Clarissa Greco – Conflitti e resistenze

Clarissa Greco – Conflitti e resistenze

Per poter esprimere un’opinione, un giudizio e delineare quindi una posizione, è necessario “un punto di vista”.  Ovvero analizzando il complesso delle narrazioni prodotte sulle donne e sulla loro violenza, non si può non considerare la diversità dei contesti storico-culturali in cui queste si sono manifestate. Alcuni di questi sono le fondamenta della società cui appartiene chi scrive, su tutti il mondo classico, altri sono estranei ed “esotici”, avvertiti come lontani e quasi impenetrabili per i codici di comunicazione totalmente altri. Non si può quindi prescindere nella valutazione e nelle analisi delle narrazioni sulla violenza delle donne dal contesto culturale di appartenenza.

Nella breve esposizione a seguire si è partiti dalle due esperienze fondamentali, violenza e conflitto, delineando la loro differenza e attribuendo quindi a ciascun ambito figure e narrazioni, separando cioè i due ambiti in base anche a valutazioni, o meglio ricostruzioni di tipo storico.

 

Differenze tra conflitto e violenza

Innanzitutto è necessario distinguere tra conflitto e violenza. E’ ben radicato nella percezione collettiva come una serie di parole abbiano più o meno lo stesso significato: conflitto, litigio, guerra, violenza, aggressività, prepotenza. Queste sono utilizzate come se si riferissero alle stesse modalità dell’agire. In particolar modo è proprio la parola conflitto ad essere utilizzata come una sorta di contenitore generale, come se racchiudesse nel suo significato tutte le altre parole. Del resto il conflitto tra “due nazioni” è sinonimo di guerra, ovvero distruzione dell’avversario attraverso l’esercizio della violenza. E’ tuttavia doveroso sottolineare che esiste in realtà una netta differenza di significato tra le due parole.

Il conflitto è una contrapposizione “forte e netta” tra diverse posizioni, una divergenza di opinioni che non esclude una qualche forma di rapporto con l’altra parte anche se ampiamente problematica.

La violenza è invece un modo per terminare il conflitto attraverso l’eliminazione fisica della controparte. Nella violenza l’azione è irreversibile. La violenza è quindi una metodologia di risoluzione di un problema identificato con una persona fisica, eliminando la persona, si elimina quindi il problema, cioè il conflitto.

In considerazione di quanto sopra esposto, l’esposizione seguente distinguerà tra le “narrazioni di violenza” in cui al centro è lo scontro fisico rispetto ai conflitti che potremmo dire di dimensione “politica”.

L’uso del termine “dimensione politica” non è banale e deve essere opportunamente sottolineato. La violenza è un’azione, più o meno premeditata, finalizzata ad eliminare il rapporto con la controparte poiché, come sopra accennato, il problema è la persona stessa e quindi eliminandola, scompare il problema stesso. Un modo di agire che viene definito arcaico e primitivo, e proprio per questo deve essere storicamente inquadrato “in un mondo arcaico” che evolvendo trasforma la violenza in conflitto, ovvero contrapposizione aspra ma non finalizzata alla distruzione fisica della controparte, cioè quella condizione fondante delle società “politiche”.

Potremmo quindi attribuire le narrazioni di violenza, nel mito e nella storia, al ricordo delle società arcaiche e primitive, quelle del conflitto all’evoluzione di queste società. Dunque nel mondo moderno non esiste la violenza? Al contrario, ma non si assiste alla  violenza di genere come nelle narrazioni mitiche, piuttosto un “rigurgito che richiama l’ancestrale violenza delle società arcaiche”. Ed è a questa che l’uomo, inteso come essere umano, ricorre per uscire dalle sue “incertezze relazionali”. Per quanto la nostra società, sia consapevole dell’inaccettabilità della violenza come strumento comunque continua a ricorrervi, anzi usa lo strumento tecnologico come amplificazione della stessa.

 

L’esercizio della violenza.

La sopraffazione ed eliminazione fisica dell’opponente presuppone l’uso di una forza preponderante rispetto alla controparte. In una società tecno-meccanica questa forza può essere scatenata senza dover necessariamente essere dei giganti, un click su un grilletto, una pressione su un bottone e così via. Nelle società arcaiche, o meglio non tecnologiche, gli strumenti di offesa necessitavano di una certa prestanza fisica per essere manovrati con efficacia. Chi era più forte riusciva a scagliare la lancia più lontano e quindi a colpire prima l’avversario e con maggiore efficacia. La massiccia struttura maschile risulterebbe quindi più avvantaggiata, da cui quello che viene definito nella premessa come lo stereotipo “dell’uomo guerriero” e della donna “debole e passiva”.

Uno stereotipo che trova conforto anche nel ruolo femminile all’interno dei gruppi sociali primitivi, gruppi in cui sono scaturiti i vari modelli sociali ampiamente caratterizzati dalla figura maschile dominante. I tempi della gravidanza e successivo allattamento, sottraevano infatti le donne ad alcune “incombenze” come appunto la guerra.

Queste caratteristiche avrebbero quindi portato la componente femminile ad occupare un ruolo totalmente altro e differente rispetto alla guerra, o comunque alla violenza in genere. Al di là delle indiscutibili peculiarità biologiche, sembra tuttavia che dalle evidenze storiche e religiose i campi non siano così nettamente definiti. Ciò che ci è stato tramandato riverbera un rapporto diverso tra donne e violenza/forza, un rapporto che è poi stato riletto, rimaneggiato e in larga parte confinato nel mito.

 

La via orientale e la via occidentale

In tutte le culture, indipendentemente dalla latitudine, l’esercizio della guerra, quindi l’applicazione su larga scala della violenza, risulta appannaggio maschile, con alcune dovute precisazioni come vedremo successivamente. La risposta può essere naturale: l’uomo è più forte della donna. Bene, una riflessione che per semplificazione considera i modelli di comunicazione moderna. Prendiamo i film sugli “sport da combattimento” girati in occidente: uomo che si allena, suda, fatica, sale scalinate, grugnisce, impreca, in tutta una sequenza di esercizi che portano il suo fisico al limite. Film di contenuto analogo girato in oriente: la concitazione dell’allenamento fisico lascia lo spazio a lunghe sedute di meditazione, il controllo e la gestione del proprio corpo attraverso la mente predominano sulla dimensione dei bicipiti. La donna non è comprimaria, è essa stessa protagonista, allieva, maestra e combatte pari a pari con gli uomini, stesse tecniche, stesse armi. Non a caso nel Giappone medioevale, pur essendo una società marcatamente patriarcale, alle donne era consentita e accessibile la pratica delle arti marziali nonché la partecipazione ad azioni militari.

Esiste dunque un’altra “via” verso al forza che non è quella occidentale, una forza diversa, ma pur sempre forza che la donna apprende ed esercita, sebbene lo sfondo sociale sia sempre caratterizzato dalla misoginia.

Questa banale riflessione per sottolineare come l’esclusione dal contesto bellico della donna per motivi “fisici” sia in realtà piuttosto discutibile, piuttosto un luogo comune consolidatosi in funzione di specifiche dinamiche evolutive delle società.

 

Le donne guerriere dei miti

Le evidenze storico – religiose testimoniano le cosiddette dee guerriere figure che ci autorizzano a ritenere che la femminilità non ha nulla a che vedere con l’essere deboli e sottomessi. Ed anche  nella dimensione culturale “cristiana”, dove la donna viene prevalentemente definita come madre o vergine è sotteso questo concetto. Nell’ Antico Testamento troviamo un passo del profeta Osea “Come un’orsa privata dei cuccioli li aggredirò» (Os. 13.8). Il passo è chiaramente riferito ad un contesto familiare, di difesa della prole ma evidenzia pur sempre una forza aggressiva associata a quello che si potrebbe definire il lato femminile del Dio unico.

Come sopra anticipato è comunque il “mondo antico” che ci restituisce le più consistenti testimonianze di una dimensione femminile associata alla “violenza”. In primo luogo Atena di cui si ricorda “la Sapienza”, ma si tralascia l’iconografia che la vede portare l’elmo, lancia e scudo. Non meno significativa nel mondo romano la dea Bellona la cui “sfera di competenza” era anche più ampia di quella di Marte poiché sovrintendeva a tutti gli aspetti del conflitto, ovvero quelli militari ed anche quelli diplomatici.

All’interno del pantheon induista merita invece di essere menzionata la dea Durga raffigurata con diversi tipi di arma ed associata sia ai poteri di creazione e distruzione, un aspetto ambivalente che prevale nell’ambito indoeuropeo. Interessante quindi che le divinità femminili si evolvano da questa dimensione doppia verso l’assunzione della violenza come identità caratteristica.

Continuando questa breve analisi religiosa, in Egitto troviamo Sekhmet, raffigurata con la testa leonina che sebbene in abiti femminili, era comunque la terribile dea della guerra e della distruzione. Non meno significativo è il mito delle Valchirie della mitologia nordica, eco dell’attiva partecipazione delle donne alle vicende belliche delle popolazioni germaniche come per altro documentato ampiamente dalle fonti storiche.

In ultimo le Amazzoni, che popolano il panorama storico-letterario del mondo classico un mito  nel quale si manifesta il ricordo di una società governata da “donne guerriere” come confermerebbero le tombe di varie donne guerriere seppellite insieme alle proprie armi al confine tra Russia e Kazakistan

 

Le donne guerriere

Dalla dimensione mitico-religiosa non si può quindi non passare a quella storica. Se nel mondo romano, di fatto nel periodo imperiale una comunità organizzata per la guerra, la donna ha prevalentemente un ruolo di supporto, incitamento, è nel mondo celtico-germanico che sono ampiamente documentate figure femminili impegnate “in prima linea”. Come riporta lo storico Cassio Dione, oltre alle donne germaniche che o partecipavano direttamente alla battaglia oppure costituivano l’ultima linea di difesa dell’accampamento, la più rappresentativa  è Boadicea (Budicca) regina dei Britanni e terrore dei romani come testimoniato dalle fonti antiche, fonti per altro dimenticate fino ad una recente riscoperta con finalità nazionalistiche. Ampiamente conosciuta è invece la vicenda della patrona di Francia Giovanna d’Arco che, con il consenso del re di Francia Carlo VII, riscatta i francesi dall’occupazione inglese britannica ma viene poi catturata, accusata di stregoneria e bruciata sul rogo. L’esercizio della violenza da parte di una donna nella sua massima espressione, “a capo di un esercito” come atto di blasfemia ed eresia e da punire come tale.

Nonostante l’immagine fin troppo stereotipata del Medioevo come età oscura e oppressiva, le donne guerriere fanno la loro comparsa anche in questa era. La presenza di donne in armatura è infatti storicamente documentata nelle cronache arabe delle crociate, con un certo stupore misto ad ammirazione.

Il fenomeno delle donne guerriere è riscontrabile anche in Africa, infatti in quello che oggi è il Benin i primi europei si imbatterono in una milizia tutta femminile creata dal sovrano locale come sua guardia personale, a testimonianza per altro di come le donne venissero impiegate con compiti più qualificati rispetto alle milizie ordinarie.

Per arrivare all’era moderna, è nell’ex Unione Sovietica che si riscontra per primo l’impiego in reparti regolari di “donne combattenti”. Speciale citazione meritano le “streghe della notte”, un reggimento creato durante la seconda guerra mondiale composto di sole donne aviatrici dedicato a missioni notturne di bombardamento. Archetipo, questo reggimento, di tutti i successivi sviluppi che vedono l’inserimento delle donne nei reparti combattenti dei vari eserciti.

Interessante è il caso di Israele, stato laico ma profondamente caratterizzato dalla religiosità biblica; ebbene come noto e donne hanno obblighi di leva analoghi a quelli maschili, aspetto questo che meriterebbe un’ampia riflessione su alcuni stereotipi di impronta cristiana, vista la stretta relazione, in termini di Libri Sacri tra ebraismo e cristianesimo.

La dimensione guerriera femminile è quindi ampiamente documentata nella storia e comune a diverse culture in diverse latitudini. Come brevemente sopracitato, sono le figure delle divinità guerriere che rimandano a realtà e dimensioni sociali in cui il binomio donna-debolezza non sembrerebbe trovare riscontro. L’evoluzione e la trasformazione della società in senso patriarcale, si potrebbe parafrasare come una sorta di conflitto con un vincitore, ha trasformato poi la dimensione della violenza femminile collocandola nella sfera del mito e della leggenda, depotenziandola cioè del ruolo di contropotere della società patriarcale.

 

Le Baccanti di Euripide e la reinterpretazione della violenza femminile

Nella tragedia greca le Baccanti, donne, rappresentano la quint’essenza della violenza femminile, squartano mucche, devastano villaggi, rapiscono bambini, fanno a pezzi uno dei protagonisti maschili. Si direbbe il furore dionisiaco, la donna come rappresentazione dell’irrazionalità, da un lato l’apollineo maschile dall’altro il caos distruttivo femminile come oceani di volumi hanno discusso e confutato. Ma a ben guardare c’è altro.

Come narrato nell’opera Dioniso, il dio, arriva in città a Tebe, si rompe così il confine tra sfera umana e divina e allora l’ordine naturale delle cose viene sovvertito. Le donne “impazzite” vagano sulle montagne come branco di fiere. Ecco, la violenza femminile viene ricondotta al sovvertimento di un ordine, al turbamento di un equilibrio.

La violenza femminile non è dunque uno degli aspetti possibili della società, è il sovvertimento della società stessa, è ciò che minaccia l’esistenza della società stessa. In questo senso, la tragedia, come elemento portante di formazione della coscienza della Grecia antica, e quindi del pensiero occidentale, delinea il principio interpretativo che sarà poi prevalente, prima ancora del “madre e vergine” cristiano, la violenza delle donne come rovesciamento dell’ordine delle cose e del mondo e quindi come fenomeno da esorcizzare la cui stessa manifestazione è preludio di un rovesciamento dell’equilibrio.

 

Il conflitto

Dopo questa breve panoramica sulla storia della violenza delle donne, è possibile esaminare la dimensione del conflitto, cioè di quella che potremmo definire come la contrapposizione “dialogante”. In riferimento a questo aspetto è naturale inclinazione riferirsi ad una contrapposizione di genere uomo-donna. In realtà si dovrebbe precisare, come vedremo, che la dimensione del conflitto può essere in realtà intesa come divergenza sociale tra donne e resto della società di impronta maschile-patriarcale, società che è bene ricordare comprende comunque anche l’universo femminile sebbene relegato per la maggior parte in condizioni di subalternità.

 

Le interpreti del conflitto

Ogni periodo storico risulta caratterizzato, o meglio punteggiato “qua e là” da figure femminili protagoniste non di azioni violente, ma piuttosto di quella che abbiamo definito come una dimensione di “aspra contrapposizione” con il resto della società. Meglio sarebbe dire che la società ha visto nel ruolo di determinate figure femminili una contrapposizione all’ordine costituito interpretandole e rileggendole in chiave conflittuale.

Innanzitutto le regine “sole” intese come massima espressione del potere piuttosto che come consorti regali. Ebbene ogni cultura ad ogni latitudine ed in ogni periodo annovera liste di regine, l’elenco è piuttosto impressionante, su tutte basti pensare alla regina Vittoria simbolo dell’imperialismo britannico. Nonostante il non secondario ruolo di queste nella storia, la loro azione, potremmo dire, è più legata a questioni di successione e dinastiche ad un esercizio di potere per mantenere, consolidare, ampliare il modello di società di cui erano espressione, piuttosto che introdurre e proporre diverso ruolo delle donne nella società. Ebbene nonostante questo ruolo, diremo “non rivoluzionario” con riferimento alla dimensione femminile, sono sempre state considerate come delle eccezioni, da temere piuttosto che ammirare perché sorta di pericolose varianti nell’ordine naturale delle cose.

Uno dei campi in cui si manifesta la dimensione del conflitto è forse quello dell’arte, che proprio per la sua natura è la migliore forma di espressione e quindi anche contenitore ideale di ogni idea e manifestazione conflittuali. Anche in questo campo la storia è punteggiata da innumerevoli figure femminili, nel campo della poesia ad esempio gli esempi sono innumerevoli ma le donne che scrivono, almeno fino all’età moderna, sembrano ad appartenere ad una ristretta élite che ha la possibilità d’istruirsi solo grazie agli insegnamenti di padri, fratelli o precettori.

In questo senso, per quanto in alcune delle loro opere si manifesti chiara la dimensione conflittuale, intesa come contrapposizione alla misoginia dominante, questa risulta sempre confinata nell’ambito di una ristretta e limitata cerchia.

Umaniste, pittrici, scrittrici, poetesse abbondano nel panorama storico, il talento artistico esplode anche senza una preparazione specifica, non nelle scienze, dove è richiesta una preparazione di base senza la quale è quasi impossibile avanzare poiché la sola curiosità non è sufficiente. Se dunque nei conventi poteva fiorire la dimensione artistica femminile ma ben inquadrata nell’ortodossia, se nei circoli letterari, già chiusi per costituzione, potevano trovare accoglienza manifestazioni di un pensiero altro rispetto ai modelli maschilisti prevalenti, non si poteva assistere ad analoghe manifestazioni nel campo scientifico. Solo chi aveva un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere il sapere e le scoperte poteva acquisire una cultura scientifica. Fino all’età moderna il numero delle donne scienziato è infatti di gran lunga inferiore rispetto a quello delle donne “artiste”.

La storia ci ha comunque tramandato i nomi di alcune famose scienziate tra queste la famosa Ipazia figlia comunque di un matematico e filosofo. Capo di una scuola platonica di Alessandria d’Egitto venne uccisa da monaci fanatici, tragica sintesi del rapporto conflittuale religione/scienza e universo femminile. Nel Medioevo si contano pochi casi confinati nei conventi e bisognerà attendere il XVIII secolo per una presenza di rilievo femminile nel campo scientifico.

La limitata partecipazione femminile alla ricerca scientifica nel corso della storia, ha limitato non solo l’evoluzione stessa della ricerca ma, poiché le scienze sono un potente dispositivo di costruzione di paradigmi, stereotipi, ha contribuito al mantenimento degli stessi, privando il conflitto della schiacciante superiorità dell’inoppugnabile oggettività delle leggi scientifiche, ovvero confinando il conflitto nel fluido e limitato ambito delle espressioni artistiche.