Segretamente pubblici: il parkour e lo spazio pubblico come soglia

di Fabio Bertoni

N.d.r.: questo articolo è apparso originariamente in Rivista Geografica Italiana 125 (2), pp. 43-56. Ringraziamo l’autore per averci concesso la sua pubblicazione sul sito di Iaph Italia. 

ABSTRACT
Il parkour è una disciplina che viene realizzata in spazi urbani, sviluppandosi a partire dai suoi margini, sia locali sia temporali. Attraverso essa, ci è possibile interrogare i concetti analitici e teorici con cui la città viene interpretata, mettendone alla prova definizioni e applicazioni. Questo contributo, risultato preliminare di una ricerca etnografica più ampia, Intende far dialogare le esperienze di campo con il concetto teorico di “spazio pubblico”, ed in particolare con la sua declinazione classica. In particolare, lo spazio costruito da traceurs e traceuses sarà preso in considerazione perché costituisce uno spazio “segretamente pubblico”. Attraverso questa espressione, paradossale per la lettura habermasiana, si intende evidenziare come la pubblicità venga costruita e attuata attraverso una territoriologia, che ne individua attori, azioni e discorsi, tra strategie scalari di gestione e controllo e pratiche minute di riappropriazione.

INTRODUZIONE
Il concetto di spazio pubblico sta ottenendo una rinnovata importanza, presenta una letteratura amplissima e arricchita da sguardi provenienti da differenti prospettive teoriche e approcci. Il dibattito accademico, infatti, è sviluppato da discipline differenti, dalla filosofia politica all’urbanistica, dalla sociologia alla geografia, ognuna con le proprie tradizioni, comunità e metodi (Staeheli and Mitchell, 2007). Non solo: il termine spazio pubblico non è esclusivo dominio della ricerca accademica, ma è protagonista di diffuse e floride contaminazioni da parte di elaborazioni e interpretazioni provenienti da mondi esterni all’accademia, prendendo connotazioni differenti nel senso comune così come nei saperi critici emergenti dai movimenti sociali. Pur non mancando pregevoli riletture delle tradizioni teoriche intorno al tema (tra le altre, Weintraub, 1995), gli usi del termine “spazio pubblico” sono dunque vari e talvolta anche discordanti, e raramente sistematizzati e riletti criticamente. In questo modo, il concetto è reso al tempo stesso popolare e scivoloso, rappresentando un termine comune per parlare di processi differenti.

Questo elaborato non ha l’intento di ricostruire un quadro analitico delle differenti prospettive o restituire in modo esaustivo le loro evoluzioni, ma piuttosto tracciare un asse di differenziazione del concetto. Delineando due tendenze, trasversali agli approcci specificatamente disciplinari, si cercherà di individuare una linea di lettura utile per scomporre e ricostruire l’utilizzo di “spazio pubblico”.

Da un lato, è individuabile una tradizione di studio che conferisce maggiore importanza al secondo termine della diade: è il “pubblico” il protagonista di questi lavori. La concentrazione viene dunque rivolta sulla definizione di pubblicità, individuandone caratteristiche e formazioni normative, così come campi di attuazione e strumenti per la “diagnosi” dello stato di salute sociale del concetto (Rossi, 2008).

Lo spazio diventa in questi il campo in cui studiare i processi di definizione del pubblico e, al tempo stesso, l’esemplificazione in cui osservarne genesi e cambiamenti: esso è, di volta in volta, evocato con una valenza più metaforica che concreta, un’espressione che rimanda direttamente alla sfera pubblica, dandone una forma e, tuttalpiù, localizzandola. Riconoscendo un’urgenza analitica al pubblico rispetto allo spazio, rientrano prospettive anche molto differenti tra loro: il dibattito tra visioni habermasiane dello spazio pubblico e le critiche postmoderne che, a partire da Sennett (1977), ne individuano il declino.

A questa tradizione teorica si contrappone una concezione che considera lo spazio pubblico a partire dalla fenomenologia dei processi che lo attraversano nel quotidiano e agli sguardi critici, che si propongono di ricostruire e illuminare le microfisiche dei poteri (Foucault, 1977) che si strutturano nei processi urbani e nell’organizzazione spaziale del pubblico. In cui il punto di partenza è la materialità dello spazio concreto e delle forme sociali e culturali che in esso si situano, lo modificano e lo significano. In questa seconda concezione del termine, l’essere pubblico viene considerato come un processo costruito nei conflitti e nelle negoziazioni generati nelle geometrie di questi attraversamenti spaziali. Maggiore attenzione viene posta proprio sullo spazio, sulle costruzioni narrative ed affettive che in esso trovano supporto e nelle pratiche che ne costituiscono le forme e i confini.

Lo spazio pubblico, in questi studi non è mai singolare e normativamente definito, ma è da intendersi piuttosto come prodotto, instabile e temporaneo (Landes, 1988; Cenzatti, 2008): un “pubblico minore” (Bianchetti, 2011), che non si presenta come concetto analitico, ma è al tempo stesso processo e risultato dello svilupparsi della città molteplice (Rossi, 2008). Più o meno stabile a seconda degli equilibri e dai rapporti tra usi, attori e interessi che in esso si relazionano, lo spazio pubblico in questa accezione rimane comunque sempre definibile come in continuo cambiamento, aperto, affollato, diversificato, incompleto, improvvisato, e regolato disordinatamente o chiaramente (Amin, 2008).

Le due tendenze, come detto, non sono ovviamente omogenee e coese al loro interno, né tantomeno sistematizzate e impermeabili le une alle altre. Nonostante i loro incontri ed ibridazioni abbiano portato a sviluppi interessanti, è necessario tenere bene in considerazione come i differenti accenti teorici sullo spazio e sul pubblico influiscano nella genesi dei concetti e delle definizioni, e conseguentemente alle loro portate epistemologiche e all’applicabilità nella ricerca dello strumento teorico proposto.

In questo contributo sarà messa alla prova l’adattabilità e la capacità analitica di un approccio normativo allo spazio pubblico, evidenziandone i suoi elementi fondativi e mettendoli in relazione con esperienze e pratiche che vengono realizzate ai margini degli spazi urbani, ed in particolare con la disciplina del parkour, per poi cercare di delinearne una lettura differente, più vicina a uno studio delle dimensioni processuali dello spazio in cui le pratiche sono realizzate.

Nello specifico, nel primo paragrafo, sarà riletta sinteticamente la concezione habermasiana di “spazio pubblico”, ricostruendo il passaggio da Offentlichkeit a “spazio pubblico” e individuando alcuni aspetti centrali nel concetto. In seguito, dopo un breve paragrafo che giustifica l’uso, in un articolo che si vuole come teorico, del materiale empirico come arricchimento della riflessione e della scelta di utilizzare per questo scopo le esperienze di campo nella disciplina del parkour, considerandone il suo rapporto fondativo rispetto alla pubblicità dello spazio, si procederà, nel terzo paragrafo, a mettere in dialogo i concetti analitici evidenziati con la disciplina del parkour e con le pratiche dei suoi realizzatori. In conclusione, a partire dalle frizioni tra lo sguardo etnografico presentato e la lettura metaforica dello spazio, si cercherà di ricostruire il concetto di spazio pubblico, attraverso il tentativo di ricostruirne una territoriologia.

LO SPAZIO COME ESPRESSIONE DEL PUBBLICO
In particolare, ci si confronterà con il concetto di spazio pubblico prodotto all’interno di concezioni che possano essere collocati nella prima tradizione, e in particolare in quelle che, partendo da Habermas, coniugano in termini spaziali la sfera pubblica.

Habermas riveste nel dibattito sul tema un’importanza capitale, e il suo Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), primo lavoro di una certa importanza del sociologo tedesco, rappresenta ancora oggi, in maniera più o meno esplicita, un punto di riferimento teorico cardinale per differenti autori e approcci che si confrontano con il concetto di spazio pubblico. Quest’opera è da considerarsi un vero e proprio spartiacque nel dibattito accademico (e non solo) intorno al concetto, e rappresenta, se ce ne è uno, l’approccio classico allo studio della pubblicità.

Il testo sulla genesi e lo sviluppo della sfera pubblica borghese, come ben noto, è sviluppato intorno ai processi dell’agire comunicativo, ma numerosi autori hanno intrecciato la sua opera con riflessioni sulla spazialità, nonostante i temi della città e del territorio non siano mai considerati come punti focali del ragionamento all’interno del testo, né lo siano diventati in seguito, nel corso di un percorso teorico e personale di oltre cinquant’anni.

Il passaggio da una lettura sull’agire comunicativa a una lettura spazializzata non è però da considerarsi per questo motivo illegittimo, al contrario. Proprio il dibattito aperto sulla traduzione e sull’interpretazione di Offentlichkeit, termine usato nel testo originale e di non immediata traducibilità, rivela quanto questo tipo di applicazione non sia una forzatura interpretativa. Le traduzioni in italiano (sfera pubblica) e soprattutto in inglese (public sphere) hanno fortemente influenzato le sorti della teoria, determinandone la fortuna, ma anche influenzandone alcune critiche e richiedendo che venisse successivamente chiarita da Habermas stesso, così come da autori che si confrontano con le sue opere (Rassmussen, 1990; Privitera, 2001). Secondo le loro specificazioni, il termine utilizzato non sarebbe dunque da tradursi come sfera pubblica, piuttosto come “pubblicità”, ponendo l’accento su una accezione del pubblico come processuale, dinamica, aperta e non più prestarsi ad essere immaginato e rappresentato come un campo chiuso, circoscritto.

In aggiunta a ciò, nella ricostruzione dei momenti di emersione di una sfera pubblica borghese, nel testo vengono accostati ai processi comunicativi esempi di luoghi specifici, quali i caffè settecenteschi, le redazioni dei giornali, i teatri e le sale da musica. Essi, oltre ad essere scenario della nascita di una sfera pubblica, diventano essi stessi spazio pubblico, spazi leggibili attraverso gli stessi principi che caratterizzano la pubblicità. Lo spazio pubblico viene quindi definito come uno spazio nuovo, distaccato sia dallo spazio statuale dell’istituzione, sia dallo spazio privato e domestico, autonomo, costruito e pensato per essere utilizzato collettivamente e al di là degli interessi privati, luogo del confronto e del dibattito, in cui si regolamenta il vivere civile, rendendo il principio di razionalità un elemento costitutivo.

Nel momento in cui il “pubblico” è processo e non oggetto, esso acquisisce una duttilità interpretativa che permette, anche seguendo strade differenti rispetto a quelle dello stesso autore, di applicarlo in contesti differenti: le modalità con cui viene costruito e definito il pubblico nell’agire comunicativo possono essere applicate allo spazio geografico, senza stravolgerne l’applicazione (Goheen, 1998; Vecchio, 2011). Questo è quanto avviene, ad esempio, nella rilettura degli spazi pubblici britannici operata da Briggs (1968), nel tentativo di mettere in connessione processi di ristrutturazione urbana in epoca vittoriana, sviluppo economico e istituzioni di governo in una nascente politica dell’urban publics, ed è, allo stesso modo, alla base del lavoro di Berman (1983), il quale, pur non richiamando direttamente Habermas, ma rifacendosi a un dibattito più ampio, che da lui prende forme e norme, nell’individuare la libertà e l’accessibilità dei boulevards ottocenteschi di Parigi come spazio pubblico grazie all’anonimità che consente generalità ed eguaglianza.

Questa continuità che alcuni autori hanno mostrato nel passaggio da “sfera” a “spazio” pubblico non corrisponde, ovviamente, ad una adeguatezza analitica in ogni contesto: per quanto legittimo, lo strumento habermasiano è da mettere alla prova, come proveremo a fare, con i processi urbani nella loro dinamicità, complessità e ambiguità, cercando di comprendere quali spazi, quali pratiche e quali corpi rimangano esclusi dalle letture normative e definitorie fornite dall’approccio “classico”.

Nell’applicare questi elementi descrittivi alla comprensione dello spazio pubblico, gli autori che seguono (più o meno fedelmente) una prospettiva habermasiana hanno il merito di portare il dibattito oltre la dimensione dello statuto legale dello spazio (Khon, 2004). La pubblicità dello spazio non è determinata (o non esclusivamente) da un principio di proprietà, nel quale lo spazio pubblico è definito in contraddizione rispetto allo spazio privato: esso non contraddice la pubblicità ma la compenetra in una forma di complementarietà. Il contrario di pubblico diventa qui “segreto”. Per questo il criterio principale di definizione di spazio pubblico è l’accessibilità per tutti, che dovrebbe delinearsi sia in termini sostanziali, sia in termini procedurali: ogni cittadino deve contemporaneamente poter essere nello spazio pubblico e poterne determinare le caratteristiche e nel suo superamento dialettico dell’interesse personale. La contrapposizione con la segretezza, insieme all’accento posto alle procedure, rende inoltre indissolubile il rapporto tra pubblicità e visibilità (Brighenti, 2010a).

Inoltre, la teoria habermasiana, come già evidenziato, ha un carattere strettamente normativo: prescrive le caratteristiche della pubblicità e, per estensione, dello spazio pubblico e ne rende possibile la diagnosi per comparazione, in base alla vicinanza o lontananza tra l’analisi dello spazio e il modello normativo. In questo modo, il caffè letterario non è solo un luogo in cui ha avuto genesi la sfera pubblica borghese, ma esso diventa metafora di come gli spazi pubblici dovrebbero essere: questo aspetto fa sì che il caffè possa essere messo a contatto con altri luoghi che in modo differente entrano nella tradizione liberale sullo spazio, dal mercato al porto, dalla polis alla piazza. Ciò anche a costo di farne una descrizione eccessivamente metaforica: non solo non è forse utile uno schema normativo nella lettura dei processi urbani, ma anche l’esempio su cui è plasmato il concetto di spazio pubblico era storicamente, così come nella contemporaneità, più complesso e ambiguo di quanto rappresentato (Laurier e Philo, 2007).

IL PARKOUR E LO SPAZIO PUBBLICO
Il parkour (1) rientra a pieno titolo tra le cosiddette pratiche minute che hanno raccolto sempre maggiore interesse negli ultimi quindici anni dagli studiosi di processi urbani, delle quali è stata più volte riconosciuta la capacità di ricostruire uno spazio pubblico in un contesto in cui la città neoliberista si configura attraverso la sua erosione (Zukin, 1995) mettendo in atto, prima ancora di reclamare, forme di diritto alla città (Lefebvre, 1996; Dikec, 2002; Harvey, 2003; Crawford, 2011).

Il modo in cui vengono utilizzati e attraversati gli spot in cui la pratica ha luogo rimette in gioco nella quotidianità la definizione di spazio pubblico. Attraverso la realizzazione di questa disciplina (2), come vedremo, le caratteristiche di accessibilità, generalità e visibilità sono rilette, ricostruite e talvolta sovvertite.

L’intento è dunque, quello di mettere in mostra, in contrapposizione agli aspetti normativi e generalizzanti dell’approccio habermasiano, come possano emergere spazi pubblici attraverso forme di conflitto e di riappropriazione, a partire da atti di re-immaginazione, in grado di agire sugli usi, sulle estetiche e sulle etiche dello spazio urbano (Hristova e Czepczynski, 2017).

Questo contributo si immagina principalmente come un lavoro teorico, che però nasce dalla continua creazione di domande e di suggestioni provenienti dalle suggestioni del campo etnografico. In questo senso, la teoria classica sullo spazio pubblico sarà qui messa a dialogo con il materiale empirico della mia ricerca dottorale (3): un’etnografia cominciata nel aprile 2016, che ha coinvolto, per quanto riguarda la disciplina del parkour, traceur e traceuse che si allenano o si sono allenati a Padova, sia individualmente, sia facendo parte di un gruppo (in base ai casi, più o meno organizzato, dal gruppo informale all’associazione costituita e con “affiliazioni” a gruppi di altre città). Si tratta di ragazzi e ragazze (con un’ampia prevalenza dei primi sulle seconde), in una età compresa tra i 18 e i 30 anni, studenti universitari e/o giovani lavoratori, spesso precari. L’etnografia, che come ricordano Dal Lago e De Biasi (2014) è uno stile di analisi, e comprende al suo interno differenti metodi, dall’osservazione partecipante a forme di ricerca d’archivio e documentale cartacee e online, dalla produzione e analisi di materiale visuale ad interviste, metodi che vengono tenuti insieme dalla ricerca di interpretazioni e di descrizioni dei mondi sociali nel quale il ricercatore si immerge, intellettualmente e corporalmente.

TRACCIARE LO SPAZIO PUBBLICO
Il concetto di spazio pubblico è centrale nelle narrazioni e nelle significazioni della disciplina, e la dimensione spaziale della pratica è incardinata intorno ad esso: numerosi traceur e traceuse concepiscono la loro disciplina principalmente come qualcosa che deve essere performato per strada, nelle piazze, in luoghi non riservati e dedicati in modo esclusivo ad essa. Prima ancora di avere una definizione precisa, una scuola e una modalità di pensare l’attività, prima delle sue codificazioni, differenziazioni e istituzionalizzazioni, il parkour è infatti un modo di attraversare lo spazio vissuto quotidianamente in modi inattesi e imprevisti. L’innovatività attraverso la quale lo spazio viene riletto e reinterpretato trae, nella prospettiva dei praticanti, legittimità proprio dalla realizzazione negli spazi pubblici della città, radicati nelle loro pratiche minute, così come nelle narrazioni e nelle costruzioni di senso: 

Al di là di tutti questi discorsi sulla disciplina, alla fine quello che facciamo è capire che lo spazio pubblico è pubblico per intero, non si limita a quei sentieri tra vetrine e automobili che tutti percorrono. (Intervista ad Andrea, traceur

Lo spazio pubblico, declinato in una dimensione che usualmente è squisitamente urbana, insieme al corpo in movimento, diventa elemento costitutivo della pratica, mito fondativo sottostante ogni definizione e accezione della disciplina.

In particolare, nell’estratto, riferendosi alle vetrine e alle automobili, assunte a simbolo dei processi di commercializzazione e privatizzazione dello spazio urbano e della sua mobilità, il parkour è presentato come un modo “tattico” (de Certeau, 1980) di muoversi, capace di segnare percorsi e modi d’uso alternativi rispetto a quelli previsti dalle architetture e dalle politiche.

I modi in cui uno spazio viene definito pubblico sono particolarmente interessanti: i praticanti non sono particolarmente interessati dalla definizione legale (anche se, nella loro attività, mostrano di essere ben preparati a riguardo, in modo da avere strumenti per “difendersi” dalle critiche e dagli interventi di controllori).

Piuttosto, adottando una prospettiva che ben dialoga con le scienze sociali e con la geografia, il loro interesse riguarda la pubblicità come caratteristiche di apertura e di accessibilità allo spazio. Al tempo stesso, questi elementi vengono messi alla prova nelle loro attività, nel tentativo di ampliarli oltre gli usi abituali.

La legittimità della pratica viene connessa alla pubblicità dello spazio richiama, ancorandosi anche a un uso di senso comune del termine, a un principio di accessibilità non così diverso da quello delle tradizioni filosofiche habermasiane. Il traceur sembra voler dire: se lo spazio è pubblico, allora deve essere accessibile per intero e per ogni scopo, non limitatamente all’interesse privato e specifico. Al tempo stesso, questa accessibilità del pubblico non è declinata in maniera generica e universale, ma è rivendicata come capacità specifica, costruita attraverso la pratica: [attraverso il parkour] per ogni situazione c’è una soluzione, questa è una delle cose che mi è piaciuta di più, sapere che per ogni cosa c’è una via di uscita e la si può trovare in modo relativamente rapida e indolore e questo anche in situazioni difficili. […] Anche banalmente, sentire come ti muovi tra la folla: quando ho iniziato ad allenarmi ricordo che sentivo una differenza su come mi muovevo, sul mio riflesso… Anche a Venezia, con l’acqua alta, ci sono dei momenti in cui a me bastava appendermi, fare due passi di lato su una muretta e la cosa diventa immediatamente meno tragica, mentre l’amica lì vicino [dice] “oddio mio, come faccio…”. Ci sono delle piccole cose che inizi a vedere, ti si apre una finestrella sullo spazio e sulla città in maniera molto simpatica e giocosa… (Intervista a Elena, traceuse) Tracciando i percorsi, scoprendo sentieri nell’arredo urbano, il traceur non si limita a utilizzare uno spazio esistente in sé e accessibile a tutti, ma lo amplia e lo estende immaginando e creando percorsi che diventano esistenti e percorribili anche per gli altri. Attraverso il movimento dei corpi si passa da un sito materiale a uno spazio percorribile, al tempo stesso reale ed immaginato (Soja, 1996). L’accesso allo spazio pubblico di cui parla il traceur è dunque creato e mantenuto quotidianamente attraverso la pratica, il che fa sì che le procedure per averne accesso e poterne disporre e modificare siano tutt’altro che generali, bensì profondamente situate nella specificità del contesto e incorporate dalle pratiche che ne sono alla base.

Claudio interrompe allora il suo allenamento, in modo di spiegarmi meglio questo punto della nostra conversazione. “Lo spazio che usiamo – dice – è prima di tutto lo spazio nei nostri occhi. Perché non ce n’è, le cose uguali sono differenti: un salto di un metro e mezzo sai farlo, senza problemi. No? Ok. Se però in quel metro e mezzo c’è un’aiuola con il prato, oppure dell’asfalto, oppure un dislivello di un metro, oppure un vuoto di 5… Cambia quel metro e mezzo? Vieni qua a vedere […]. Dal muretto non interessa quello che misuri con il metro, o coi passi. Interessa quello che vedi e la “strizza” [la paura] che provi nel fare un esercizio o nel rifiutarlo. Ti alleni per cambiare il modo di guardare, di contare, di capire come muoverti. Quello che è approssimativo diventa preciso”. (Nota etnografica)

La pubblicità dello spazio viene messa in evidenza, costruita ed accresciuta attraverso la pratica, il che comporta non solo una processualità nel rendere pubblico lo spazio, ma anche una connessione forte con saperi e conoscenze che si manifestano in abilità, expertise e qualità che riguardano discipline dei corpi e delle attività situate, inserite in contesti spaziali specifici. Il lavoro di costruzione dello spazio non è dunque da concepirsi come una costruzione discorsiva interpersonale e razionale: essa passa attraverso la capacità muscolare, la preparazione atletica, la capacità di valutare gli spazi e i movimenti, la propriocezione e il bilanciamento del corpo, elementi attraverso i quali viene costruita una possibilità di appropriazione ed immaginazione dello spazio. I corpi in movimento sono centrali nella ridefinizione e nel potenziamento della pubblicità dello spazio: in essi è creata la relazione con lo spazio, il loro modo di attraversarlo fa sì che vengano performate domande riguardo a chi appartenga lo spazio pubblico, chi può essere visibile al suo interno, quali sono i desideri e le possibilità che possono aver luogo: lo spazio pubblico diventa così corporeo, praticato e appassionato (Castelli, 2016).

È solo attraverso la pratica che viene data forma alla possibilità di accesso allo spazio pubblico: attraverso i corpi in movimento e in relazione lo spazio si apre, si modifica, cambia le opportunità e le sfide che presenta. Nell’attraversarlo individualmente e collettivamente i traceur e le traceuse cercano di individuare come meglio poter stare in quel posto, quali opportunità offre, come giocare all’interno e come superarne le restrizioni. Attraverso il loro sguardo e il loro contatto lo spazio diventa sempre più conosciuto e comprensibile man mano che loro avanzano nelle loro abilità. I percorsi diventano così non solo quelli segnalati e individuati, ma si moltiplicano e si applicano anche a quelli che diventano leggibili solo attraverso la pratica e attraverso una immaginazione dello spazio pubblico che superi i limiti dell’uso “normale” (e normato).

Attraverso lo spazio, insomma, si dipana una dimensione costruita e processuale dell’apertura e della pubblicità di una piazza, di una strada, di un giardino. Nuovi spazi si aprono, a patto che si sia in grado di raggiungerli: con lo sguardo, nella concezione e nel disvelamento delle loro possibilità, e con le braccia e le gambe, attraverso le abilità che permettono di realizzare l’intuizione e di attraversare lo spazio fisicamente nel modo pensato.

Lo spazio diventa quindi pubblico in quanto attraverso la pratica diventa “leggibile” ed in quanto tale, nel suo essere letto, diventa comunicabile. Considerati gli elementi di riappropriazione e nella sua capacità di interrogare gli usi progettati dello spazio, la comunicazione degli spot non può però essere lineare e aperta indistintamente, ma è organizzata secondo soglie di apertura basate sulla competenza, e al tempo stesso su meccanismi di fiducia e di controllo:

M: Qualcuno si allena fuori oggi?
[…] [quando, dove?] M: 16.00, trib!
S: ok! Vicino alla fiera, right?
A: non è il tribunale!
S: ah. E allora?
M: pvt
(conversazione su Facebook, in un gruppo chiuso)

In questo breve estratto, ad esempio, si vede come, anche in un gruppo sui social network, al quale si può avere accesso solo dopo che la propria richiesta è stata accettata da un amministratore, lo spot in cui si alleneranno non viene divulgato nel suo indirizzo, ma l’informazione viene data per via riservata, attraverso un messaggio personale (e privato, come indica con “pvt”). Al tempo stesso, chiunque, ad eccezione del novizio della conversazione, ha presente dove si troveranno: il Trib è a Padova uno degli spot più frequentati e più importanti, che permette allenamenti particolarmente stimolanti, e intorno al quale ogni traceur ha almeno una storia da poter raccontare, un episodio che lo lega a quel posto. A non essere comunicata, dunque, non è l’informazione in sé di dove i traceur si troveranno: ad essere negata è la mappabilità del loro spot, la possibilità indistinta di cercare e di trovare il luogo del loro allenamento.

Evitare che chiunque possa leggere l’indicazione di dove trovare uno spot di allenamento frequentato è solo una delle modalità quotidiane con cui viene controllata la capacità di leggere la pubblicità dello spazio, ed è esemplificativo di una attenzione a gestire la propria visibilità che si può ritrovare anche nelle pratiche “in strada”:

Mentre sta allenandosi vicino all’ingresso del parcheggio, Mattia si ferma: ha visto una macchina della vigilanza privata che si sta avvicinando. Mentre guida, la guardia passa molto lentamente, guardando fisso nella nostra direzione. Mattia ne approfitta per bere un sorso d’acqua, apparentemente disinteressandosi, nonostante con la coda dell’occhio non perda mai la volante. «Vediamo cosa fa», mi dice a bassa voce. «Non ci sono mai stati problemi con loro, ma vediamo cosa fa». […] una volta che [il vigilante] ha svoltato l’angolo, Tia tira un sospiro di sollievo, per poi spostarsi in un altro spot, e riprendere ad allenarsi. (Nota etnografica)

Quanto è in gioco in questo caso è il principio di generalità: la possibilità che ogni soggetto possa accedere, senza alcuna distinzione o criterio di selezione e di fiducia allo spazio pubblico che viene ricostruito e ridefinito è qui messa in discussione.

Essa prevedrebbe un fondamento in un criterio di trasparenza, basato su operazioni di calcolo, categorizzazione, aggregazione, standardizzazione che rendono gli spazi come immediatamente accessibili, chiari e leggibili (Scott, 1998) facendo sì che siano soggetti a epistemologie della polizia e dell’ordine pubblico (Foucault, 1978). Questi aspetti, forse auspicabili in alcuni contesti, mal si applicano agli spazi del parkour e delle micro-pratiche che si caratterizzano per riappropriazione dello spazio pubblico attraverso il loro agire nella quotidianità.

La costruzione di una pubblicità dello spazio alternativa alle strategie di controllo, che si basi su usi “eccedenti” della funzionalità, deve differenziarsi, mostrandosi e, al tempo stesso, nascondendosi. Lo spazio pubblico attraversato dai traceur si delinea, nel continuo creare e celare l’accessibilità, mostrando opportunità di utilizzo e di sovversione delle routine e nascondendole alle forme di controllo, sia specifiche dell’ordine pubblico, sia di sguardi non qualificati e non autorizzati.

È sulla gestione del segreto che permette lo sviluppo delle forme dal margine, che rifiutano la centralità delle politiche e delle progettazioni urbanistiche, ma approfittano dei loro vuoti e delle loro mancante giustapposizioni. Per segreto si intende qui, come abbiamo visto la capacità di non essere divulgati fuori in maniera incontrollata e spettacolarizzata, ma a questo non può fermarsi la nostra analisi: la capacità di re-inventare lo spazio pubblico non prevede un segreto in senso stretto, in quanto non si limita al gruppo di traceur e traceuse, ma si estende, in modi differenti, ad altre pratiche, altre attività e altri attraversamenti dello spazio.

In sintesi, nelle pratiche realizzate nello svolgersi del parkour, lo spazio non solo è pubblico (e ripubblicizzato), ma è segretamente pubblico (Taussig, 1999): tale espressione, paradossale per una concettualizzazione classica del pubblico, permette di comprendere le pratiche marginali e le riappropriazioni tattiche dei siti in cui si realizzano. Queste avvengono nel momento stesso in cui i praticanti riconsiderano la pubblicità non nei processi di generabilità e negli sforzi di trasparenza, ma piuttosto attraverso l’uso del suo contrario definitorio, in processi che trovano la loro vitalità, efficacia e comunicabilità nella opacità (Dean, 2001). In questo modo, nel parkour si cerca di risignificare i propri spot sottraendosi al funzionamento dei dispositivi sociali e tecnologici che producono, congiuntamente, controllo e spettacolo (Foucault, 1975; Debord, 1967).

TERRITORIOLOGIA DEL SEGRETAMENTE PUBBLICO
Il parkour è stato qui preso come un esempio che permette di individuare formazioni di spazio pubblico alternative a quelle pianificate e normate, e come laboratorio per leggere le pratiche che attraversano l’urbano e costituiscono i suoi processi di scomposizione e ricomposizione: in questo, gli usi molteplici e coesistenti dello spazio e la proliferazione e localizzazione di contesti di espressione culturale e politica producono significati e temporalità differenti e talvolta inconciliabili. In questi aspetti, lo spazio attraversato dal parkour si configura in quanto soglia, dai confini non chiari e definibili, una zona che contempla e costruisce interno ed esterno, ma senza escluderli dicotomicamente (Ponzi e Gentili, 2012). La produzione della pubblicità avviene così fuori dal piano normativo e fuori dalla trasparenza procedurale, ma è elemento sospeso tra teoria e pratica, tra territorio e rappresentazione, tra immaginato e materiale (Giaccaria e Minca, 2012).

La pratica etnografica apre, grazie alla sua capacità di essere dentro e vicino ai processi avviati nelle pratiche minute ed effimere, delle fratture rispetto alle grandi teorizzazioni classiche e liberali dello spazio pubblico, evidenziando come le pratiche situate incontrino la storia, il tempo e le relazioni di potere (Soja, 1996). Per quanto essa si riveli raffinata e potente strumento per la lettura dell’agire comunicativo anche nei suoi sviluppi nella vita urbana, la teoria habermasiana non risulta adeguata a leggere forme di spazio pubblico costruite “on the ground” attraverso pratiche marginali o quotidiane. In particolare, prendendo ad esempio e riferimento spazi (quali i caffè, la piazza rinascimentale…), che costituiscono più idealtipi che spazi reali, la pubblicità di questa tradizione filosofica, al tempo stesso, si considera troppo astratta (Sheller e Urry, 2000) e troppo romanticizzata (Koch e Latham, 2011) per essere utilizzata nell’interpretazione e nella costruzione di senso sulla moltitudine di attività che contemporaneamente costituiscono la tessitura della città: la sua dimensione normativa cede il passo di fronte all’assemblaggio di formale e informale che si sviluppa nell’indeterminatezza dei processi urbani (Dovey, 2011; Sendra, 2015), continuamente emergenti, indeterminati e in divenire nella loro socio-materialità (McFarlane, 2011).

Lo spazio urbano è, infatti, quasi per definizione, lo spazio della prossimità spaziale (Young, 1990) e trae la sua vitalità nella pluralità delle esperienze, che ne fanno luogo della negoziazione e del conflitto (Loda e Hinz, 2011), ben lontano dalle pretese normative e generalizzanti, che sono piuttosto fondati sulla specificità dello spazio pubblico borghese ed europeo (Mitchell, 1995; Marne, 2001).

Quella di tradizione habermasiana è proposta normativa più che descrittiva, in grado di delineare dei criteri di valutazione della pubblicità su un confronto ideale che, però, poco si adatta ai mutamenti, alle evoluzioni e anche alle ambiguità di forme emergenti di spazio pubblico: in un ragionamento lineare ed evolutivo, si procede verso una maggiore pubblicità o si regredisce verso forme di re-feudalizzazione, e non sono ammesse le molteplici forme attraverso le quali il pubblico possa evolversi, ad esempio frammentandosi e spettacolarizzandosi (McKee, 2005).

Questi processi possono essere più proficuamente studiati attraverso la ricostruzione dei differenti attori che attuano con le loro pratiche una pubblicizzazione di uno spazio splintered (Rahola, 2014), rendendolo visibile a determinati pubblici e nascondendolo ad altri, attraverso la costruzione e rimozione di soglie, confini e sconfinamenti, attivando dispositivi, materiali e tecnologici così come discorsivi ed estetici.

Viene in questo modo a costruirsi una territoriologia (Brighenti, 2010b) del pubblico, che permette di studiare il territorio come una pratica e un atto che crea, sul supporto spaziale e materiale, ed in diretta relazione con esso, permette di ricostruire i modi in cui confini, definizioni e caratteristiche dell’urbano sono definite. I territori permettono di leggere la dimensione spaziale, e la pubblicità dello spazio pubblico è in questo centrale, nella costante tensione tra, da un lato, procedure di ordine, consenso ed egemonia e, dall’altro, l’irreducibile pluralità di ogni territorio (Brighenti, 2010b, p. 53).

I territori sono dunque, con le parole di Sassen (2006), assemblaggi, in cui norme, condotte, controlli e resistenze, permettano che nello stesso spazio, ci siano più spazi pubblici, tanti quanti sono i contesti che in esso si creano: lo spazio pubblico viene allora letto come costellazione interstiziale (Lévesque, 2009) fatta di siti discontinui, sviluppato tra faglie e interstizi che differiscono per legittimità, usi, temporalità, criteri di accesso.

Una territoriologia dello spazio pubblico è così un tentativo di prendere in forte considerazione le formazioni sociali dello spazio, considerando questo come un territorio in cui pratiche compresenti si contendono la legittimità, ed il riconoscersi come “pubblico” non come un elemento dato, caratteristica dello spazio, ma come una risorsa da mobilitare, nell’affermazione di un uso e di una definizione della località.

Lo spazio pubblico del parkour, così come di molte altre pratiche che attraversano lo spazio in modo tattico, è pubblico nel momento stesso in cui rimane come una zona di “mutamento, passaggio, straripamento” (Benjamin, 2000), Parlare di spazi “segretamente pubblici” del parkour permette da un lato il riconoscimento di processi quotidiani di costruzione dello spazio conflittuale e resistenziale piuttosto che partecipato e deliberato (Mitchell, 2003), dall’altro consente una ricostruzione non cartesiana del concetto di spazio pubblico: questo prevede di rimettere in discussione una rappresentazione razionalista dei processi urbani, riconoscendone le dimensioni immateriali e discorsive, che fanno sì che a fianco al pubblico come campo politico di legittimazione e di appropriazione si costituisca, attraverso pratiche corporee ed emotive, anche una “atmosfera di pubblicità” (Anderson, 2009), che generi spazialmente un territorio di affettività (Brighenti, 2010a); al tempo stesso, la produzione cartesiana dello spazio pubblico, per definizione isotopico, uniforme e cartografico, produttore di regimi scopici di leggibilità (Jay, 1996) lascia il posto, in questa interpretazione territoriologica, a una ricostruzione dei differenti modi di intendere, abilitare e mobilitare lo spazio pubblico, che rappresentano spazi delle soglie e modi spaziale di vedersi alternativi e a volte inconciliabili, che hanno luogo nella gestione dell’invisibilità più che nella richiesta di essere al centro di una visibilità, rivolgendosi a pubblici specifici e differenziati piuttosto che a un pubblico generale e univoco (Iveson, 2007).

 

Note nel testo

(1) Il parkour è una disciplina metropolitana consistente nel tracciare percorsi (in francese, parcours) non convenzionali da un punto all’altro della città, nel modo al tempo stesso più efficace, sicuro e creativo. Il parkour nasce in Francia agli inizi degli anni ’90, e diffusosi poi in maniera translocale durante il decennio successivo. Sviluppata come disciplina che si svolge in contesti non specificatamente dedicati, con l’idea di trovare soluzioni alternative nello spostarsi e nell’usare ambienti urbani, negli anni ha avuto trasformazioni che hanno portato anche a percorsi di istituzionalizzazione e spettacolarizzazione, sospesi tra legittimazione e normalizzazione. Rimane comunque forte la dimensione “di strada”, ed è su questa che si focalizza il materiale presentato nell’articolo. La disciplina, nel tempo, si è differenziata in diversi approcci e definizioni della pratica, in particolare rispetto agli elementi che ne caratterizzano i concetti di efficacia e di spettacolarità, differenziazioni che hanno portato anche all’emergere di “etichette” differenti, quali art du deplacement e freerunning. In questo articolo, non avendo modo di indagare questa frattura, si utilizzerò il termine parkour come ombrello in grado di raccogliere le differenti prospettive. Per indicare i praticanti del parkour si userà il termine francese di traceurs o, al femminile, traceuses.

(2) Non è qui possibile ricostruire uno stato dell’arte esaustivo delle ricerche che si sono occupate di questa disciplina, che ha ricevuto soprattutto negli ultimi dieci anni un diffuso interesse: ci si limiterà a segnalare come questi lavori abbiano messo in evidenza la centralità del rapporto tra la disciplina e lo spazio urbano, in termini di ricostruzione materiale e simbolica, di riappropriazione e di sovversione: tra questi autori, in un elenco che non può essere esclusivo, si invita in particolare a rileggere Bavinton (2007), Fuggle (2008), Mould (2009), Atkinson (2009), Higgins (2009), Ameel e Tani (2012), Guss (2011), Kidder (2012), Daskalaki e Mould (2013). Per uno sguardo più ampio, indagando contesti urbani post-comunisti, si segnala in particolare il lavoro di Geertman et al. (2016). Numerose anche le ricerche sul parkour in Italia: tra queste si ricordano in particolare Stagi (2015), Benasso (2015), Genova (2016), Sterchele e Ferrero Camoletto (2017), De Martini Ugolotti (2015).

(3) Il lavoro di tesi di dottorato in scienze sociali a cui si fa riferimento, ancora in fase di svolgimento, intende partire da pratiche ludiche, espressive e artistiche, per comprendere i conflitti sull’uso dello spazio conteso nella quotidianità evidenziando il ruolo centrale della corporalità e dei discorsi sul corpo in pubblico. Oltre al parkour, protagonista di questo contributo, sono prese in considerazione anche altre due attività, quali lo slacklining e le arti di strada.

 

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