore e della sicurezza. Infatti Israele, in nome di azioni umanitarie controlla l’accesso a Gaza. Il muro che divide i territori, serve a proteggere le terre dei grandi proprietari terrieri e anche in Texas imprigiona le terre indigene che sono al confine tra Messico e Stati Uniti.

Passiamo al regime militare nella Valle del Kashmir, una delle più grandi zone militarizzate del mondo. Il governo indiano ha creato lì oltre 600.000 confini di sicurezza e ha dispiegato più di un milione di forze paramilitari, per una popolazione di solo 20 milioni di persone. Questa è una delle più alte stime di soldati rispetto ad una popolazione civile.

Al di là di come, dopo il 1946, si siano date le ripartizioni di confine tra India e Kashmir sono più interessata al funzionamento dell’apparato militare dello Stato indiano nella zona e al modo in cui controlla e definisce identità, comunità e soggettività. Il Kashmir è noto come sede di tre guerre, noto per il rischio di armi nucleari, con guerre nucleari tra India e Pakistan. Questo territorio è stato in disputa dal 1947. C’è stato un incremento del movimento islamico in Pakistan e anche la crescita del fondamentalismo hindu in India. Le politiche portate avanti dall’India nella Valle del Kashmir rispondono alla logica dello stato d’emergenza dal 1947.  Ma dal 1960 c’è stato un movimento crescente contro l’occupazione indiana che ha portato alla formazione del Fronte di Liberazione del Kashmir e il sotterraneo movimento secessionista che sta portando avanti dure battaglie per l’autodeterminazione. La natura della ribellione nei primi anni ‘90 è cambiata con l’emergere di diverse organizzazioni separatiste, alcune religiose, che erano specialmente a favore delle politiche pakistane. Per rispondere a questo l’India ha fatto passare The Armed Forces Special Powers Act nel 1990. Sostanzialmente si tratta di un provvedimento di accrescimento di militarizzazione dello Stato, accompagnato da un sistema di impunità per rafforzare il regime di sorveglianza e incarcerazione in Kashmir. Quest’atto, ci porta a considerare la cornice ideologica della Valle del Kashmir in termini di paura, tra le fila dell’insurrezione e della contro-insurrezione, con la sospensione dei diritti costituzionali e le libertà. L’atto AFSPA anche qui autorizza legalmente la sospensione della distinzione tra legalità e illegalità. Gli agenti di Stato che commettono omicidi, detenzioni e torture, stupri, tratta, traffico umano di bambini, sono protetti da quest’atto. Qui anche vediamo che c’è la creazione di quello che alcuni hanno chiamato una “costituzione di free zone” che penso sia un termine molto importante: indica un posto dove la costituzione statale non funziona anche se siamo all’interno dei confini dello Stato-Nazione.

Free zone tra Stati Uniti-Messico e Israele-Gaza

Oltre le differenze delle diverse storie di imperialismo e colonialismo, ci sono delle notevoli somiglianze nelle forme in cui la governamentalità neoliberale si esplica a partire dalla formazione di Stati securitari in India in Israele e negli Stati Uniti e penso che queste forme di governamentalità siano più visibili nella normalizzazione della violenza statale nelle terre di confine tra Messico e Texas e nella Valle del Kashmir  e nella striscia di Gaza. Quindi, comparare luoghi geopolitici ci permette di capire il terrore imposto dalla guerra e la violenza statale e la trasformazione dei civili in insorgenti e illegali attraverso la legale sospensione dei diritti civili, che, in questi tempi, è un atto sintomatico della democrazia imperialista.

In ogni contesto la sovranità dello Stato è basata sull’operazione della costituzione di free zone ai confini della nazione. La violenza normalizzata su particolari corpi, musulmani, donne, nativi, migranti, arabi ha a che fare con il discorso sulla protezione e sulla cittadinanza in ogni paese. In ogni caso possiamo identificare stati d’eccezione dove la sospensione della legge è richiesta per l’operato imperialista. In ogni contesto la cittadinanza rimane allusiva, e l’identità sono sempre in questione dando vita a checkpoint e carte d’identità. In questi posti i documenti diventano forme di controllo e governo per l’apparato statale e di sorveglianza.

Il processo di verifica dell’identità produce quello che Tobias Kelly chiama documented lifes, cioè forme particolari di soggettività che sono tenute sotto controllo e che sono connotate da ansietà, incertezza e paura. Kelly lavora sulla Palestina ma simili argomenti penso possano essere allargati ad altri contesti.

Un progetto bio-militarizzato è evidente in questi posti e qui le donne sono colpite in modo particolare perché la violenza è parte della vita quotidiana, con la presenza dei paramilitari e delle forze di polizia. Nella Valle del Kashmir le donne sono vittime di violenza sessuale e domestica, di stupro e soffrono di depressione, aborti continui, molte perdono i loro compagni e sono vedove.

Nel 1947 le milizie di donne erano parte integrante del Movimento di Liberazione del Kashmir mentre molte donne negli ultimi anni si sono organizzate come associazione dei genitori per le persone scomparse e in organizzazioni per la pace e il disarmo. L’impatto invece dell’occupazione israeliana sulle donne palestinesi è profonda: la mancanza di differenza tra casa e campo di guerra, l’indistinzione tra civile e soldato, significa che il vicinato e la casa diventano, a Gaza, il campo perenne di battaglia. Gli uomini son contati come morti civili, le donne e i bambini come danno collettivo. L’occupazione rimodella lo spazio pubblico e domestico, con una conseguente forte disoccupazione maschile. Questo si traduce anche nella trasformazione delle dinamiche famigliari e spesso però si risolve in aumento di violenza domestica. È quando la violenza sessuale e politica diventa normativa, che è possibile notare che proprio lì riposa la struttura della democrazia imperialista. Infatti le pratiche governative dei regimi securitari si legano ai processi di soggettivazione e cittadinanza. Mentre il progetto dello Stato è quello di produrre cittadini nazionali, nei regimi securitari quello che si fa è l’opposto: il disfacimento della possibilità della cittadinanza per delle precise popolazioni. Queste terre di confine sono abitate da comunità-ombra ai margini sociali e territoriali dello Stato e sono luoghi che esistono formalmente come parte dello Stato, ma in realtà sono escluse.

La realtà violenta e la rete di legami legali e illegali che la supportano sono tenute nell’invisibilità.
Quindi questa logica di violenza, di contenimento ed espulsione produce forme diverse di abbandono sociale e morte con conseguenze per entrambe le comunità prese di mira come nemici e outsider e con conseguenze per tutto il corpo politico di diritti civili perché ci ridisegna dentro i confini della violenza statale.
La capacità di queste pratiche non è solo quella di marginalizzare le persone. Infatti questa marginalizzazione è dipendente dal consenso di quelle persone che di fatto sono sicure dentro i confini dello Stato-Nazione. Quindi anche noi dentro il confini della violenza statale siamo disegnati secondo le forme di soggettività molto marcate dagli scenari di sicurezza globale.

Muri, confini, connessioni e solidarietà attiva

Per affrontare l’ultima questione inizio con una citazione della poeta e scrittrice femminista Therese Saliba

“La prima colonizzazione delle Americhe da parte dell’Europa ha smembrato le terre e ha messo in moto processi che hanno spossessato le persone indigene  e la loro civilizzazione. Anche la colonizzazione israeliana della Palestina ha smembrato le terre cercando di sradicare l’identità culturale dei popoli che lì vivevano e ogni segno della loro precedente presenza in quelle terre. Oltre 400 villaggi palestinesi sono stati spossessati e trasformati in rifugi nelle terre di esiliati e stranieri nella loro terra. A Sud Ovest siamo soggetti invece ad un altro modo di colonizzazione dall’America. Questo atto di imperialismo ha diviso le popolazioni messicane in due confini artificiali col Texas: gli Stati Uniti con l’atto di difesa del 2006 hanno dato al dipartimento di sicurezza del territorio poteri unilaterali per varare 36 leggi federali nei confini internazionali tra Texas e Messico in collaborazione con le multinazionali del petrolio, iniziando così a costruire un muro di sicurezza. Queste leggi lasciano la regione intera alla piena militarizzazione. Annullando i diritti delle persone indigene alla propria cultura, all’ambiente, alla biodiversità e distruggendo i posti sacri.”

Questo quindi è un chiaro esempio della politica degli Stai Uniti vista come completamente razionale attraverso la cornice del terrore, della guerra e attraverso regimi che hanno di mira i migranti. La sospensione delle leggi è un’arma per far scomparire le comunità. Law Defense, la organizzazione apache di cui parlavo prima, fondate dalla madre e dalla figlia Lucia Tamez e Margo Tamez nel 2007 si focalizza sulle organizzazioni delle comunità e sulla loro documentazione, sulla ricerca e sull’ educazione rafforzando così le lotte indigene contro la violenza coloniale anche in relazione a battaglie legali a livello internazionale (https://lipancommunitydefense.wordpress.com/)
Infatti coloro che vogliono creare profitto sostenuti dalle multinazionali petrolifere statunitensi per interessi di produzione mineraria sono i proprietari terrieri ricchi, ben protetti dalla costruzione del muro, mentre fanno sì che le comunità indigene abbiano muri costruiti nelle loro terre.

Questo di base è quello che gli attivisti hanno chiamato costituzione di free zone, per le comunità indigene. Quindi le persone indigene e i e le migranti illegali, che son per la maggior parte persone messicane che abitano quelle terre, sono definiti come terroristi, come narcotrafficanti, e come pericolosi insorgenti.  Migranti e indigeni sono due categorie create sotto gli stessi processi e non sono separate. La continua invenzione dell’indigeno e del migrante e il modo in cui la legge impatta su questo è un nuovo fenomeno.   Ci sono quindi nazioni indigene che stanno in entrambi i lati del confine del tra Stati Uniti Messico e gli abitanti non si considerano messicani e americani e in ogni caso non riconoscono né la sovranità degli Stati Uniti né quella del Messico.

Il Messico ora richiede il passaporto statunitense per le persone che viaggiano oltre 12 miglia dentro il territorio messicano, ma la validità del passaporto viene messa in questione in ritorno negli Stati Uniti. La legge dell’Arizona, che ho menzionato prima, protegge e giustifica la presenza di petrolio là nel confine. Abbiamo checkpoint e riserve di petrolio lungo il confine in maniera simile alla Palestina. Sono esattamente gli stessi checkpoint. Infatti le stesse compagnie che hanno costruito il muro in Palestina  sono impegnate anche tra Messico e Stati Uniti nella costruzione del muro.

La legge dell’Arizona è stata ideata per proteggere questo complesso industriale estrattivo attraverso il rinforzo dei confini.  La vita è ogni giorno sorvegliata dai soldati e la militarizzazione è funzionale alla costruzione delle identità; si tratta di una forma specifica di produzione di soggettività “documentate”.
Dal 2013 ci sono state due importanti progetti attraverso il confine messicano: un grandissimo sistema ferroviario di trasporto e la costruzione di un corridoio attraverso il Texas che connette Albota Canada al sud del Texas al Messico per un progetto transemisferico chiamato  “Security and Prosperity Partnership” per essere trasportati in treni che scorrono su ponti giganti sopra i territori apache. Questo mi pare un esempio chiaro ed esplicito delle connessioni esistenti tra privatizzazione, militarizzazione, sorveglianza, regime securitario, e la completa incarcerazione e criminalizzazione di particolari comunità.

Come Therese Saliba spiega, ci sono chiare confluenze tra l’impatto del progetto coloniale imperialista degli Stati Uniti e l’occupazione colonialista israeliana nell’occupazione delle terre di Gaza. Il lavoro organizzato dal Centro Esperanza mostra evidenti connessioni, in termini di impatto, tra i muri, confini e spossessamenti e le vite delle donne in Palestina e nelle terre di confine del sud del Texas, offrendo uno sguardo illuminante in una prospettiva femminista e transnazionale. Organizzate nella costruzione di comunità son le stesse persone delle comunità a scegliere le loro forme di resistenza contro la violenza normalizzata in Israele. Ambiente, giustizia sociale e lotte sono temi su cui ci focalizziamo in entrambe le zone. Al confine tra Texas e Messico, la militarizzazione ha distrutto l’ambiente e l’agricoltura, come in Palestina. È allora qui possibile tracciare alleanze e solidarietà tra un luogo e l’altro.

Quello che conta, con grande interesse, è vedere come le comunità si organizzano nella resistenza.

Negli Usa al confine ci sono nuove formazioni politiche e alleanze tra organizzazioni di lavoratori migranti, collettivi radicali di studenti medi e universitari, migranti messicani queer e transgender, persone indigene, artisti. C’è un’organizzazione di anarchici nativi, associazioni antirazziste, comitati di vicinato e di quartiere che cercano di lavorare in modo forse più conservatore, ma si son uniti e lavorano insieme a organizzazioni contro la privatizzazione dei centri di detenzione, organizzazioni abolizioniste delle prigioni. Le donne di colore, questo è importante, sono la maggioranza, e sotterraneamente si occupano dell’organizzazione nella maggior parte di tutti questi gruppi. Cosa mi interessa è che nei movimenti sociali ci sono prospettive femministe, e ci sono attivisti che stanno portando avanti analisi su come tenere insieme più piani, attivisti che hanno reso possibile che le persone vedessero cosa realmente stesse accadendo, rendendo evidenti le connessioni in tutti i livelli, includendo anche che tipo di conoscenza si produce in questi casi, in che modo si controllano fisicamente le persone attraverso regimi di sorveglianza.

Il lavoro di organizzazione politica è stato quindi di connettere e mostrare le connessioni tra diversi tipi di violenza alle quali sono soggette le comunità. Non sono le persone sedute dentro le università che hanno reso questo possibile. Le analisi si sono generate tra i movimenti sociali e le loro organizzazioni. Quindi,  si tratta di una teoria che è irrimediabilmente ancorata al terreno di cui si occupa, non sarebbe mai potuto succedere se le persone avessero tentato di effettuare queste connessioni in una maniera puramente intellettuale, in astratto. Perché è importante fare il lavoro di decolonizzazione in maniera collettiva, e lavorare insieme per capire, altrimenti il rischio è anche di non sapere che succede fuori di noi e dei vincoli intrattenuti e riprodotti tramite saperi egemonici.
Simili connessioni transnazionali sono evidenti anche nel caso delle lotte femministe in Palestina e Israele  e in India e in Pakistan e in Kashmir per alcune donne che si stanno organizzando contro ogni forma di violenza statale e nelle comunità nelle regioni ma al di là dei confini nazionali.

E ci sono un sacco di importanti organizzazioni di solidarietà tra donne e femministe indiane, pakistane e del Kashmir che hanno lavorato insieme in queste battaglie e su queste questioni.
Il tipo di conoscenze insorgenti generate da queste forme di attivismo consegna una prospettiva femminista a nuove soggettività politiche e crea nuove visioni di cittadinanza necessarie per affrontare le democrazie imperialiste.

Conclusioni

Per concludere: ho argomentato che dopo l’11 settembre il consolidamento della democrazia imperiale e dei regimi securitari negli Stati Uniti in Israele e in India hanno mobilitato dispositivi di violenza ancorati ai vincoli coloniali e al profitto capitalista. Questo regime usa ideologie e pratiche di genere e di razza specifiche e connesse tra loro. Le democrazie imperialiste militarizzano ogni aspetto della vita sociale e non solo nelle comunità criminalizzate, ma nei confronti di tutti e tutte.

Cosa si potrebbe allora fare nello smascherare il sistema neoliberale che guarda a sé come ad una democrazia?
Una visione alternativa di interconnessione tra lotte e solidarietà richiede la costruzione di una solidarietà etica femminista transnazionale che affronti la militarizzazione neoliberale a livello globale. Questo significa puntare a strategie di resistenza che fondamentalmente trasformino le ineguaglianze sociali ed economiche dal basso, portando alla creazione di nuove forme e nuove visioni di solidarietà. Sono le esperienze delle comunità marginalizzate e specialmente sono le donne che sostengono il lavoro di connessione e di rete nella vita di tutti i giorni, quel lavoro che informa processi per la creazione di sguardi transnazionali radicali per la giustizia sociale, per la giustizia economica e di genere.

Un altro mondo è sempre possibile, specialmente se le persone iniziano a costruire solidarietà transnazionale, che ci permette di vederlo e crearlo.

Allora, finirò con una delle mie citazioni preferite di Arundhat Roy, che, nel suo discorso pronunciato durante il World Social Forum del 2002 disse: “Le nostre strategie non dovrebbero consistere nel confrontare tra loro gli imperi, ma di privarli dell’ossigeno, di infamarli, di renderli evidenti, con la nostra arte, la nostra musica, la nostra letteratura, la nostra ostinazione, la nostra gioia, la nostra intelligenza e dovrebbero rendere possibile il racconto delle nostre storie. Storie che sono differenti da quelle che ci hanno convinto a credere alla rivoluzione delle corporation. Questa collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vendono, le loro idee, la loro visione, i loro muri, le loro armi, la loro nozione di ineluttabilità. Ricordate questo: noi saremo tanti, e loro saranno pochi. Loro hanno bisogno di noi molto più di quanto noi abbiamo bisogno di loro. Un altro mondo non solo è possibile, lei è sulla via. In un giorno silenzioso, posso sentirla respirare.”

*Lezione di dottorato nell’ambito del ciclo di seminari intitolato “Gli studi postcoloniali e la questione della soggettività politica nella teoria radicale” organizzato dalla rete Deco[k]now presso l’Università L’ Orientale di Napoli, 21 Maggio 2015

Trascrizione e traduzione a cura di Alessia Drò
revisione a cura di Serena Fiorletta

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Alessia Dro

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Serena Fiorletta, antropologa culturale, ha compiuto ricerca sul campo in Palestina, nei territori occupati. Si occupa di colonialismo e post-colonialismo, migrazioni e questioni di genere, da una prospettiva di studi postcoloniali. Si è laureata (...) Maggiori informazioni

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Alessandra Chiricosta

Alessandra Chiricosta, filosofa, storica delle religioni specializzata in culture del Sudest asiatico continentale dell’Asia Orientale, ha compiuto studi e ricerche sul campo in queste aree. In particolare, si occupa di questioni relative alla filo (...) Maggiori informazioni