Giacomo Marramao

Giacomo Marramao

 

Allora, cominciamo partendo dalla sua esperienza personale e dal suo percorso biografico. Volevo chiederle di raccontare il suo personale incontro con il pensiero delle donne e il femminismo. Dove, come e quando è avvenuto.

 

Guardi, io nel femminismo ci sono quasi nato, nel senso che quando sono arrivato all’università avevo inizialmente una compagna che aveva partecipato giovanissima a Firenze ad un gruppo proto-femminista che si chiamava Rosa.
Poi ho sposato una compagna di università, un po’ più giovane di me, anche lei da sempre impegnata nella battaglia femminista. Parliamo del periodo quasi ante litteram, siamo alla fine degli anni sessanta. Poi via via la cosa è aumentata, è cresciuta e si è approfondita e ha fatto irruzione il vero e proprio pensiero femminista. Questa comparsa del femminismo sulla scena filosofica a me è capitata di sperimentarla a cavallo tra l’Italia e la Germania, o meglio tra Firenze e Francoforte. Sono andato da Firenze a Francoforte con mia moglie appena sposato, avevo 25 anni. Anzi non avevo ancora 25 anni. Ci sposiamo nel maggio 1971 e subito dopo andiamo a Francoforte dove appunto avevo vinto una borsa di studio. Sarei dovuto restarci un anno e mezzo e ci son rimasto cinque anni!
A Francoforte c’erano delle femministe molto agguerrite e lì sono entrato in contatto con un gruppo che faceva capo ad una serie di donne le quali erano variamente legate all’area di Revulutionaerer Kampf, il gruppo in cui militavano anche Joshka Fischer e Daniel Cohn-Bendit.
Loro vivevano in una comune in cui su un piano c’erano le donne e su un altro piano c’erano gli uomini. Però  comunicavano tra di loro, avevano i loro amori, le litigate e anche legami molto solidi. Ecco, in quello stesso periodo veniva tradotto in Germania, Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Quindi nel passaggio da Firenze alla Germania, mi trovo trasportato da un proto-femminismo, diciamo “timido”, come era quello italiano, ad un femminismo molto più duro, più combattivo e più radicale che paradossalmente all’inizio valorizzava, più dello stesso femminismo italiano l’opera di Carla Lonzi. In Italia occorrerà aspettare ancora cinque anni perché ci sia il vero boom del femminismo. E però nel 1975, quando sono rientrato in Italia, il femminismo era già diventato una componente fondamentale della soggettività politica. Naturalmente cominciava a circolare oltre al pensiero di Carla Lonzi anche l’opera di Luce Irigaray.
Per parlare del mio tragitto biografico, per quel poco che possa contare, io volevo restare a Francoforte dove avevo la possibilità di rimanere, ma nel 1972 viene in Germania Lelio Basso. Io non lo conoscevo se non di fama e ci siamo presentati a casa di uno storico marxista, Wolfgang Abendroth. Basso arriva nella stanza durante una discussione e all’inizio non si rende conto che io e mia moglie siamo Italiani perché parlavamo tedesco e solo quando Abendroth gli dice che siamo suoi connazionali, ci dice “ah voi dovete assolutamente venire a lavorare con me alla fondazione”. Lui allora coinvolge mia moglie a curare delle opere di Rosa Luxemburg e le chiede di  lavorare per la fondazione. Io, come dicevo, avevo intenzione di stare in Germania, avendo la possibilità di ricoprire un insegnamento e se decisi di tornare in Italia è soprattutto per seguire mia moglie.
A quel punto mi si aprono diverse prospettive e alla fine, per ragioni di comodità logistica, ho scelto di trasferirmi in una città che detestavo: Roma.
Di nuovo nel femminismo dato che al tempo la Fondazione Basso significava anche una particolare tradizione di pensiero delle donne. Intorno ad essa si raccoglievano diverse storiche e intellettuali che formavano una sorta di comunità femminista che pubblicava già negli anni settanta una rivista di storia delle donne: Memoria. Quindi si potrebbe dire che mi son ritrovato in un milieu che era prossimo al femminismo.

 

E quindi venendo a noi e agli effetti e le novità che il femminismo introduce nell’occidente e nella sua esperienza personale. Mi sembrava interessante sapere come l’incontro con le figure del femminismo e con il loro pensiero abbia influenzato la sua filosofia e il suo pensiero.

 

Dal punto di vista filosofico l’elaborazione è stata in due fasi. Prima c’è stata la fase “tedesca”, nella quale avevo riflettuto sul tema della soggettività.
A Francoforte ho avuto rapporti molto stretti con allieve e allievi di Adorno. Ricordo con grande affetto Xenia Rajewsky una compagna non nota ma che ha scritto degli articoli formidabili ed era nel gruppo degli assistenti di Adorno.
E lì occorre dire che, malgrado la figura di Adorno non fosse un esempio fulgido di simpatia per il femminismo, perché lui era terribile, tuttavia la sua filosofia era stata una filosofia che aveva alimentato il pensiero femminista molto più di quanto non accadesse nell’entourage habermasiano. Diciamo che Habermas ha un’apertura verso le tematiche femminili di tipo democratico. Mentre nella critica del potere adorniana era contenuta la possibilità di un’apertura al pensiero della differenza.
Se vuole, per fare un parallelo, accadeva al pensiero di Adorno qualcosa di analogo al pensiero di Foucault. Il pensiero di Foucault nella sua critica al potere è un pensiero obiettivamente ospitale al discorso della differenza malgrado la freddezza di Foucault stesso per le tematiche del femminismo. Freddezza per usare un eufemismo. Lo stesso vale per Adorno. Erano soggettivamente e biograficamente molto chiusi però le loro critiche del potere aprivano e potevano essere recuperate dal pensiero delle donne. Quindi quella è stata una prima fase.

 

Quindi la prima fase, si potrebbe dire, è legata ad un pensiero che provenendo da un ambito adorniano…

 

… sì, provenendo da quell’ambiente induceva un discorso sulla differenza. Le faccio un esempio: lì a Francoforte si cominciava a riflettere in vari seminari, nei quali le donne, le filosofe giocavano anche un ruolo molto importante, su un dato, cioè che l’illuminismo criticato da Adorno non era l’illuminismo come periodo storico, il pensiero dei lumi del Settecento, ma era piuttosto il pensiero del concetto come una luce, come pura luminosità che non ha alcun tipo di genealogia: una cosa che si dà e sta lì, neutrale. E quindi un’idea maschile della luce. La mitologia della luce, del pensiero come luce è una mitologia maschile, mentre l’idea femminile è quella di un pensiero come gestazione.

 

E questa connotazione di una genealogia maschile del concetto come luce opposta ad una genealogia femminile incentrata sul tema della gestazione era già data, era già formulata chiaramente?

 

Sì, certo. All’epoca nei collettivi femministi si discuteva del concetto come qualcosa che viene fuori come una gestazione, come un parto, e non come una luce, un riflettore. Già si rifletteva a Francoforte l’idea di un pensiero come pratica. In questo c’erano sia i primi incroci col femminismo, soprattutto alcune allieve di Adorno, sociologhe e filosofe e anche con il pensiero francese perché Levi-Strauss e Foucault rientravano nelle lezioni in parte di Adorno e in parte di Alfred Schmidt, che era allievo di Adorno.

 

Come ha vissuto lei questa critica rispetto alla genealogia maschile del concetto?

 

E’ stata per me indubbiamente molto importante, perché contemporaneamente mia moglie frequentava questi collettivi femministi tedeschi.
Era molto bello perché questi gruppi maschili e femminili confluivano in queste gigantesche cene e le discussioni si protraevano fino all’alba. Guardi, io dico sempre, chi non ha vissuto la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta a Francoforte non sa cosa significa un cambio d’epoca. Ed era una città dove il conflitto era durissimo, violento, un conflitto con le speculazioni bancarie, c’era la lotta per la casa… era ancora una Germania profondamente intrisa del passato nazista: il nazismo era ancora nella forma mentis della borghesia tedesca. Le lotte che si fecero allora erano lotte che si fecero con una intensità intellettuale che non ho mai più visto da nessun altra parte. Che aveva probabilmente un corrispettivo soltanto a Parigi.

 

E la seconda fase a cui ha accennato prima invece?

 

La seconda fase corrisponde al mio rientro in Italia, la ricezione del pensiero femminista è già presente in Potere e secolarizzazione. La critica alla temporalità infuturante, al tempo futuro-centrico e lineare, era in qualche modo una critica che risponde alle esigenze del pensiero della differenza. Collaboravo all’epoca a due riviste, di cui ero co-fondatore, “Laboratorio politico” e del “Centauro”. E lì, sia pure essendo rivista mista di uomini donne, il pensiero della differenza era presente. Collaborava anche Adriana Cavarero insieme con altre donne dell’area padovana e veronese. Già si trattava il tema della critica dell’assetto logocentrico del pensiero occidentale.

 

In che modo la riflessione sul tempo accoglie quella femminista esattamente?

 

Perché la critica del tempo lineare era esattamente uno dei motivi dominanti del pensiero della differenza, perché la temporalità lineare è il tempo cumulativo, gerarchico, maschile.
Il tempo lineare è escatologico. E’ sì il tempo ebraico-cristiano, ma ancora prima zoroastriano. La metafisica della luce è considerata per eccellenza una scena primaria di tipo maschile.
Certo, io non contrapponevo a quello lineare il tempo ciclico, anche se il femminismo aveva rivalutato il tempo ciclico, ma vi contrapponevo un tempo che fosse in grado di tenere conto dell’intreccio con la spazialità.
Allora si può dire che anche attraverso il femminismo elaborai la mia critica della filosofia della storia infuturante, rettilinea, dove in realtà non si valorizza quello che è stato sconfitto, quello che non ha avuto modo di testimoniare.
Le latenze della storia vengono svalutate in questa idea del viaggio dove il senso è semplicemente la direzione.
La mia critica mostra come questa spinta infuturante del tempo abbia determinato una sindrome opposta una forma di entropia, cioè il “futuro passato”. Il futuro diviene un passato perché nella modernità vi è l’incapacità di vivere il presente e di fare perno su di esso. Tutto ciò chiama in causa la necessità di ri-tematizzare il presente uno dei temi centrali di quegli anni legato anche ai movimenti politici della fine degli anni Settanta.

 

Quindi visto l’intreccio del tema del tempo con il tema del presente e dei movimenti politici della fine degli anni Settanta e quindi anche l’apertura che questo tema opera sulla riflessione politica. Ecco, riprendendo Passaggio a Occidente, una sua opera più recente, emerge il tema, il suggerimento, di poter ricostruire una azione politica efficace in Occidente attraverso quello che lei chiama “universalismo della differenza”. Ecco, potrebbe spiegare meglio cosa intende con questo concetto e come, nello specifico, la differenza sessuale si collochi nei confronti di questa differenza non definita?

 

Qui il discorso diventa abbastanza complesso. Allora, io parto dall’idea che la differenza è un vertice ottico, che serve a comprendere la realtà e che ci consente di visualizzare correttamente il presente che io chiamo presente kairologico, del kairos, e non il presente delle filosofie della storia, presente anche della contingenza radicale. Rispetto ad altri che hanno enfatizzato il pensiero della differenza io non ritengo che ci si debba sbarazzare dell’universale. Però con universale cosa si intende? Io dico sempre nei miei lavori: “ad onta del suo etimo”. E’ chiaro che è un termine che sto usando provvisoriamente. Non è l’universum, non è l’uni-direzionato, non è in quel senso. Universale significa un’esigenza di superamento delle logiche puramente locali. La differenza non è locale ma piuttosto è l’unico criterio ricostruttivo di quello che i moderni chiamavano universale e che potremmo chiamare anche “comunità”. Nel mio discorso il comune è coniugato con l’universale, cioè con quello che io chiamo universalismo della differenza, al singolare, non delle differenze. Universalismo delle differenze appunto, rischia di essere il multiculturalismo. Ma ecco, il problema vero è spezzare i vincoli e i limiti concettuali di tipo locale. Nel senso di dare una capacità espansiva. Ribadisco: va ricostruito l’universale solo a partire dalla differenza come vertice ottico.

 

E il pensiero della differenza sessuale…

 

Ecco, per me il pensiero della differenza di cui ho parlato parte dal pensiero della differenza sessuale. L’universale è un universale diviso nei due sessi. Ha in sé il maschile e il femminile e la declinazione di questi. Maschile e femminile non vanno però intesi come delle localizzazioni rigide ma come degli smottamenti di ogni identità locale. La differenza sessuale è un fattore di inquietudine e delocalizzazione.
Io dico che ognuno di noi ha dentro di sé la differenza. Perché anche noi maschi siamo attraversati dalla differenza e il criterio della differenza ci permette di comprendere che superare la logica sessista è l’unica maniera anche di liberarci della nostra illibertà, cioè venire a capo della nostra propria illibertà.
In un certo modo anche il maschio che esercita il potere deve comprendere che vive un’esperienza di illibertà perché si preclude degli spazi, dei possibili, degli spazi di esperienza. Il potere è chiusura di spazi di libertà.

 

Ecco, quanto dice mi fa pensare ad una distinzione che lei fa inPassaggio ad Occidente: quella tra pensiero della differenza sessuale forte e pensiero della differenza sessuale debole. La mia domanda non riguarda possibili riferimenti all’elaborazione del “pensiero debole”, ma piuttosto, quello che mi interessava era specificare la relazione tra questi due momenti, tra cui, a me sembra, c’è una relazione anche cronologica. Volevo quindi chiederle se può chiarire il rapporto tra questi due momenti e come lei si rapporta. Quando ha parlato del maschile attraversato dal femminile stesso sembra infatti ammiccare più al pensiero di Judith Butler o Donna Haraway, laddove però nel libro è più cauto su questo punto.

 

Diciamo che, nel dare le diverse tappe, il pensiero della differenza sessuale forte, è forte tra virgolette. Cioè, lo dico nel senso in cui ne ha parlato anche Mario Tronti, o Toni Negri quando ha scritto La differenza italiana. Il femminismo italiano ha introdotto un pensiero forte, in un’epoca di indebolimenti. Detto questo, a mio parere, le varie tappe vanno conservate. Consideriamo la queer theory, Judith Butler e per certi versi Donna Haraway. Certo che è possibile anche rivalutare esperienze trans o rimodellamenti di sesso o passaggi da un sesso ad un altro,  ma… Ho assistito ad un confronto a Torino tra Rosi Braidotti e Luce Irigaray, dove Irigaray si difendeva dagli attacchi di Braidotti che le diceva “tu irrigidisci il due!”. Io ho pensato che Irigaray non fosse chiara nelle risposte perché il trans, il passaggio, si può dare in quanto esiste il due. Cioè, la condizione è il partire dalla bisezione originaria del genere umano, dell’universale umano e la rottura del neutro nobile kantiano, ma anche del neutro meno nobile della trivialità ideologica dell’Occidente. Solo una volta stabilita la differenza sessuale si possono poi operare tutti i transiti desiderati. Non c’è trans se non c’è due come punto di partenza. La differenza è questo.
Poi la differenza non può essere un reperto statico (statico e locale per me sono la stessa cosa, un reperto statico è un reperto locale). La differenza non è un sito. E’ concettualmente un criterio, un vertice ottico e dal punto di vista della pratica di pensiero è un operatore che ti permette di cogliere il divenire costante del differenziarsi della differenza, qui Deleuze ha ragione. La cifra della inidentificabilità dell’essere, quella è la differenza.
Noi attraverso le categorie possiamo dare carta d’identità all’essere, possiamo farlo per ragioni pratiche, ma l’essere non è identificabile, non ha carta d’identità. E questo ce lo dice il pensiero della differenza, che ci libera dalla prigione della logica identitaria e, come lei sa, la radice del potere per me è sempre nella logica identitaria. In questo io rimango marxista e adorniano: Marx non ha mai fatto un discorso di logica identitaria. Quando la classe operaia prende coscienza della propria identità di classe prepara la dissoluzione di se medesima come identità. Perché se rimane e persevera nella propria identità si chiude in una logica locale, corporativa, statica.

 

Poco fa lei stesso ha parlato di un maschile attraversato dalla differenza. La domanda è: cosa ci guadagna un uomo dal pensiero della differenza sessuale?

 

Una maggiore sovranità del proprio sé. Cioè nel senso che io mi sento più libero e meno vincolato dalla logica del proprium. Qui devo rimandare alle ultime pagine di Kairos. Il kairos è tutta una critica dell’io come proprium, è una critica dell’identità dell’io come logica delproprium.
Che poi è in fondo la logica del potere. Questo non può essere compreso senza il pensiero della differenza.

 

Riflettendo quindi sulla possibilità di pensare una differenza sessuale dal punto di vista maschile, ci si accorge che è un compito difficile. Ci si trova a dover fare i conti con l’ordine patriarcale (in crisi o non in crisi). E io ho l’impressione che l’idea di una differenza sessuale maschile corra forse il rischio di caratterizzare il patriarcato come neutro. Nel senso che, pur dovendomi staccare come maschio dal  patriarcato, come posso negarne la intrinseca maschilità? Come si tiene un doppio passo?

 

Guardi, io ho dei dubbi sulla strategia. Il mio amico Alberto Leiss aveva tentato di mettere su un gruppo di differenza maschile. Però il rischio è di creare un gruppo edificante e per nulla un gruppo di differenza. Il punto è che la differenza maschile non può essere localizzata nei maschi. Questo è il problema fondamentale, fermo restando che certamente è inevitabile tematizzare se stessi come parti e dunque come una differenza, la differenza maschile non è soltanto parte. La differenza maschile ha in sé la logica che ha prodotto poi il patriarcato. Cioè, se la differenza maschile ha da essere veramente differenza, deve scompaginare completamente i presupposti della identità maschile e lì la questione è molto difficile.

 

Perché?

 

Perché deve fare i conti con le difficoltà connesse alla costruzione di un essere-in-comune degno di questa parola, degno di questa definizione. Qui c’è una mia critica a Toni Negri che ripensa la costruzione del comune attraverso una metanoia di tipo religioso, e per un altro verso a Jean-Luc Nancy e Roberto Esposito che sembrano invece intendere il passaggio all’essere-in-comune come il pacifico rovescio della nomenclatura metafisica occidentale. Secondo me invece è importante chiedersi: l’essere in comune può essere realizzato senza passare per una fase inevitabile di conflitto? Senza determinare nuovi schieramenti? Questi non possono essere più gli schieramenti degli uomini contro le donne, ma devono essere quelli della logica della differenza contro la logica del maschile. Anzi del criterio della differenza contro il logos maschile che in qualche modo sopravvive a se stesso.
Io dico sempre con una battuta: simbolicamente, il maschio in Occidente è morto già con il suicidio di Weininger. Questo è un suicidio veramente emblematico, dà il senso del passaggio culturale. Il maschio muore ma sopravvive come logica della potenza. Noi abbiamo incredibili esempi in Italia di una logica caricaturale del maschile che sopravvive a se stesso. Il Presidente del Consiglio mette in scena una logica talmente caricaturale che lui stesso deve fare la parte del clown.

 

Infatti, continuando ad indagare le “possibilità” maschili, avevo individuato questa difficoltà da parte maschile di ricostruire un proprio simbolico che non ricada nelle forme classiche e che non si ponga  nemmeno come semplice atteggiamento solidaristico, che non si ponga quindi come differenza.

 

Usiamo un’altra espressione. E’ una cosa che avevo avuto modo di discutere anni fa con Jacques Derrida. Il rischio, l’insidia maggiore per le donne, è per un verso la permanenza di una logica maschile che può catturare anche molte donne, in politica, nelle istituzioni, nell’economia. Se non vado errato la Confindustria è presieduta da una donna quindi l’organizzazione dei padroni, come si diceva una volta, ha una donna al proprio vertice.
L’altra insidia è quella della fratriarchia. Cioè il potere fraterno, il potere dei fratelli. Bisogna stare attenti che i maschi che fanno i gruppi di differenza maschile non intrappolino le donne dentro un discorso apparentemente edificante ma in realtà molto insidioso, di fraternità.

 

Quindi mi sembra che un gruppo di autocoscienza maschile partendo dall’idea di produrre un proprio modo di pensare la differenza sessuale corra il rischio invece di appiattirsi sul discorso femminista e  così annullare la differenza ricercata.

 

Sì, penso che il maschile debba elaborare fino in fondo la dimensione drammatica della propria crisi e non debba edulcorare gli elementi conflittuali che si danno. Devono venire al pettine i nodi conflittuali, si deve introdurre una dimensione di incontro ad onta del dialogo, deldialegein greco in cui il dialogo era già un polemos. Se è vero che dobbiamo lottare tutti per la creazione di una dimensione comune che sia al di là della logica identitaria e della logica dello Stato come localizzazione, come mera istituzionalizzazione, dobbiamo assolutamente cercare di capire com’è possibile che oggi molte donne siano catturate dentro una logica maschile gerarchica, e com’è possibile che uomini che sono alleati con le donne non riescano ad andare al di là di un discorso edificante. Oggi come oggi i discorsi edificanti sono molto insidiosi. Occorre andare a individuare i nodi in cui si sta verificando la rottura che rende possibile il passaggio ad altro, il che significa andare a vedere i nodi nevralgici, cioè tutte quelle questioni che un tempo erano questioni pre-politiche o impolitiche che adesso sono diventate ingredienti di una super-politica. Tutte quelle questioni che riguardano il rapporto tra i sessi, le questioni bioetiche, le questioni biopolitiche e lì sfidare la capacità dei maschi di collocarsi in un certo modo. Si tratta di discutere il tema di dimensioni private che hanno cessato di esserlo. Maltrattare una donna la sera protetti dalle mura domestiche non è più un evento privato. Ogni azione che ha che fare con effetti e relazioni di potere anche se è esercitata nel privato non ha una rilevanza puramente privata. Ciò che invece nel privato deve rimanere tale è l’intimità dei desideri e delle passioni. Non è possibile un “ministero per l’esattezza dell’anima” come direbbe Musil.
Ovviamente assumere questo è la cosa più difficile per i maschi perché l’origine del potere è proprio nel privato. E’ una difficoltà maschile e anche mia. Per uscirne fuori mi esercito aggredendo di più i maschi. Tanto più sono soggetti di potere tanto più vanno messi in discussione.
Questi mutamenti non avvengono con una metanoia, ma solo sul terreno del simbolico e con conflitti anche duri. Il simbolico va inteso non come il piano dell’unificazione, ma come ambito che presuppone la scissione e solo dopo giunge all’unificazione. Una unificazione che comporta quindi ospitalità e accoglienza.

 

Mi chiedevo se uno degli elementi più utili da recuperare dal pensiero delle donne possa consistere nel porre lo stesso maschile come genere non-unitario. Senza voler imitare il pensiero femminista. Come pensa quindi sia possibile mettere in pratica questa differenziazione del maschile dal ruolo che esso stesso ha avuto storicamente?

 

Intanto un modo è uscir fuori dalla trappola che consiste nell’ancoraggio della singolarità di ciascuno di noi ad un ruolo non sociale ma simbolico, che è legato ad una presunta staticità della nostra condizione naturale. La sessualità maschile è una sessualità proliferante perché siamo donatori di seme e secondo la logica è chiaro che il maschio deve andare ad inseminare perché così svolgerebbe il programma genetico. Dobbiamo comprendere che questa maniera di comportarsi va esattamente contro la realizzazione della nostra singolarità, è in funzione della nostra serializzazione e il potere e la serializzazione della singolarità sono tutt’uno. Il potere non fa altro che neutralizzare la singolarità e la sua potenza serializzandola, e questo comincia dall’attività sessuale. Le donne in questo hanno un vantaggio rispetto a noi, perché custodiscono il frutto, e questo è un dato. C’è questo elemento della cura che è fondamentale.
Paradossalmente la donna ha più senso della singolarità di quello che accade, singolarità dell’evento della maternità, mentre noi siamo de-singolarizzati. Il maschio nella sua serializzazione non è altro che lo specchio del potere. Capire questo è capire come forse se ne può uscire.
Dobbiamo imitare le donne in questo: essere gelosi di noi stessi, esattamente come le donne sanno essere gelose della propria singolarità e unicità.
E questo fa saltare anche una serie di equivoci sul pensiero di destra e di sinistra. Perché il pensiero di destra interpreta la singolarità come un fatto contrario al comune, perché il comune è stato inteso come l’apologia della serialità, l’apologia del livellamento, mentre se pensiamo un comune che esalti il singolare, che esalti l’esistenza singolare… cioè io non riesco a concepire il comunismo, odio gli ismi, il comune se non come diritto di tutti all’eccellenza, un’eccellenza che non è a somma zero, c’è l’eccellenza di ciascuno a condizione dell’eccellenza di tutti, cioè una crescita esponenziale della potenza dell’umanità, della potenza creativa dell’umanità e questa è in qualche modo l’umanità che vogliamo e rispetto alla quale forse, un domani, se si realizzerà, gli umani che guarderanno indietro diranno “Accidenti com’erano! In che condizioni preistoriche si trovavano loro!”.

 

Da un punto di vista genealogico forse c’è questo rischio che in una revisione del pensiero tutto venga buttato all’aria. Ci sono degli elementi del pensiero maschile, anche se si è dato come neutro, da rielaborare. Recuperare con riserva il termine “universale”, ha a che fare con un lavoro di rielaborazione, di esame del passato che ci compete?

 

Io penso il maschile del coraggio, il maschile dell’onestà e della fedeltà, dell’affidamento, questi sono fondamentali.
Il femminismo per certi versi reclama un maschio pre-borghese.
Non ricordo in che romanzo l’avevo letto, era un romanzo scozzese dell’ottocento in cui un feudatario diceva davanti ad un incipiente borghese commerciante che pretendeva di entrare in rapporto con le donne attraverso il denaro, diceva un’espressione bellissima: “non osare fare questo perché le donne sono le custodi dell’onore”. Ecco io a questo tipo di nobiltà non vorrei rinunciare. Tutto sommato è una nobiltà che andrebbe universalizzata. Ribadendo che il termine universale non è in opposizione al termine comune o altre forme. Ecco, io non vedo contraddizione perché l’universale è l’esigenza di un comune che rompe qualunque confine locale, di tipo locale. E qualunque localizzazione di tipo statico, qualunque sito. È di nuovo l’esigenza di concepire la differenza non come un sito ma come una dinamica.

 

Può fare qualche esempio di questo modo di concepire l’universale nel mondo reale?

 

Per esempio il pensiero della differenza ci spinge a concepire all’interno dell’orbita cosmopolitica delle forme non umane che le donne comprendevano più di noi da sempre, e che appaiono come assolutamente essenziali. L’idea per esempio che non possiamo rendere nostri strumenti gli animali e le piante che sono fondamentali anche per il nostro essere nel mondo. Vandana Shiva, per esempio, ecco non è un esempio di pietismo o di un ecologismo misticheggiante, ma vuol dire che senza la transizione costante con le forme di vita non umane, animali, vegetali allora nemmeno l’umano sarebbe quello che è. E quindi che non soltanto la morte di ciascun altro uomo e ciascuna altra donna impoverisce il mondo, ma che anche la scomparsa di una specie animale o di una vegetale è un impoverimento della stessa nostra possibilità di esistere.
Nel mondo io guardo con molto interesse ad un paese come il Brasile. Perché lì l’elemento femminile sta sfondando ad alti livelli, e sta prendendo piede il discorso relativo al rapporto con il vivente non umano e si sta modellando una idea di società che sia universalista ma anche della differenza, in modo molto diverso da noi. Il Brasile è una società dinamica che sta transitando in maniera accelerata. Io l’ho notato questo quando insegnavo là dal 1987 al 2000. Le prime volte la violenza repressiva era spaventosa. Le donne erano sottomesse. Oggi invece è un paese in cui le donne hanno, in progressione geometrica, sempre più parola.
E sono donne che vengono dalle esperienze più dure, dalla lotta armata alla povertà e non esercitano il potere in termini mimetici al maschile. Introducono criteri che non sono o non sembrano tradizionali. Non parlo solo dei luoghi istituzionali, nella società le donne brasiliane hanno un livello di radicalità e consapevolezza superiore spesso a quello delle donne italiane. Lo si vede anche nel cambiamento del linguaggio. Insultare una donna con termini anche più blandi di quelli del nostro presidente del consiglio produce immediatamente un effetto di stigmatizzazione da parte della società e dei media.
Ad ogni modo più che un luogo determinato dove si realizzi una politica che realizzi l’universalismo della differenza, scorgo una dinamica in corso che attraversa varie realtà, in parte anche quella europea. Però questa dinamica pur attraversando culturalmente l’Europa non ha ancora un precipitato istituzionale.
Oppure si potrebbe dire che avviene in tanti luoghi/non-luoghi come sono pensabili alcune pratiche che passano attraverso la rete. La mia tesi è che nel mondo del sapere sta avvenendo qualcosa di nuovo, cioè una produzione di conoscenze che vengono poi d’altra parte catturate e valorizzate in forma monetizzabile da un capitalismo.

 

E per ricondurre di nuovo il discorso al tema storico: che ne pensa del rapporto tra capitalismo e patriarcato in un’epoca che abbiamo appurato essere quella della morte simbolica del maschile?

 

E’ un rapporto che passa attraverso una rappresentazione, di una finzione, di una maschera. I capi di Stato compaiono accanto alle mogli e ai figli molto più di quanto non accadeva in passato, quando il patriarcato era molto più forte. La famiglia viene esibita quando si sa benissimo che la famiglia è un’istituzione in crisi o comunque una realtà radicalmente rivoluzionata.
Questo per una semplice ragione, perché il capitalismo sussiste ormai unicamente attraverso un coagulo di forme di potere di tipo neo-corpoativo e neo-feudale. C’è una corporativizzazione del capitalismo cioè esattamente il contrario di quanto sostiene la dottrina neoliberista secondo cui avremmo uno Stato che ingabbia i poteri economici espressione della libertà umana. In realtà i poteri economici sono molto più feudali di quanto non siano gli Stati e quindi sì, il capitalismo ha bisogno di rappresentarsi in una chiave feudale e corporativa.

 

Tuttavia poi, nei fatti, l’ordine economico oggi si produce attraverso l’incorporazione e modalità di produzione che passano sotto il nome di “femminilizzazione del lavoro”, cioè l’integrazione  di abilità come quelle relazionali che storicamente sono state coltivate soprattutto per parte femminile.

 

Certo, siamo di fronte ad un tentativo incredibile di assorbire e metabolizzare per un verso le tematiche del femminismo e per un altro verso le tematiche ecologiche.
Il capitale non è in grado di produrre sapere, è in grado unicamente di rubare e appropriarsi del sapere che viene prodotto altrove e di istituzionalizzarlo, strumentalizzarlo e funzionalizzarlo. E’ chiaro che nel frattempo avremo degli esempi straordinari di camaleontismo del capitale, dovuti al fatto che Marx e Weber avevano sbagliato a pensare che il capitalismo avesse la capacità di rimodellare le forme di vita. Esso invece si adatta alle forme di vita
Bisogna considerare che il patriarcato è più antico del capitalismo. Marx nei quaderni etnologici riconosce il proprio errore: rivoluzionare i rapporti di produzione non comporta più o meno necessariamente una distruzione degli istituti tradizionali che congelavano le relazioni in generale e quelle tra uomo e donna in particolare. Piuttosto il capitalismo è modellato dentro l’istituto famigliare.
Quindi, o il processo è modificazione di rapporti di produzione e di rapporti culturali, oppure questi istituti tradizionali sopravviveranno e le nuova relazioni verranno modellate su di essi. I rapporti sociali non sono sovrastrutturali, il sociale non dipende dalla produzione, ma da pluralità di fattori.  Consideriamo per un attimo due esempio, che io considero agli antipodi: Cina e U.S.A.
Negli Stati Uniti la famiglia è in crisi dal punto di vista dell’espressività simbolica a causa di processi di secolarizzazione cui la società occidentale è andata incontro. Però funziona ancora nell’immaginario dal punto di vista degli effetti rassicuranti che produce. Diviene quindi fattore di stabilità sebbene gli americani siano in realtà dei “monogami seriali”.
Cioè, si utilizza l’immaginario istituzionale per creare consenso attraverso meccanismi di riconoscimento via rispecchiamento: il capo di Stato come marito e padre di famiglia. Si potrebbe dire che in Occidente la famiglia è usata ex post.
In Cina invece dove gli istituti familiari sono ancora forti, lo sviluppo viene modellato da essi materialmente.
Il capitale globale è uno ma poi questo si declina diversamente come capitalismo cinese, europeo, brasiliano, nordamericano, eccetera.

 

Ma se non basta intervenire sul piano dei rapporti di produzione. Se un cambiamento della realtà economica non è sufficiente a modificare tutti gli elementi culturali che organizzano la società, come si deve fare?

 

Bisogna innanzi tutto liberarsi della pretesa all’oggettività spostando il fuoco sui soggetti.
Serve una rivoluzione culturale intesa come  un’azione volta a far emergere i veri punti di conflitto.  Non si trasformano i soggetti rieducandoli, ci si ritrasforma tutti insieme,  in una logica bifocale. E questo è possibile attraverso la produzione di un essere-in-comune che include il conflitto per trasferirlo nei livelli “alti”, non in senso gerarchico, del simbolico. Un simbolico, si badi bene, non inteso come ambito dell’unificazione, ma proprio come ambito che presuppone la scissione.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003-2009

 

L’intero libro è costruito sul tema della differenza. In particolare due capitoli trattano esplicitamente del pensiero delle donne: il secondo capitolo “identità e contingenza” e l’ottavo capitolo “cifre della differenza”.

 

Potere e secolarizzazione, Editori Riuniti, Roma 1983
Kairos, apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992

 

Marramao si riferisce a questi due testi nell’intervista: “la ricezione del pensiero femminista è già presente in Potere e secolarizzazione. La critica alla temporalità infuturante, al tempo futuro-centrico e lineare, era in qualche modo una critica che risponde alle esigenze del pensiero della differenza”. Più avanti Marramao precisa “Certo, io non contrapponevo a quello lineare il tempo ciclico, anche se il femminismo aveva rivalutato il tempo ciclico, ma vi contrapponevo un tempo che fosse in grado di tenere conto dell’intreccio con la spazialità.”

 

Quando invece definisce le opportunità che un pensiero della differenza sessuale offre ad un pensiero maschile rimanda a Kairos: “io mi sento più libero e meno vincolato dalla logica del proprium. Qui devo rimandare alle ultime pagine di Kairos”. Il kairos è tutta una critica dell’io come proprium, è una critica dell’identità dell’io come logica del proprium”

 

“Cifre della differenza” in L. Cavazzoli (cura) La diversità in età moderna e contemporanea, Name, Genova 2001

 

Muovendosi tra diverse tendenze del pensiero della differenza sessuale ricostruirlo come risorsa fondamentale per pensare un nuovo modello che vada oltre l’identità per come è stata conosciuta in Occidente.

Intervista a cura di  Alessandro Grassi