L’ordine del discorso mediatico sulla violenza di genere e il femminicidio – un primo approccio

di Valentina Stillo

 

La presente bibliografia è frutto di un lavoro svolto all’interno del master Studi e politiche di genere dell’Università di Roma 3, A.A. 2018-19. L’elaborato finale consiste nell’analisi critica di una puntata del format Amore Criminale – Stagione 2018. Il criterio dello studio si basa sulla constatazione che il discorso giornalistico-mediale procede ripercorrendo le orme del discorso giuridico e mutuando da esso dei meccanismi di esclusione/selezione/stigmatizzazione già storicizzati.

Nel riportare i testi di riferimento, mi sembra utile suggerire una specifica consecutio di lettura che accompagni gradualmente il ragionamento fino al nocciolo della questione e faciliti la comprensione delle argomentazioni esposte. A tal fine, declinerò sia l’ordine cronologico che quello alfabetico delle pubblicazioni e seguirò la traccia di un ragionamento che ritengo più conveniente per un primo approccio al tema.

Concludo questo preambolo aggiungendo che le nozioni a supporto della mia analisi provengono da tre branche di saperi: la sociologia giuridica, la filosofia, la sociologia della comunicazione.

 

Bibliografia di riferimento:

  1. Simone, La devianza femminile nell’ordine discorsivo criminologico e nella sociologia giuridico-penale. Un approccio critico, in Criminologie critiche contemporanee, a cura di C. Rinaldi e P. Saitta, Giuffrè 2018

Un excursus ampio e approfondito sulla devianza femminile e sui discorsi che si sono sviluppati attorno ad essa, partendo innanzitutto dalle teorie di Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero. Il testo si sofferma efficacemente sulla critica di Michelle Foucault alla criminologia positivista e costituisce un’introduzione estremamente utile al pensiero del filosofo francese.

Tra gli stereotipi più diffusi che afferiscono ai discorsi sulla devianza femminile si rintracciano facilmente i modelli de “la madre buona”, “la vittima”, “l’imputata” (p.224 e ss.). Il concetto di imputabilità della donna vittima di violenza è stato un criterio di valutazione ampiamente impiegato nella storia giuridica italiana e internazionale. In questo saggio Anna Simone distingue un nuovo approccio interpretativo utilizzato per i reati contro le donne, un metodo specularmente opposto al criterio accusatorio che si sta via via affermando e istituzionalizzando tanto nell’opinione pubblica quanto nelle aule dei tribunali. La vittimizzazione delle condotte femminili rappresenta la nuova retorica narrativa che descrive i fatti criminali commessi ai danni delle donne. Si tratta di un paradigma esplicativo piuttosto recente che, a dispetto della sua modernità, restituisce una lettura strumentale del fenomeno tanto quanto l’assunto dell’imputabilità della vittima.

 

  1. Simone, La prostituta nata. Lombroso, la sociologia giuridico-penale e la produzione della devianza femminile, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Anno XLVII, N.2 Dicembre 2017, Il Mulino, pp. 383-398

Partendo nuovamente dalla definizione lombrosiana della devianza femminile, questo testo approfondisce la riflessione sulla sociologia giuridico-penale in relazione alla costruzione stereotipata dell’individuo diverso. A pochi anni di distanza dalle teorizzazioni della criminologia positivista italiana, in Francia Emile Durkheim inserisce il concetto di devianza all’interno della dimensione collettiva. La manifestazione criminale, concepita da Lombroso come caratteristica ontologica e patologica dell’individuo, assume in Durkheim una prospettiva comunitaria. L’anormale non è più tale per natura bensì per cultura. Questo passaggio teorico-paradigmatico apre la strada alle successive teorie del Labelling Approach (teorie dell’etichettamento del soggetto deviante) e al contributo fondamentale di Erving Goffman, il sociologo statunitense autore di Stigma. Notes on the management of spoiled identity (1963). Con il termine stigmatizzazione Goffman descrive un fenomeno sociale in cui il soggetto deviante viene spogliato della propria identità tramite un processo di screditamento collettivo. Lo stigma sociale, tanto quanto le classificazioni dell’antropometria criminale lombrosiana, produce personaggi anormali, figure la cui devianza pregiudiziale non viene messa in relazione con l’esperienza reale, il livello di istruzione e le condizioni economiche delle persone.

 

  1. Peroni, Violenza di genere e prostituzione nel discorso pubblico. Norme, controllo, sessualità in Sessismo Democratico. L’uso strumentale delle donne nel neoliberismo, a cura di Anna Simone, Mimesis Editore 2012

L’introduzione di A. Simone al volume Sessismo Democratico mette a fuoco il contesto sociale contemporaneo e il comun denominatore metodologico che sottende le ricerche contenute nei i saggi di autor* var*. Gli studi raccolti in questo libro mirano a decostruire i discorsi funzionali alla produzione di un corpo femminile sganciato dalla vita reale e proiettato in un «gioco retorico» tra «le partiture […] classiche: il femminile (cura, dolcezza, bontà, spirito protettivo); il femminino (spregiudicate femme fatale, sadiche e mangiatrici di uomini); il femminismo (aggressive, esigenti, rompiscatole)».

Il contributo di Caterina Peroni ripercorre l’ascesa della politica securitaria in Italia messa in relazione con la violenza di genere. Particolarmente interessanti le osservazioni relative ai concetti di vittima buona / vittima cattiva (p. 115), nonché la riflessione sugli uomini che commettono atti di violenza contro le donne. L’attributo dell’alterità viene utilizzato come chiave interpretativa per la violenza di genere tout court, sia essa agita da uomini stranieri che da nostri connazionali. Peroni rileva come gli autori italiani di femminicidi vengano considerati «diversamente altri, strumenti di un esorcismo

cui le problematicità della sessualità e dell’identità maschile sono giustificate come incontrollabile gelosia, condizioni di marginalità del reo, devianza individuale, depressione o improvvisa follia». Questa sorta di anormalità circoscritta, considerata il movente ineluttabile del femminicidio, confonde la comprensione degli intenti criminali e sminuisce un fenomeno sociale e culturale di portata ben più ampia rispetto alla dimensione eccezionale che gli si vuole attribuire.

 

  1. Simone, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio, Mimesis Edizioni 2010

Questo testo del 2010 pone al centro della questione il rapporto che intercorre tra il diritto, la norma giuridica e i corpi. La matrice culturale della morale occidentale risiede nella riproposizione stratificata della norma eterosessuale. Per ricomporre un’etica giuridica vicina alle reali necessità delle persone e ridurre lo scarto che intercorre tra la legislazione vigente e le effettive condotte dei corpi occorre mettere in discussione tale normatività eterosessuale ed eterodiretta, rintracciare quegli stereotipi secolari che alimentano le azioni di normalizzazione sociale e che nell’ultimo ventennio hanno fomentato l’ondata di securitarismo in Italia.

Per decenni il diritto penale ha trasformato le vittime di violenza maschile in imputate, in soggetti in cui rintracciare la colpa del delitto commesso da un altro a proprio svantaggio. Oggi la pratica forense ha invertito la tendenza del giudizio riportando le “imputate” oggetto di violenza allo status di vittime, tuttavia di vittime inermi, ossia donne stigmatizzate in una condizione di perenne debolezza e insubordinazione nei confronti del maschio autoritario. Questo ribaltamento di prospettiva nella valutazione dei reati sessuali perpetrati ai danni delle donne ha prodotto effetti reazionari sia a livello di governance territoriale che di politica nazionale. Le ordinanze amministrative e i decreti legge con carattere di urgenza stanno diventando uno strumento di potere e controllo civico piuttosto che una garanzia di diritti civili. Legittimati da istanze di sicurezza e decoro urbano, tali provvedimenti si configurano come veri e propri dispositivi di normalizzazione dei corpi orientati al contenimento di condotte eccedenti – ad esempio la prostituzione – e finalizzati all’incremento dell’allarme sociale – è il caso del decreto legge n. 92, convertito in Legge 24 luglio 2008  n. 125 e facente parte del ‘pacchetto sicurezza’ varato al fine di “contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata”.

 

  1. F. Pedace, Vulnerabilità, vittime e diritti: un percorso attraverso la vittimologia, la criminologia critica e la critica femminista del diritto, in Femminismo ed esperienza giuridica – Pratiche, Argomentazione, Interpretazione, a cura di A. Simone e I. Boiano, 2018, pp. 147-168

Chiara Federica Pedace riesce a condensare in poche pagine una panoramica molto esaustiva sui concetti di vittima e vulnerabilità nel diritto nazionale e internazionale.

La vittimologia nasce negli Stati Uniti a metà del Novecento con gli studi dello psicologo Hans von Hentig e approda in Italia intorno agli anni Settanta grazie all’interesse di Augusto Balloni e Guglielmo Gulotta. Questa nuova disciplina imporrà un cambiamento di prospettiva radicale per l’indagine criminologica.

Nella vittimologia il punto di vista del reo passa in secondo piano e l’analisi dell’azione delittuosa si sviluppa partendo dalla condizione della vittima. L’atto delinquenziale viene parafrasato come il risultato di un interscambio tra il colpevole e la vittima, la quale diventa attivamente partecipe della condotta illecita altrui. In criminologia, la corresponsabilità comportamentale della vittima nella maturazione della condotta criminale viene definita con la locuzione victim precipitation. Si tratta di un paradigma analitico molto accreditato in letteratura giuridica e tuttavia molto dibattuto a causa delle implicazioni ambigue che ne derivano. Prima tra tutte l’implicita deresponsabilizzazione del reo, il quale si risolverebbe a delinquere anche per “causa” della vittima. La teoria della victim precipitation implica una classificazione tassonomica degli elementi di predisposizione vittimogena riscontrabili in taluni soggetti o in determinati settori sociali. La vulnerabilità è il primo attributo assegnato alle vittime di azioni delittuose; una caratteristica parzialmente aleatoria nella quale ravvisare l’inclinazone bio-psico-sociale di un individuo a divenire vittima. Contro questo modello positivistico della devianza criminale, che incede nell’analisi del delitto secondo una logica binaria di causa-effetto (vulnerabilità-crimine), la Criminologia Critica di Alessandro Baratta e gli studi femministi degli anni ’70 e ’80 hanno opposto contestazioni metodologiche di grande rilievo, in particolare nell’osservazione del fenomeno della violenza maschile sulle donne. Di fatto, lo schema di ragionamento causalistico – proprio della vittimologia – trascura riflessioni ben più ampie e contestualizzate all’interno del sistema sociale in cui siamo immersi. La criminologia vittimologica trascura l’implicazione dei governi nella configurazione di alcuni crimini specifici all’interno della collettività e omette la necessità di una due diligence precauzionale volta alla riduzione di tali fenomeni. D’altro canto, le successive riflessioni sul tema delle politiche di protezione hanno evidenziato come l’inserimento della categoria della vulnerabilità all’interno di un discorso sociale più complesso e stratificato non escluda il rischio di de-soggettivazione per la persona vittima di reato. Alcune criticità connesse all’attuazione delle politiche di protezione sono state esaminate da Wendy Brown nel volume States of Injury nel 1995. Dopo di lei altre ricercatrici hanno affrontato questa tematica complessa e il dibattito è ancora aperto. Gli ultimi contributi sull’argomento – S.Doods, C. Mackenzie, W. Rogers – indicano la necessità di una tassonomia della vulnerabilità basata sulle cause determinanti la condizione stessa, distinguendo tra vulnerabilità ontologica (intrinseca alla condizione umana), vulnerabilità ricondotta a condizioni sociali e vulnerabilità determinata da azioni umane (ad esempio il pregiudizio e l’abuso).

 

  1. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Piccola Biblioteca Einaudi 2004

L’opera contiene la prima conferenza tenuta da Michelle Foucault al College de France in occasione del suo incarico di docenza presso il prestigioso istituto di ricerca francese.

Con L’ordine del discorso il filosofo pone le basi metodologiche per tutti i ragionamenti e le dissertazioni che seguiranno in 14 anni di insegnamento.

Foucault identifica nel discorso una produzione di senso selezionata e controllata al fine di «scongiurare i poteri e pericoli». Tale macrosistema agisce sui processi storici e conoscitivi attraverso procedure di controllo esterne e interne ai discorsi stessi. Il principale strumento di controllo esterno è la procedura di esclusione, che opera nella costruzione dei discorsi mediante tre sistemi, ovvero l’interdetto, la partizione e la volontà di verità. Le procedure di controllo interne ai discorsi fungono da princìpi di classificazione e distribuzione dei discorsi stessi. Anche in questo caso Foucault ne distingue tre – il commento, l’autore e l’organizzazione delle discipline – e specifica che l’azione di tali sistemi è orientata al controllo dell’evento e del caso, ossia alla prevenzione dell’imprevisto.

Esistono infine alcuni procedimenti, denominati procedure di restrizione, che rappresentano i tre grandi metodi di assoggettamento del pensiero e dettano i limiti per la produzione di senso all’interno delle «società di discorso»: il rituale, le dottrine, i sistemi di educazione.

In un ordine discorsivo così orientato e controllato, il grande paradosso della nostra civiltà occidentale è quello di ostacolare il disvelamento dei significati interdetti e impedire la produzione di discorsi innovativi. La nostra società, apparentemente logofila, si rivela dunque profondamente logofobica.

Prendendo le mosse da tali premesse, Foucalt enuncia le azioni necessarie per sovvertire l’ordine precostituito del discorso: punto primo, rimettere in discussione la nostra volontà di verità (principio di esteriorità); punto secondo, restituire al discorso la sua dimensione casuale e di evento (principio di discontinuità); punto terzo, rovesciare il potere assoluto del significante (principio di rovesciamento). Questi gli intenti dichiarati dal filosofo nella sua breve ma intensa premessa all’attività didattica in fieri presso la scuola parigina.

 

  1. Foucault, Gli anormali – Corso al College de France, 1974-1975, Universale Economica Feltrinelli 2017, Traduzione e cura di V. Marchetti e A. Salomoni

A partire dal XIX secolo una serie di personaggi considerati atipici nella storia della socialità confluiscono nella grande categoria degli anormali. Il mostro umano, che cavalca l’immaginario collettivo a partire dal Medioevo e ancora per tutti i secoli XVII e XVIII; l’individuo da correggere, figura anomala collegata alla nascita delle tecniche di disciplina nel ‘600 e ‘700; l’onanista, una nuova sagoma eccedente che appare nel XVIII secolo per effetto delle nuove corrispondenze intessute tra sessualità, organizzazione familiare, corpo e salute. Queste tre tipologie di attori sociali vengono confinate dalle istituzioni di controllo nel grande insieme dell’anormalità, campo di indagine prediletto della psicologia criminale, una nuova disciplina emergente tra le dottrine empiriche positiviste. Lo studio della condotta criminale attinge la sua autorevolezza dalla sfera medico-giudiziaria e affianca l’esercizio del potere punitivo nella pratica forense attestandosi ben presto con la definizione di psichiatria penale. Attraverso le lezioni tenute al College de France nel periodo che intercorre tra gennaio e marzo 1975, Michelle Foucault indaga gli archetipi e i processi storico-filosofici di questo percorso; ci dimostra come la psichiatria sia divenuta scienza e tecnica degli anormali e in che modo il concetto di anormalità sia stato affiliato a quello dell’anomalia sessuale.

 

PUNTO DI VISTA:

I meccanismi afferenti alla produzione di senso nel pensiero occidentale e le dinamiche di potere messe in atto per il contenimento e la gestione delle anomalie sociali costituiscono un humus indispensabile per le nostre riflessioni sulla violenza di genere. Il pensiero foucaultiano getta luce sugli interdetti e sui mascheramenti propri dei discorsi sul femminicidio. La rappresentazione della violenza maschile contro le donne e la percezione collettiva di tale fenomeno risultano limitate e arbitrarie. Troppo spesso l’opinione pubblica e le funzioni statali di governo escludono dalla sfera cognitiva i significati profondi dell’accanimento sociale, culturale e fisico tutt’ora in atto nei confronti del genere femminile.

 

  1. Giomi, Centralità della fiction, in Televisione ieri e oggiAnalisi e studi del caso italiano, a cura di F. Monteleone, Marsilio Editori 2006, pp.230-272

Il saggio propone una riflessione fondamentale sulla fiction televisiva italiana, ne analizza le tipologie di prodotto ed evidenzia le connessioni sociologiche che intercorrono tra questi programmi e il pubblico fruitore.

Lo sviluppo dell’argomento concerne il «debordamento» della fiction e dello story telling in generi televisivi non propriamente connessi a tali pratiche di narrazione – ad esempio l’informazione giornalistica, i reality show e la reality tv in senso più ampio. Qualunque sia il prodotto televisivo contaminato, la fiction introduce inequivocabilmente i temi del privato e del personale, che vengono restituiti allo spettatore attraverso il filtro del pathos esasperato e dell’emotività. Il paragrafo Ambiti familiari e modelli femminili ci illustra la relazione contraddittoria della narrazione televisiva con il vissuto reale del Paese. La fiction domestica da un lato recepisce i cambiamenti di costume proponendo modelli di famiglia atipici e donne emancipate, dall’altro rinsalda formule convenzionali e conservatrici ricorrendo a soluzioni narrative classiche quali il ricongiungimento di coppie separate e la dedizione sacrificale dei personaggi femminili all’esperienza della maternità.

 

  1. Giomi, Margini e frontiere nel discorso giornalistico italiano. Uomini e donne nella cronaca nera, in Voci dal Margine. La letteratura di ghetto, favela, frontiera, a cura di R. Francavilla, Artemide 2012, pp.207-226

Nella fiction contemporanea il genere crime è uno degli ambiti privilegiati per la riproposizione e la legittimazione degli stereotipi sul maschile e il femminile. La cronaca nera raccontata dai telegiornali italiani è influenzata massivamente dai processi stigmatizzanti delle crimes stories. Attraverso l’analisi delle notizie sui femminicidi riportate dai media nell’anno 2006, Elisa Giomi porta alla luce alcuni dati indispensabili per la comprensione dei meccanismi mediatici fuorvianti ai quali il pubblico italiano viene costantemente sottoposto. I notiziari televisivi di tutte le reti conferiscono maggior risalto ed enfasi agli episodi di femminicidio in cui l’assassino è di nazionalità straniera ed è uno sconosciuto rispetto alla vittima. In tutti i casi di violenza di genere, la vittima è celebrata come portatrice di ruoli sessuali tradizionali e moralizzati – la donna angelica, la madre devota, la bambina, la brava ragazza – oppure colpevolizzata perché deviante rispetto alla femminilità normalizzata – la donna la vamp, la ragazza ribelle, colei che, mettendo in atto comportamenti sprovveduti, se l’è andata a cercare. Leggiamo nel testo: «Rafforzare il modello femminile tradizionale, definito cioè secondo la norma eterosessuale e le convenzioni del decoro borghese, è una funzione tipica della cronaca degli assassini di donne, che prescrivono loro condotte e attività appropriate pena il rischio di divenire vittime di aggressioni sessuali».

 

  1. Giomi, S. Magaraggia, Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, Il Mulino 2017

Che cos’è la violenza di genere? Quali sono le sue connessioni con l’Ipv, intimate partner violence? Come avviene l’intersezione tra l’identità sessuale, il ruolo e la dimensione del potere inteso come dominio sull’altro? Il testo si interroga sulle ragioni culturali e sociali della violenza di genere scardinando i cliché più diffusi tanto in ambito mediale che in campo sociologico. La convinzione fallace che gli uomini colpevoli di abusi sulle donne siano momentaneamente disconnessi dalla razionalità e spinti al crimine per un raptus di follia occasionale. L’idea che le donne siano troppo deboli. Viceversa, la contestazione di un eccessivo empowerment femminile, che scatena reazioni maschili spropositate ma giustificate. L’amore romantico – eterosessuale e sacrificale. Questi temi, saldamente ancorati alle radici della nostra cultura occidentale, vengono intelligentemente messi a confronto con l’altra faccia della medaglia: la rappresentazione della violenza agita dalle donne.

A fronte di una rilevanza sempre crescente all’interno dei prodotti mediali fictional e factual, la criminalità femminile attraversa il panorama televisivo e cinematografico contemporaneo con una carica eversiva dai risvolti marcatamente conservatori e si rivela vessillo foriero di un’alterità mostruosa e anormale che rinsalda stereotipi di genere primitivi e largamente diffusi.

Redazione

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