Intervento al convegno “La rivoluzione possibile. Cura/lavoro: piacere e responsabilità del vivere” Milano 18 febbraio 2012, organizzato da Libera Università delle Donne, Gruppo lavoro della Libreria delle donne, Leggendaria – Gruppo del mercoledì, Unione Femminile Nazionale
Per focalizzare il discorso su quale pratica politica vogliamo, devo riprendere un nodo teorico – assai problematico secondo me – che ha conseguenze importanti proprio sulle pratiche politiche.
A più riprese il Gruppo del mercoledì, nei testi e negli interventi, ha tenuto a distinguere cura da lavoro di cura, per puntare su uno scarto, un resto ciò che non può trovare risposta nel welfare. La cosa mi ha colpito e mi sono chiesta perché ci fosse questa distinzione. La materia è particolarmente multiforme e ambivalente, ma quella distinzione sembra, in diversi interventi, essenziale.
La ragione mi pare sia legata proprio all’intento politico delle amiche romane. Come dice con chiarezza Rosetta Stella: «Quello del gruppo del mercoledì non vuole essere il suggerimento di un tema da scandagliare più di quanto non sia già stato fatto precedentemente, vuole essere invece una indicazione di pratica – pratica politica della cura –.» E continua specificando che questo sdoganamento della cura come pratica politica può avvenire quando si esca dal campo della necessità.
Dunque una cura depurata dal necessario lavoro di cura, dai bisogni del vivere quotidiano, che diventa paradigma politico. Credo che questo distinguo non ci faccia fare passi avanti, anzi sia carico di conseguenze politicamente indesiderabili. Separata dal lavoro e dalla necessità, dunque dal tempo, dall’economia, la cura può diventare semplicemente banale. Un aleggiare etico e impalpabile, di cui sarebbero ambasciatrici le donne, in bilico tra biologismo e onnipotenza.
È vero che le emergenze ambientali, gli spaesamenti della globalizzazione, i ricatti violenti del finanzcapitalismo, la crisi della politica dei partiti, fanno emergere il bisogno di modelli culturali più vicini e rispettosi della vita; insomma la cura è nell’aria, pronta per essere sdoganata anche da noi vecchie femministe.
Sono certissima che nessuna voglia richiamarsi a una competenza connaturata al femminile, «Le donne non sono depositarie della cura, non c’è legame ontologico con l’essere donna» ce l’ha appena ribadito anche Ina Praetorius e su questo so che siamo tutte d’accordo.
Ma che vantaggio abbiamo a scardinare la cura dai corpi, dal lavoro? Forse ne abbiamo bisogno per dare valore alle nostre competenze? Non credo sia una via efficace.
Lo dice bene Annalisa Marinelli: «Ho imparato che la distinzione tracura e lavoro di cura è un inutile artificio perché non può veramente esistere la prima senza il secondo. Ed è perniciosa perché rigetta nuovamente in una gerarchia che vorrebbe fuggire dai vincoli del corpo e della vulnerabilità.»
Noi nel Sottosopra  “Immagina che il lavoro” l’abbiamo detto così: «Primum vivere è possibile purché si riesca a portare sempre più uomini ad agire nella quotidianità della vita. (…) Già oggi molti lo fanno. Ma non considerano l’esperienza e il sapere della quotidianità come una leva per cambiare il lavoro e l’economia
Ed è esattamente quello che sta accadendo.
Nella sinistra si è ampiamente accreditata un’idea di cura purché disincarnata: ce lo fanno notare Federica Giardini e Anna Simone su Global project che, commentando le politiche di movimenti come Uniti per l’alternativa, notano come nei movimenti ci sia «una strana divisione del lavoro politico-intellettuale. Anziché puntare proprio sulla “relazione” quale prima pratica costituente del comune, si ritrova spesso una sorta di “quota di genere” nelle azioni e nelle analisi. Da una parte il corpo, la violenza, la riproduzione, forse anche l’immigrazione; dall’altra, invece, le analisi su grande scala della crisi, declinata in tutte le sue specifiche: economia, lavoro, sovranità, rappresentanza.» In sostanza: il femminismo e le donne possono continuare a parlare di corpo e riproduzione, mentre le analisi generali e le politiche continuano immutate.
Per non parlare del concetto stesso di bene comune. Ugo Mattei, giurista teorico del comune, per precisare e spiegare il concetto di bene comune, scrive: «il bene comune offre servizi dati per scontati da chi ne beneficia e il suo valore si misura solo in termini di sostituzione quando esso non c’è più. In un certo senso i servizi essenziali resi dai beni comuni sono simili al lavoro domestico che si nota solo quando non viene fatto.»  (Il grassetto è mio, ovviamente.) Ma non pensiate di trovare altri collegamenti tra comune e domestico. In quella direzione nessuno si spinge. Ci si spinge a sottolineare la dipendenza di ognuno e di tutti dall’acqua e dall’aria, ma non dal lavoro di riproduzione e manutenzione delle esistenze.
Eppure sarebbe sommamente interessante, come si fa per i beni comuni, sottrarre anche tutto il lavoro di cura al rigido dualismo tra pubblico e privato, ormai inservibile. Noi ci stiamo applicando a questo.
Ci si spinge, come Guido Viale, nella necessaria, illuminante direzione della «conversione ecologica del modo in cui produciamo e del modo in cui consumiamo», ma mai si azzardano collegamenti tra lavoro produttivo e lavoro necessario per vivere, tra sobrietà (di cui si parla) ed economia domestica (di cui non si parla), tra democrazia partecipativa (di cui si parla) e centralità delle relazioni (di cui non si parla). Tutte cose di cui tra l’altro Guido Viale ha esperienza diretta di vita, come abbiamo letto anche su Leggendaria.
Se vogliamo interloquire con il pensiero più avanzato, e io penso che sia da fare, dobbiamo dire prima di tutto no a queste censure, a queste separazioni.
Possiamo incominciare a interrogarci su quale conversione del quotidiano si renda necessaria in un mondo postpatriarcale in cui le donne sono diventate soggetti che parlano, e non più come nel mondo patriarcale (s)oggetti che stanno lì a rappresentare questo complesso sistema di cura. Le donne stanno lì a garantire ciò che tutti possono permettersi di non vedere.
Oggi questo problema, di un quotidiano tendenzialmente non più garantito dalle donne, riguarda tutti se non vogliamo essere tutti riassorbiti nei sistemi di controllo specialistico, il business della salute in primis, o la qualità del cibo e dell’agricoltura (ricordiamocene quando parliamo di cibo a kilometro zero e gas, gruppi di acquisto solidale). Insomma se vogliamo discutere di  modi in cui consumiamo, perché trattarci da consumatori quando c’è una base materiale di lavoro che incide profondamente su quei consumi?
Senza questa “conversione del quotidiano” anche i discorsi di conversione ecologica corrono il rischio di essere “luci provenienti da stelle spente” per usare la bella immagine inventata da Alberto Leiss.
Insomma penso che privare la cura del lavoro di cura, quantitativo e qualitativo, non serva a sdoganare una pratica politica più radicale e inconciliabile, ma al contrario le tolga forza. E ci tolga forza come soggetti politici.
La pratica politica dell’Agorà che qui a Milano da maggio dello scorso anno stiamo portando avanti, si basa proprio su questa volontà di tenere sempre presenti contemporaneamente questi diversi piani del discorso. La scommessa è portare sulla scena pubblica le donne e gli uomini come soggetti interi, disposti, proprio a partire da questa interezza, a negoziare/contrattare/confliggere in casa, al lavoro, e nella politica. A contendere nell’organizzazione del lavoro, nei tempi, nei modi e infine, io spero, anche negli scopi del lavoro, nel che cosa produrre.
Un’ultima osservazione. Politicamente la nostra “accuratezza” è un’arma a doppio taglio. È vero che c’è l’eccellenza femminile. Ma c’è anche e lo vediamo quando parliamo di lavoro: accanimento formativo, eccitamento studioso, perfezionismo nel lavoro, quasi che l’intelligenza esecutiva possa a priori dar senso all’obiettivo. Spesso si collega tutto ciò o a un difetto di autostima (non ne sappiamo mai abbastanza per esporci) o alla superiore duttilità della nostra intelligenza. Io invece collego questo “far bene” all’aspirazione a “essere la soluzione”. Non “trovare la soluzione”, ma incarnarla: essere la sintesi delle differenze, la composizione dei conflitti. Saper assumere in sé tutte le parti.
Proprio noi che ci siamo ribellate all’uno maschile universale, ci troviamo condannate ad assumere sempre il due in noi stesse, a mettere ordine nel caos, a essere la vita di nostra madre che muore, a essere così giuste da incarnare insieme io e l’altro, quello che non sarai mai. Essere noi il quadro coerente in cui prendono posto tutti i tasselli singolari.
Quando parliamo di relazioni, se ci crediamo, dobbiamo accettare prima di tutto la nostra singolarità, la nostra “ingiustizia”. Invece troppo spesso non la accettiamo, pensando che se ci impegniamo di più, riusciremo finalmente ad “essere la soluzione”, a mettere al mondo il mondo, a tenere conto di tutti i dati, a illuminare armoniosamente la scena.
Forse è arrivato il momento di ricominciare a dire dei no. Non tanto nel senso di dire ciò che non ci piace, ma di non fare ciò che non vogliamo più garantire.