Intervento di Federica Castelli – “Liberazione”

Questo intervento parte da una breve considerazione sull’idea di libertà contenuta ne “Il Secondo Sesso”, di Simone de Beauvoir per poi dedicarsi allo spostamento avvenuto all’interno delle lotte femministe nel corso degli anni Settanta. Al di là di queste brevi considerazioni, l’intervento riprende quanto pubblicato nel libro “Corpi in Rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica” (Mimesis, 2015) e in particolare la parte dedicata alla “rivolta sessuata” del femminismo. Questa parte è stata pubblicata in estratto online. Per leggerlo, basta seguire questo link.

Federica Castelli – Pratiche di corpi in rivolta (in Chefare, 16 settembre 2015)

[Simone de Beauvoir] dall’indipendenza (economica, giuridica) dell’emancipazione alla liberazione: la libertà intesa innanzi tutto come nutrita e legata alle circostanze ma fatta attraverso le relazioni. E’ un poter sviluppare liberamente le proprie possibilità.

Durante il periodo dell’emancipazione si punta a liberarsi del negativo dell’essere donna, tendendo ad essere libere “come lo sono gli uomini”. La propria esperienza di donna viene vissuta come condizione inautentica, di oppressione, da cui occorre “emanciparsi”. Così però si aliena la propria esperienza, bollata come frutto di un’oppressione, come malafede, come negativo, e si tende a un ideale di libertà (dal proprio corpo, dai dogmi, dalla famiglia, dalla casa) che è però stato creato dagli uomini, in un modo organizzato dagli uomini. E’ adesione a un modello, è uniformarsi a qualcosa che non si è creato. E’ cancellare tutta quella esperienza che non combacia con il modello di libertà costruito dagli uomini. Distruggi la tua condizione di oppressione tendendo a quella dell’altro (mimetismo), ma non potrai mai essere libera tale e quale all’altro su cui questo mondo e questo ideale è stato costruito. Non c’è creatività, ma faticoso adeguamento a un modello che già c’è.

Negli anni Settanta le donne emancipate si sono accorte che questo movimento verso la libertà dell’altro non è potenziante e non le rendeva più libere, ma sempre soggiogate a una norma che viene dall’esterno e che cancella le tue esperienze di donna.

Si sceglie allora di ripartire dall’esperienza di ognuna. Non è una semplice rivalutazione di quanto cancellato nella fase dell’emancipazione, ma attraverso la pratica del partire dall’esperienza, è una valorizzazione dell’essere donne ri-narrata a partire dalle esperienze reali e dalla materialità concreta delle vite delle donne. Dai loro bisogni, desideri e dalle loro relazioni.

L’ideologia dell’uguaglianza è rifiutata e smascherata nei suoi esiti omologanti, violenti, politicamente improduttivi. Fare vuoto, operare tagli, discontinuità e reiterate rotture: ciò che distingue le donne degli anni Settanta dal femminismo dell’emancipazione e dei diritti è proprio il togliersi da una posizione già attribuita, sottraendosi a valori e misure eteronomi partendo da sé, dal proprio corpo, dalla propria esperienza, per elaborare una pratica politica radicata nelle vite e che tiene conto della differenza sessuale. La libertà non risiede nell’omologazione al maschile.

Il posizionamento sessuato apre alle donne la possibilità di fuoriuscire dai canali tradizionali della presa di parola in politica, che prevede per le donne l’emancipazione come declinazione di un canone neutro (maschile), che sommerge il differenziale di esperienza, sapere e pensiero che la differenza sessuale porta sulla scena.
Il potere è rifiutato, in quanto slegato dai corpi, dai bisogni, dalle esperienze e luogo di alienazione delle soggettività e, con esso, viene rifiutata l’idea di un’uguaglianza tra i sessi.

Le logiche della Sovranità vengono messe in discussione alla radice e con esse l’idea che personale e politico, pubblico e privato siano distinzioni di riferimento; esse sono invece distinzioni eteronome e imposte dalla forza di legge, che producono legge a loro volta.  La divisione classica tra pubblico e privato non aderisce all’effettiva esperienza che una donna fa della realtà, in cui cultura, relazioni, lavoro, tutto è intriso di politicità ed è stato politicamente normato. Legato alle soggettività incarnate, il femminismo porta sulla scena il senso politico del corpo, sia come luogo di potere – poiché da sempre il corpo femminile è stato il luogo di applicazione di tassonomie e dispositivi di potere – sia come punto di leva per scardinare le logiche di potere astratte, ideologiche e fallologocentriche nelle loro accezioni più pervasive.

Cade l’idea che la politica si riduca esclusivamente a ciò che avviene all’interno e per mezzo delle istituzioni e viene meno l’idea della necessità di una rappresentanza femminile: le donne, infatti, non sono un gruppo sociale omogeneo e compatto come altre realtà socialmente oppresse; le donne hanno posizionamenti differenti, progetti individuali e collettivi diversi, laddove non dichiaratamente in contrasto. La differenza sessuale è un posizionamento qualitativo non rappresentabile attraverso i modi classici della democrazia, quantitativi, numerici.

La politica delle donne è una politica che si costruisce nelle pratiche di ogni donna assieme alle altre donne, giorno per giorno; non può darsi una volta per tutte. Occorre premunirsi contro le derive ideologiche, rifiutando il cristallizzarsi di pratiche, le personalità di riferimento, così come l’idea di una identità collettiva. Le donne del femminismo rifiutano la solidarietà ideologica per preservare come distinta ogni singola coscienza e si sottraggono al ricatto implicito alla pretesa di unità, che mitizza anziché demitizzare. Si cerca l’autenticità del gesto di rivolta, del taglio e della cesura, senza sacrificio all’organizzazione e all’Idea. Così, il femminismo intraprende un percorso di liberazione senza modalità fisse che viene definito dalle stesse donne come non scontato, non uniforme, non edificante, non rivoluzionario.

Il continuo radicamento a sé e al pensiero dell’esperienza rende il movimento femminista più radicale rispetto al movimento antiautoritario del 1968, cui pure si avvicina per alcuni punti, come la lotta per la partecipazione e la democrazia diretta e il rifiuto della delega politica. Alcuni dei primi gruppi femministi nascono in Italia proprio nel contesto delle occupazioni e del movimento studentesco che però, per quanto antiautoritario e in lotta contro lo sfruttamento e l’alienazione, misconosce la forma prima e più antica di ogni rapporto di potere, quella dell’uomo sulla donna, e non tiene in considerazione l’alienazione profonda che il dispositivo di identificazione di donna, corporeità, funzione riproduttiva e oikos – di contro all’associazione uomo-razionalità-libertà-politica – mette in atto. La rottura portata avanti dal femminismo in Italia durante gli anni Settanta, non solo pone il rifiuto del potere costituito e delle istituzioni governative tradizionali ma, scagliandosi contro l’intero simbolico politico neutralizzante e patriarcale, entra in collisione con gli stessi gruppi politici rivoluzionari. Nell’iniziale slancio antiautoritario del movimento studentesco le donne sanno intuire gli esiti più burocraticizzati e alienanti della settarizzazione che aspetta il movimento: la nascita dei partiti marxisti-leninisti e la riproduzione all’interno dell’organizzazione degli stessi meccanismi di dominio e passività, così come la ricerca di un leader, che riconducono ai vecchi schemi e ai vecchi giochi di potere. Ponendosi come soggetti radicati, incarnati e legati alle pratiche di relazione politica, le donne entrano in netto ed immediato contrasto con la logica dell’organizzazione partitica e movimentista tradizionale e si pongono in rotta di collisione con l’idea stessa di rivoluzione; in virtù delle loro pratiche e del loro posizionamento, esprimono una forte critica al “rivoluzionario” a partire dal suo stesso bagaglio teorico e ideologico. La logica rivoluzionaria, incentrata sulla dialettica servo-padrone, è per le donne muta ed alienante Le donne rifiutano la rivoluzione ipotetica del marxismo, che le ha vendute e sacrificate al domani, riconoscendo come ogni rivoluzione popolare, in cui la donna combatte a fianco degli uomini, si concluda infine con una messa da parte delle donne e un ripristino camuffato delle vecchie gerarchie e tassonomie sociali. L’ombra in cui le donne vengono relegate dalla rivoluzione non segna semplicemente un limite che rende mute e inefficaci le politiche dei partiti e i processi rivoluzionari tradizionali, ma riflette una più generale inadeguatezza della politica istituzionale nei confronti della complessità dell’esperienza. Il femminismo mantiene la radicalità dell’asimmetria tra i sessi, rifiutando il neutro e la sintesi dialettica; mantiene la centralità dell’esperienza e il partire da sé contro la stessa militanza, che in linea con il politico tradizionale, sposta il proprio oggetto fuori di sé, su un soggetto a venire, un’idea da inverare. Viene messa in discussione la tensione progettuale del rivoluzionario che, spostando in un lontano futuro gli esiti del proprio agire, finisce per schiacciare i corpi e le esistenze che ne abitano il presente. Non vi è un fine dato verso cui orientarsi, né un un futuro in virtù del quale sacrificarsi: vi sono i corpi, di ognuna, di ognuno, e le relazioni politiche che costruiscono alleanze, conflitti, orizzonte politico.

La politica è creare un senso nuovo della realtà, creazione di simbolico. Una politica che è radicalmente altro rispetto al potere che invece, crescendo ed espandendosi, tende a sradicarsi dai corpi, passando sopra le singolarità e le differenze, imponendo il proprio registro narrativo e la sua nuda logica. Contro tale unificazione, il femminismo pensa la pluralità dei poteri e delle pratiche del partire da sé. Rifiuto di chiudersi in un organismo e di sottomettersi ad un linguaggio unico; impianto antiautoritario, libertario, incentrato sul corpo, sull’esperienza di ogni singola: chiudersi in forme organizzative tradizionali è impossibile. Anziché formalizzarsi in un’organizzazione data, con richieste e obiettivi specifici, la politica sessuata si basa su pratiche radicate nella concretezza dei soggetti. La rivolta femminista è dunque un movimento che si pone sul piano del simbolico e delle pratiche di vita che a questo si legano.

In questo spostamento radicale, uno dei momenti fondamentali è stato quello della pratica separatista: sottraendosi all’idea di un rapporto dialettico tra i sessi, rifiutata rivendicando un altro piano di pensiero e di esperienza, si è creato uno spazio politico e di relazione tra donne, in base alla necessità di ripensare e regolare i propri rapporti in assenza del maschile e della tradizione che esso porta con sé, elaborando delle mediazioni femminili che il sistema dei rapporti sociali tradizionale non dispone. La pratica del separatismo femminista, non porta con sé l’idea di una spartizione del mondo, di un’incomunicabilità tra i sessi o una chiusura del femminismo ai rapporti con gli uomini. L’idea di parzialità, infatti, richiama quella della complementarietà, che il femminismo rifiuta. Il separatismo fu per le donne l’occasione di una messa a tema della propria libertà, facendo leva sulle contraddizioni della società, che ognuna viveva in sé senza che ne fosse nominata la valenza politica. Contro la politica dell’organizzazione e del proselitismo, le donne avviano la pratica delle riunioni in piccoli gruppi. Il gruppo di autocoscienza diviene l’unità di misura elementare, in cui le donne possono operare una centratura sulla propria esperienza e sulle contraddizioni che vivono individualmente e collettivamente all’interno della società. Punto di partenza: la consapevolezza che la mancanza di comunicazione tra donne nel contesto contemporaneo non è imputabile a difficoltà personali nell’interazione con l’altra, ma ha una radice culturale nei modelli eteronomi che da sempre gravano sulla soggettività femminile. La parola, legata ai corpi, alle esperienze e alla materialità delle esistenze in gioco, diviene pilastro di quel movimento tra dentro e fuori, interiorità e mondanità che caratterizza la pratica politica delle donne. Partire da sé non è raccontare un vissuto, ma definirsi in un contesto; così l’autocoscienza non è un ripiegarsi su se stesse, sulla propria esperienza individuale o di piccolo gruppo, ma è un movimento ininterrotto che porta ognuna a partire da sé per poi separarsene e andare altrove. Non conduce a nessuna verità ultima, univoca, apodittica; la verità del partire da sé nasce dalla contingenza e ad essa si lega, mostrandola in modo sapiente e consapevole.

 

Federica Castelli
Federica Castelli

Federica Castelli è ricercatrice in Filosofia Politica presso l'Università Roma Tre. È stata visiting researcher presso l'EHESS e l'Université Paris VIII, a Parigi. È redattrice di DWF – Donnawomanfemme, rivista del femminismo romano, con cui (...) Maggiori informazioni