Cinema/ Hannah e il male assoluto

Hannah Arendt – un film di Margarethe von Trotta con Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen.  durata 113 min. – Germania, Lussemburgo, Francia 2012

di Irene Melis

http://www.societadelleletterate.it/2014/02/uno-4/

Hannah Arendt, il film diretto da Margarethe Von Trotta datato 2012 e uscito nelle sale a gennaio 2014, delinea la figura della filosofa, storica e scrittrice di madrepatria tedesca attraverso la descrizione degli accadimenti occorsi tra il 1960 e il 1964, periodo nel quale svolse il ruolo di inviata speciale del New Yorker al processo contro Adolf Eichmann (il gerarca delle SS catturato rocambolescamente a Buenos Aires dal Mossad e trasferito a Gerusalemme per essere processato).

Per Arendt, ebrea internata in un campo francese, ma scampata all’Olocausto con una provvidenziale fuga negli USA nel 1940, il processo a Eichmann è l’occasione per fare i conti con un passato che incombe ancora sulla sua vita e su quella degli ebrei sopravvissuti alla persecuzione e che attendono giustizia.

Coglie l’evento come opportunità per capire meglio, dal vivo, attraverso il contraltare accusa/difesa, senza una visione pregiudiziale, il ruolo di un uomo accusato di essere uno degli artefici delle dinamiche di annientamento tipiche del regime nazista.

Lei, autrice del fondamentale Le origini del totalitarismo (1951), trattazione inedita e innovativa dei regimi totalitari, ritiene che assistere al processo che mobilita la comunità internazionale possa essere illuminante per capire le ragioni di un aguzzino responsabile della sezione IV-B-4 (competente sugli affari riguardante gli ebrei) che aveva il ruolo di coordinare il trasferimento degli ebrei.

L’ingresso in aula di Eichmann, il suo prendere appunti durante l’interrogatorio, le sue risposte documentate efficacemente nel film con immagini video dell’epoca, mostreranno ad Arendt una persona diversa da quella che immaginava e da quella che l’accusa cerca di descrivere: non Satana, non un mostro, non un leader che aveva ideato un piano, ma un mero esecutore di ordini, un burocrate che meticolosamente protocolla e lavora pratiche il cui oggetto è il trasferimento di centinaia di migliaia di persone ai forni crematori.

Gli sguardi di Arendt (interpretata da Barbara Sukova e valorizzata da Von Trotta con primi piani di intensa meditazione e una prossemica che ne mette in risalto l’inquietudine via via che si rende conto del grigiore di Eichmann) segnano come pietre miliari la trama del film e la genesi del tanto atteso reportage sul processo al nazista.

«I filosofi non sono mai puntuali!» commenta stizzita l’assistente del diretto e del New Yorker quando viene affidato il ruolo di inviato speciale del quotidiano ad Arendt.

Ha ragione.

L’articolo che, è il caso di dire, Arendt partorisce dopo una lunga gestazione («Non ho avuto figli perché da giovane scappavo da un mondo che implodeva e poi ero troppo vecchia per averne») è l’elaborazione di un travaglio personale e di un mondo: quello di quegli amici che la sostengono, di quelli che la abbandonano, dei lettori che la insultano e degli ebrei che leggono nelle sue parole accuse e mancanza di condivisione.

Arendt non cade nella trappola della condanna sic et simpliciter di un persecutore perché scopre che Eichmann «non era stupido, era semplicemente senza idee, lontano dalla realtà» e legge in questa rivelazione che «la mancanza di idee è molto più pericolosa di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo».

Per Arendt banale non è il male ma la persona che lo ha commesso, che non si è posta domande e non si è «stupita per quanto stava accadendo».

Il linguaggio burocratico di Eichmann («Mi occupavo solo di trasporti»), mero esecutore di ordini, che non pensa, non riflette, non si pone alcun dubbio, è per Arendt una lezione sugli effetti dei regimi totalitari che fabbricano uomini che non erano «né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali».

Questa scoperta sconquassa la vita di Arendt che, nel riportare fedelmente anche le testimonianze di alcuni leader del mondo ebraico che svelano complicità imbarazzanti, paga in prima persona ricevendo attacchi di grande violenza che la sua fedele allieva Lotte Kölher ordina quotidianamente per tema, nelle lettere di insulti provenienti da tutto il mondo.

Il film mostra anche la sincera amicizia della scrittrice Mary McCarthy, il sostegno mai mieloso del marito poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, il rapporto con l’amico Kurt Blumenfeld (che non la perdonerà per gli scritti sul processo) e, attraverso brevi ma intensi flash back, il suo passato da studentessa all’Università di Marburg nella quale ebbe come docente il filosofo Martin Heidegger che la coinvolgerà anche dal punto di vista sentimentale e sul cui silenzio all’avvento del nazismo si interrogherà molto.

Arendt è una donna forte che mette in pratica la libertà dell’agire nel pubblico, che affronta i contestatori, che spiega lucidamente le ragioni della sua analisi sul processo che utilizzerà come materiale fondante del saggio La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) in cui sviluppa il concetto di male assoluto (argomento solo accennato nel suo volume sul totalitarismo).

Dopo la serie di articoli del New Yorker, chiamata in causa, dalla stampa e dalla stessa Presidenza dell’Università che la invita alle dimissioni, Arendt non si sottrae e afferma la centralità del pensiero e dell’azione durante una memorabile lectio magistralis in cui espone l’elaborazione del suo pensiero che tanto sconcerta i più e che, come insegna Socrate, è frutto in particolare del «dialogare tra sé e sé», un esercizio che se praticato previene derive come quella del Reich.

Un film necessario, come la verità che costituisce il principale presupposto delle vicende umane per conoscere, comprendere ed esprimere giudizi e comunicarli autorevolmente nello spazio comune, relazionandosi con la vita degli altri. Come fa Hannah Arendt.
Redazione

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