LIBERE DI COSTRUIRE SPAZI FEMMINISTI. Spazi di autonomia, spazi separati, spazi di liberazione

LIBERE DI COSTRUIRE SPAZI FEMMINISTI. Spazi di autonomia, spazi separati, spazi di liberazione

Per creare spazi e tempi di vita sani e sicuri non servono la criminalizzazione, la repressione, i DASPO: è necessario recuperare quartieri abbandonati, aumentare i luoghi autonomi gestiti da donne, riprogettare e risignificare i territori urbani partendo dalle esigenze delle donne, costruire spazi liberati per tutt@. Contaminiamo i luoghi della politica mista con le istanze e le pratiche del femminismo, del transfemminismo e dell’antisessismo. Allo stesso tempo rivendichiamo la necessità di luoghi autonomi di politica femminista, transfemminista e queer, in cui costruire forza, relazioni e soggettivazione, capaci di interagire con spazi sociali e gruppi politici diversi per costruire e condividere gli strumenti che il femminismo offre, per mettere in luce forme di violenza e privilegi invisibilizzati, che agiscono anche nella politica.
Vogliamo essere motore per l’implementazione di luoghi di autonomia femminista e transfemminista come luoghi di riflessione e pratiche collettive. Riteniamo centrale la costruzione di percorsi antisessisti all’interno dei gruppi politici e delle realtà autogestite in modo da permettere a tutt@ di giungere a una definizione chiara di cosa siano sessismo e violenza, condividendo gli strumenti utili a riconoscerli. È quindi altrettanto fondamentale combattere i meccanismi di negazione e minimizzazione degli episodi sessisti, misogini, transfobici, omofobici e lesbofobici e di complicità con chi li agisce. Vogliamo riaffermare e diffondere la pratica dell’autodifesa come strumento decisivo per sviluppare crescita, consapevolezza, potenza, forza, sicurezza e trasformazione, personali e collettive. L’autodifesa, infatti, è una pratica collettiva che pone al centro l’autodeterminazione delle donne, creando legami di solidarietà e sorellanza e superando pertanto il paradigma eteropatriarcale che vuole le donne deboli e fragili vittime. Le forme di autodifesa possono essere fisiche, verbali e psicologiche, adattandole alla propria fisicità, storia personale e alle proprie caratteristiche. Differentemente dall’autodifesa classica e dall’autodifesa femminile, l’autodifesa femminista si basa sull’orizzontalità – in questione non è l’insegnamento, ma la trasmissione – e sull’autorganizzazione (scambi di stage, allenamenti e simili). Mette in atto processi che modificano la percezione di sé, della propria forza/debolezza, del proprio ruolo in relazione alle altre persone. Attraverso l’assunzione degli strumenti e delle pratiche dell’autodifesa femminista è nostro obiettivo, dunque, promuovere momenti di autoformazione e riflessione negli spazi, non accettando per prim@ il sessismo nelle sue espressioni quotidiane e lavorando affinché diventi un problema di tutt@.

I Centri Antiviolenza (CAV)
In questo momento storico segnato dalla forte riemersione della violenza patriarcale e dalla virulenza delle politiche neoliberali, i Centri Antiviolenza sentono forte il bisogno di darsi nuove prospettive e affermare gli elementi distintivi della loro identità per resistere agli attacchi di coloro che in piena sintonia con la cultura dominante, propongono una narrazione della violenza che tende alla neutralizzazione dell’approccio e all’istituzionalizzazione delle pratiche. Definiamo Centri Antiviolenza (CAV) tutti i centri, gli sportelli, le case rifugio, le case di semiautonomia, gli spazi occupati e autogestiti delle donne. Questi sono luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne (con donne si intende donne cisgender¹, transessuali e lesbiche). In quest’ottica i CAV accolgono e sostengono i singoli percorsi di fuoriuscita dalla violenza, intervengono sulla formazione e sulla prevenzione sensibilizzando il territorio, e strutturano un sistema complesso di reti al cui centro c’è il vantaggio per le donne. Ruolo cardine del Centri Antiolenza è quello dell’operatrice di accoglienza/antiviolenza, la cui professionalità non può prescindere dalla condivisione della politica dei CAV.

L’operatrice di accoglienza/antiviolenza
L’operatrice è una figura complessa e articolata: la sua formazione è acquisita esclusivamente all’interno dei Centri Antiviolenza e il suo operato si fonda nella pratica della relazione tra donne e nel contrasto agli stereotipi e alle discriminazioni di genere. Indipendentemente dal profilo professionale posseduto, ha una formazione politica e operativa femminista che tiene conto dei saperi intersezionali. Tutte le donne che operano nei CAV costituiscono un’équipe integrata con competenze multifattoriali, che lavorano in ottica condivisa, mettendo al centro il progetto della donna e la relazione con lei, basata sull’accoglienza dei suoi desideri. È pertanto fondamentale riconoscere il lavoro delle donne che operano nei Centri Antiviolenza, affinché la necessaria enfasi sul loro coinvolgimento politico e la loro autonomia dalle istituzioni non si risolva in precarietà e lavoro gratuito.

Pratica e metodologia dei Centri Antiviolenza
Nei CAV viene adottata una metodologia indirizzata all’autonomia e mai all’assistenza, basata sulla relazione tra donne e sulla lettura della violenza di genere come fenomeno politico e sociale, strutturale e non emergenziale. Ogni percorso di fuoriuscita dalla violenza si avvia su iniziativa e scelta della donna coinvolta ed è finalizzato alla rielaborazione degli eventi subiti e all’empowerment², nel rispetto dei desideri, dei codici valoriali e dei bisogni di ognuna, senza la prescrizione di percorsi o passaggi obbligati. L’ascolto empatico e la giusta vicinanza richiedono la capacità di partire da sé, di riconoscere e gestire le proprie reazioni emotive, di lasciare spazio al racconto e ai silenzi delle donne senza interporre il proprio giudizio.
Nei centri antiviolenza le donne trovano: ascolto, accoglienza, ospitalità; accompagnamento nella ri-acquisizione dell’autostima; attivazione delle risorse interne; sostegno legale; sostegno psicologico; sostegno alla genitorialità; sostegno all’autonomia economica (formazione/lavoro/casa). I Centri Antiviolenza garantiscono: la riservatezza, la segretezza, l’anonimato e la gratuità.
Tutta la strategia operativa fa leva sul potenziamento degli elementi positivi e sulla valorizzazione delle risorse interne della donna che, anche grazie ai cambiamenti di contesto intervenuti, vengono rinforzate e confermate. Si accompagna la donna nel reinserimento sul mercato del lavoro e a contrattare, in sede di separazione legale, le condizioni migliori possibili per lei e i/le minori. Il rifiuto della mediazione familiare, ossia l’intervento volto alla risoluzione del conflitto relazionale, dove si agisce violenza su donne e figl@ (così come previsto anche dalla Convenzione di Istanbul), deve essere considerato uno dei tratti distintivi del nostro agire.

Risorse e finanziamenti
La pluralità di azioni necessarie per una concreta ed efficace lotta alla violenza maschile sulle donne richiede l’impegno di risorse e finanziamenti appropriati e finalizzati al vantaggio delle donne e alla valorizzazione e sostegno dei Centri Antiviolenza.
Pertanto pretendiamo:
• Risorse e finanziamenti adeguati economicamente e rispondenti ai bisogni individuati dai CAV. I finanziamenti pubblici devono prevedere convenzioni o contratti a tempo indeterminato che coprano le spese di gestione annuali. Il contratto di finanziamento dovrebbe coprire tutti i servizi forniti, e non essere suddiviso in diverse parti;
• Abolizione del vincolo del 30% dei finanziamenti per l’apertura di nuovi CAV (art. 5Bis L.119), ad oggi applicato senza aver prima monitorato l’effettiva necessità di quelli già esistenti, che chiudono per mancanza di risorse;
• La verifica da parte del Dipartimento Pari Opportunità (DPO) delle spese pregresse e la filiera economica che i finanziamenti hanno seguito negli scorsi anni;
• Che la programmazione degli enti locali tenga conto di un piano di intervento triennale, al fine di garantire continuità ed efficacia ai progetti e alle azioni di contrasto alla violenza;
• Risorse allocate al DPO e non lasciate alla responsabilità dei singoli ministeri.
Contro l’istituzionalizzazione dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza
La Conferenza Stato Regioni ha definito i requisiti minimi necessari dei Centri Antiviolenza e delle Case Rifugio per il loro riconoscimento a livello nazionale e per poter accedere al riparto delle risorse finanziarie. Quanto stabilito lascia ampi spazi nella definizione di CAV e di chi può candidarsi a gestirlo, consentendo l’attivazione di servizi neutri, assistenzialistici e privi di competenze specifiche che non sono in grado di accogliere le donne e accompagnarle in un percorso di autonomia e autodeterminazione. Tali requisiti negano, inoltre, i principi sanciti dalla Convenzione di Istanbul e disconoscono il ruolo e l’esperienza dei Centri Antiviolenza.
In quest’ottica pretendiamo che la definizione di CAV e Case Rifugio, così come gli enti chiamati a gestirli e il ruolo delle operatrici e la loro formazione, riflettano i principi espressi in questo Piano. Ci opponiamo inoltre all’individuazione di standard strutturali e requisiti orari di funzionamento dei Centri Antiviolenza che siano svincolati da risorse congrue e che nulla hanno a che vedere con elementi qualitativi del lavoro promosso.
Il “quadro strategico” presentato dal DPO (settembre 2017) si riserva nei fatti il potere istituzionale di determinare le scelte delle politiche e degli interventi escludendo i Centri Antiviolenza dalla Cabina di Regia. In tale documento, inoltre, è evidente la sostanziale incoerenza tra l’attenzione specifica posta alle donne migranti, rifugiate e richiedenti asilo per le discriminazioni multiple cui sono esposte, con le politiche adottate da questo governo che sono orientate da una logica di sicurezza e di respingimento piuttosto che di accoglienza e che da ultimo, bloccando la “rotta italiana” degli sbarchi, hanno dato mano libera ai trafficanti di esseri umani, lasciando migliaia di persone a un destino di abusi e violenze.
L’intero quadro strategico nazionale così strutturato risulta una mera dichiarazione di intenti visto che non c’è chiarezza degli impegni economici posti a copertura della pluralità di azioni previste.
Sempre in merito a quanto presentato dal DPO (settembre 2017), le “linee guida” si configurano come proposte esclusivamente securitarie e non protettive, per cui chiediamo la cancellazione di quello che vorrebbe diventare il ‘vademecum’ dell’operatore sanitario (allegato B “Trattamento diagnostico-terapeutico”). Infatti, se da un lato questo impone la raccolta di elementi utili a un eventuale processo penale, dall’altro mette la donna in condizione di essere “radiografata” e inserita d’ufficio in un percorso non voluto, non appena riferisce le violenze subite dal partner, o anche quando non le riferisce. Ritorna in queste modalità una visione della donna come essere fragile da tutelare, che ha problemi psicologici e che deve essere sottoposta non solo a cure ma a diagnosi che potrebbero addirittura rivelarsi per lei controproducenti.
In quest’ottica ci opponiamo anche alla procedibilità d’ufficio (allegato C) proprio in misura più cogente nel momento in cui la donna “nei casi di maltrattamento sospettato e/o dichiarato” non voglia sottoporsi alle “procedure di repertazione di tracce biologiche”.

Note:

1 Cisgender (o cisgenere) è un termine che identifica una persona la cui l’identità di genere assegnata alla nascita in base al sesso biologico coincide con la propria percezione di sé e il genere a cui si sceglie di appartenere.

2 Empowerment (o empoderamento) è un termine inglese (e spagnolo) di cui non esiste ancora il corrispettivo in italiano. È stato utilizzato in ambito internazionale per definire un processo di crescita e potenziamento riguardante il femminile/femminista e le lotte sociali. Questo processo avviene prevalentemente attraverso due fasi: la prima riguarda la presa di coscienza di una condizione di oppressione, l’appropriazione della potenza o potenzialità che ognun@ ha e l’autodeterminazione nelle scelte. Nella seconda fase il soggetto o i soggetti perseguono uno o più obiettivi che hanno a che fare con il rovesciamento dello stato di cose presenti o con il cambiamento della propria condizione.