Seminario Lineamenti – Azioni e Visioni – Pina Nuzzo: donna, femminista, artista

18 Dicembre 2015, IAPh Italia

Donna, femminista e artista

Pina Nuzzo

 

 Sul mio blog https://pinanuzzo.wordpress.com/ e sulla pagina Fb ho scritto: “Ho due passioni: l’arte e la politica. Spesso si intrecciano e si attraggono, a volte si respingono per reciproca tutela”. Forse dovrei essere più precisa e dire per quanto riguarda l’arte: non posso fare a meno di dipingere, è una necessità. E per quanto riguarda la politica: ho necessità del rapporto con le donne, senza mi perdo.

 Non è stato sempre così, non ho avuto sempre questa chiarezza. Ci sono arrivata per approssimazione, ci sono state pause, accelerazioni, passaggi in cui è stato fondamentale il confronto con altre donne. E non sono state artiste, come si potrebbe pensare, ma donne con cui facevo politica, da loro mi sono venute le domande che mi hanno permesso di pensarmi artista, non solo di dipingere.

Forse proprio per questo Marisa Forcina mi ha chiesto un contributo sulle relazioni nell’arte per la scuola della differenza di quest’anno. Già nel 2003, in quella stessa scuola, sempre sollecitata da lei, ho raccontato i passaggi che mi hanno permesso di dire: io sono un’artista.

 

Quando ho incontrato l’Udi

“Tanti anni fa, ormai, quando ho incontrato l’Udi, non sapevo che stavo facendo un investimento vantaggioso per la mia arte Mi sembrava, più semplicemente, di seguire lo spirito del tempo e le inquietudini della mia generazione partecipando di quell’evento straordinario che è stato il femminismo. […] Non era bastata la naturale predisposizione, né un corso all’accademia a fare di me una pittrice. Ho avuto bisogno di un contesto in cui pensarmi, di uno spazio e di un tempo che potessi governare. Quello che l’artista vede, la visione, non nasce dalla sua genialità ma dalla sua partecipazione, dal suo fare parte di una socialità che prevede o addirittura esige che egli si esprima. La qualità del suo lavoro, il giudizio sulle sue opere è un problema diverso e successivo: l’essenziale è potersi definire artista. La socialità femminile non ha ancora messo in conto la necessità di avere nel mondo un segno femminile autonomo. E tuttavia le donne sono diventate simbolicamente le mie committenti. Le mie sostenitrici e nei fatti le mie acquirenti.” (Arte e politica, dalla singolarità alla comunità https://pinanuzzo.wordpress.com/scritti/miei-scritti/arte-e-politica-dalla-singolarita-alla-comunita/)

Le relazioni politiche mi hanno offerto tante occasioni, ciascuna meriterebbe un discorso a parte, mi soffermo su un’iniziativa promossa dalla rivista Dwf presso la Sala Mozzoni di Roma nel 1988, il mio segno il mio luogo, conversazione con le artiste: Elena Montessori, Cloti Ricciardi, Marilù Eustachio, Giovanna De Santis e io. Nell’introdurre Vania Chiurlotto chiede a tutte noi: attraverso quali processi una donna si assume la responsabilità di definirsi artista? Una donna che assume la titolarità di artista pone in modo forte la propria soggettività in un mondo che non la prevede: il legame con il proprio sesso costituisce un referente significativo, oppure deve considerarsi inessenziale rispetto al proprio porsi di artista?

Domande che mi lasciarono senza fiato; rispondere voleva dire nominare il senso che ha la pittura per me che sono una donna. Ho continuato a rispondere a quelle domande negli anni, ma in quell’occasione fu particolarmente difficile perché nella sala erano esposti i miei quadri. E c’erano donne il cui giudizio contava molto per me: Elena Gentili e Simonetta Spinelli, Cloti Ricciardi, artista già affermata, la stessa Vania. Conservo le cassette di quell’incontro che non ho mai ascoltato. (prima o poi lo farò).

Qualche tempo fa ho trovato un’intervista del 2007 fatta da Valeria Trigo a Cloti che riassume lo spirito del tempo.

Valeria: “Nel suo lavoro, arte e femminismo sono legati a doppio filo. Come è nato questo connubio?”

Cloti: “Quando ho iniziato, avevo uno studio a via della Stelletta, vicino a quello di Mario Ceroli. Lì ho conosciuto Renato Mambor, Cesare Tacchi, tutti artisti straordinari, ma frequentandoli mi sono accorta che funzionavano solo tra di loro.”

Valeria: “È così che ha scoperto il femminismo?”

Cloti: “Sì, proprio quando mi rendevo conto che nell’arte le donne erano una minoranza anomala, un’amica che viveva a Londra iniziava a parlarmi del movimento. Subito mi sono interessata e, se ci penso, il femminismo è stata la più bella opera d’arte in assoluto del secolo scorso. Ha anticipato tante forme e ha ridato a noi donne la gioia di sorridere».

L’affermazione il femminismo è stata la più bella opera d’arte in assoluto del secolo scorso” è vera, soprattutto se si guarda al femminismo con gli occhi di oggi, allora non ce ne rendevamo conto, almeno non tutte. Sapevo però che il vincolo stabilito con altre donne aveva introdotto nella mia vita una frattura che non si sarebbe più ricomposta nei confronti delle ritualità familiari e parentali. Questo ha modificato la percezione che avevo di me e del mio corpo. Non galleggiavo più nel vuoto, avevo uno spazio dove raccontarmi; nell’Udi, ma più complessivamente nei luoghi del femminismo, ho imparato che pensare e prendere la parola non sono necessariamente collegati alla cultura scolastica, ma alla propria esperienza.

 

Quando ho incontrato il pensiero della differenza

 Nel 1987 la libreria delle donne di Milano pubblica “non credere di avere dei diritti“ http://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/non-credere-di-avere-dei-diritti/ con un effetto dirompente per la politica delle donne. Per tante di noi si apre un periodo fatto di viaggi e di spostamenti, in tutti i sensi. Ho attraversato l’Italia più volte per andare nei luoghi deputati in cui le esponenti più autorevoli del pensiero della differenza sessuale tenevano incontri e seminari: lì capitava di incontrarsi, di commentare i testi che andavamo studiando avidamente e di appassionarsi a quella lettura del mondo e dei rapporti tra donne. Penso alla genealogia, alla disparità, all’autorità femminile, all’affidamento, alla relazione duale, alla madre simbolica … che ci facevano decodificare in modo diverso la storia e i rapporti che avevamo alle spalle, ma anche quelli che stavamo vivendo. Non posso qui soffermarmi sullo sconvolgimento che questa specie di nomadismo ha comportato: certo insieme all’arricchimento ha avuto come conseguenza l’esplicitazione di molti conflitti.

Per la mia arte fu, invece, rivelatore un libro di Luisa Muraro, pubblicato nel 1985, letto sull’onda del dibattito in corso: Guglielma e Maifreda, storia di un’eresia femminista, in cui si racconta “la nascita di una comunità religiosa di uomini e donne, popolani, borghesi, mercanti e aristocratici, riuniti attorno alla figura di Guglielma, attiva a Milano nella seconda metà del duecento e sepolta a Chiaravalle come una santa. La comunità prosperò poi sotto la guida di Maifreda da Pirovano, ma terminò con un processo dell’Inquisizione e roghi accesi in Piazza della Vetra”.

http://www.libreriadelledonne.it/wp-content/uploads/2015/01/Guglielma_e_Maifreda_Luisa_Muraro.pdf

Rimango folgorata dalla storia e dalla presenza di una terza donna: Adelina Crimella. Sento l’urgenza di scrivere, ho bisogno di fermare il pensiero.

 “La scrittura di Luisa Muraro mi ha consentito di cogliere, attraverso la passione di Guglielma e Maifreda nel significare in modo emblematico il proprio sesso, la sua passione e quindi di situare nel libro il luogo di origine di alcune parole chiave. In Guglielma «mente e corpo di donna» che sa e si sceglie, e in Maifreda che sceglie di sapere attraverso l’altra ho trovato il principio. Guglielma e Maifreda sono la relazione.

Adelina Crimella è lo sguardo che la nomina e la rappresenta.

La donna, seguace della suora e della religione di entrambe, nel riferire all’inquisitore parole importanti che Maifreda ha pronunciato durante un pranzo ai fedeli guglielmiti, non può fare a meno di descrivere il suo atteggiamento: «sedendo su un letto, rovesciò le maniche della tunica e le sollevò fino al gomito e dopo essersi aggiustata le vesti con cura, disse ai presenti con grande spirito e in modo che tutti potessero udire… ». Ecco il gesto, quello che ferma il tempo, definisce lo spazio e diventa rappresentazione. Adelina, che ascolta e osserva, conosce il cerimoniale del corpo di Maifreda, ne riconosce la sacralità e sa nominarla. Dal suo sguardo nasce un rituale che si sostanzia della consapevolezza di Maifreda di avere un corpo di donna, che esprime con suoi gesti e sue forme la compostezza di cui necessita per mostrarsi.

Io che dipingo, attraverso lo sguardo di una donna su un’altra, ho saputo, a mia volta, dove guardare. La scrittura mi ha indicato un punto di vista”.

(TRA/ME https://pinanuzzo.wordpress.com/scritti/miei-scritti/trame/)

Il libro risuona in me perché in quel periodo frequento un gruppo chiuso, di affinità, si chiamava Cipango, dove avevo cominciato a riflettere con alcune sul significato dei gesti tra donne e la loro rappresentazione nella pittura. Capisco che per modificare le regole della rappresentazione nell’arte non basta la singola donna, con il suo parziale valore e la sua parziale potenza, ma lo scambio, il passaggio da un corpo ad un corpo che si conosce, che si riconosce simile.

 Invio il mio scritto all’Associazione Sofonisba Anguissola di Bologna che lo pubblica su Percorsi di navigazione 2 – Le cose che accadono – 1990, rivista a cui collabora anche la Galleria delle Donne di Torino. Conosco così Milly Toja, artista e regista, Donatella Franchi artista e scrittrice. Ogni incontro ne genera altri. Accedo a luoghi dove espongo in mostre personali e collettive: la Biblioteca delle donne di Ancona, la Merlettaia di Foggia. Partecipo a nuove esperienze come la Comunità Mediterranea avviata con Maria Grazia Napolitano, Pia Marcolivio, Katia Ricci critica dell’arte e con un gruppo di donne di Pescara, tra cui la pittrice Helvia Gianantoni. Insieme a lei e alcune altre organizziamo una mostra a Pescara.

Nel 1997 il Circolo la Rosa di Verona mi regala l’esaltante esperienza del Decumano secondo Veronamerica https://pinanuzzo.wordpress.com/mostre/veronaamerica-1997/

“Vie, cortili, piazzole, gallerie, nicchie accoglienti si aprono sul Decumano Secondo per offrire un saggio sulle novità d’arte contemporanea con pittrici e scultrici veronesi e italiane e, per la prima volta il Gruppo Gorilla Girls che mette in braccio alla Vergine Maria un fantoccio d’umanità.”

 

Sintonia

A questo punto della mia vita la ricerca politica comincia ad andare di pari passo con quella artistica. Sono sempre nell’Udi che ha già azzerato la sua organizzazione per liberare l’Associazione da una struttura conformata su modelli maschili. Mi spendo nella sperimentazione di nuove forme politiche.

Il pensiero della differenza è diventato una sorta di spartiacque nei rapporti, a prescindere dalle pratiche e dalle storie personali e amicali. Quel pensiero ha contagiato anche la mia ricerca, ma ne ho avvertito anche i limiti. Uno era il carattere totalizzante, in contraddizione con la conquista di soggettività faticosamente raggiunta attraverso il percorso che stavo facendo nell’Udi, l’altro l’espulsione del corpo.

Era già il tempo del rifiuto degli stereotipi, delle figure sociali proprie dell’ordine patriarcale, che non a caso avevamo combattuto (un esempio per tutti le parole che avevamo gridato nei cortei “non più puttane non più madonne, solo donne”).  Avevamo bisogno di dare un senso e una rappresentazione della nostra libertà e del corpo che essa produce.

Quel pensiero, riconducendo tutto all’ordine simbolico della madre, non si poneva la domanda e non mi dava risposte. Quell’interrogazione sul senso del corpo, inteso non soltanto come sessualità ma complessivamente come materialità e come rappresentazione di me stessa e del mio genere, non poteva per me essere risolta da uno spostamento simbolico che avveniva sul piano di un solo linguaggio: la parola, in presenza o scritta. Così come, d’altra parte, non poteva essere soddisfatta da una pratica, come quella dell’Udi, che poco si soffermava sul significato delle diverse forme politiche che veniva via via producendo, confinandole nell’organizzativo.

Sono sempre stata attenta al linguaggio delle immagini e del loro significato. Non solo perché le produco, ma perché, proprio la spregiudicatezza che mi è venuta dalla politica, mi ha fatto guardare alla produzione artistica, che è patriarcale nella sua essenza, e mi ha permesso di vederne tutta la potenza simbolica. Pensiamo a quanto la grande arte dei secoli passati abbia contribuito alla fondazione del potere religioso e di quello politico, a dare una rappresentazione dei rapporti sociali e di genere, alla quale nessuno e nessuna di noi si può sottrarre, sia che si tratti della Cappella Sistina che dell’ultimo dei santini di devozione. Pensiamo ai segni della sovranità, come anche ai simboli delle grandi formazioni politiche: dal Sole dell’avvenire all’icona di Che Guevara.

Niente è più soggettivo dell’arte, ma la soggettività dell’artista non potrà mai avere cittadinanza senza uno sfondo collettivo, un intreccio di relazioni e un investimento economico. Senza la consapevolezza della funzione dell’arte, le donne non avranno mai una padronanza del simbolico. Quello che dico non è così lontano dalla nostra esperienza comune: che cos’è la commozione che ci prende davanti ai vecchi manifesti, alle foto, ai filmati delle manifestazioni femministe con le loro invenzioni, se non la percezione che attraverso quelle immagini comunichiamo il senso di noi stesse e della nostra storia? cioè produciamo il simbolico di cui abbiamo bisogno?

Quando ho capito questo, ho anche capito che dovevo ripartire dalla mia storia politica, dalla sua parzialità e da lì, in quello spazio-tempo, cercare la mia rappresentazione. Per questo non ho mai pensato di smettere la mia attività politica e di dedicarmi solo alla pittura perché dipingere per me è una forma di conoscenza e non una professione. Anche se l’ho sempre fatto con professionalità. E che rinunciare alla politica vorrebbe dire non avere più una visione del genere femminile che vada più in là della mia storia personale. E questo sarebbe per me una sconfitta più grande che se facessi un brutto quadro.

Dal mio racconto è evidente che per esporre ho privilegiato i luoghi di donne, con dibattiti sulla problematica delle donne artiste; in questo modo ogni mostra è stata l’occasione per conoscermi meglio attraverso lo sguardo delle altre sui miei quadri, grazie alla libertà con cui si esprimevano. Le loro parole mi davano il coraggio di osare, di sperimentare in pittura.

Le donne sono diventate, insomma, quel riferimento che di solito, per un artista maschio, è rappresentato dal confronto con altri artisti. Tra donne artiste questo non è ancora possibile, perché prevale la paura di sentirsi sminuite e mentre per un uomo il giudizio di un altro uomo è normale, per una donna il giudizio di un’altra donna non solo è insufficiente ma può addirittura svilirla. Un’artista, quando riesce in un mondo di uomini, si sente unica, più unica di un uomo. Quel continuo rimando che gli artisti hanno messo in atto anche attraverso le diverse generazioni, e che ha prodotto arte, è sconosciuto alle donne che, anche quando emergono, sono fuori da questo scambio. Sono solo uniche e non costituiscono nessun riferimento per il proprio genere: un mondo di prototipi, senza genealogie.

 

Per concludere, la spregiudicatezza che ho messo in atto in questi anni visitando mostre, guardando cataloghi, esercitandomi nel giudizio a prescindere dalle convenzioni della critica, ha sedimentato un pensiero sull’arte che temevo fosse solo mio. Fino a quando non ho cominciato a trovare conferme negli scritti di studiose e critiche, italiane e straniere. Ma anche negli scritti di artiste che con grande tenacia ho rintracciato, scoprendo che queste donne ci hanno lasciato – oltre alle loro opere – testimonianza della solitudine che hanno patito e che è stata occultata come insignificante più ancora delle loro opere.

Queste ricerche mi hanno consentito di allargare il concetto di socialità femminile e di intravedere nella produzione artistica delle donne la possibilità del riconoscimento di un segno singolare che non lascia il proprio genere fuori della porta.

Non sto dicendo, ovviamente, che mi auguro un’arte femminista o che spero che ci siano artiste che producono opere con contenuti femministi, perché questo è la negazione dell’arte, a prescindere da chi la produce. Per questo spesso in Italia molte artiste fanno fatica a definirsi femministe, io invece non posso non pensarmi femminista e artista.

 Lo devo a me stessa e a una donna in particolare, lo devo alla Signora Cerfeda, come la chiama Marisa Forcina che di lei dice:

“Anche la signora Cerfeda, dipinge. Ma, come dicevo all’inizio, il suo rapporto con la pittura non è mai stato ludico. Dotata di una grandissima manualità, ha lavorato per anni in quei settori denominati comunemente lavori femminile e che ancora non hanno conosciuto lo statuto dell’arte. Ricamava il tulle. Dalle sue mani uscivano i preziosi veli per le donne che andavano in chiesa col capo coperto come usava sino agli anni 60, ricamati da lei erano i veli da sposa, le acconciature per le bambine che facevano la prima comunione. Chilometri di tulle da Galatina venivano inviati in tutta la Puglia e venduti soprattutto nella grande merceria di famiglia, ubicata sulla via principale del paese e gestita dalla cognata. Lei, però, rimaneva l’anonima e invisibile autrice, capace in un solo giorno di produrre tanto da poter accendere il fuoco e cucinare la verdura con i resti inservibili del tulle. Poi c’erano le scadenze di Pasqua, Natale e il primo aprile che introduceva la primavera, con il pesce d’aprile. Per conto della tipografia Mariano, un’antica casa editrice galatinese, la signora Cerfeda, rigorosamente a mano, dipingeva migliaia di cartoncini beneauguranti, che poi venivano distribuiti dalla stessa tipografia in tutte le cartolerie del Salento. Erano tutti diversi uno dall’altro e il tratto dell’acquerello si arricchiva con luccicante polvere d’argento creando magici effetti. Ricordo quando noi bambini li andavamo a comprare prima della festa e non sapevamo mai scegliere il più bello tra tanti, dai prezzi uguali ma con incanti diversi. Poi c’erano le coperte di seta dipinte con grandi e piccoli fiori, i copripiedi, i pettinatoi e i cuscini che la pittura della signora Cerfeda rendeva preziosi. Oggi ancora, come anni fa, non ne parla con orgoglio. Sa che tutto ciò che è prodotto per il consumo in questa società non ha valore, perché viene inesorabilmente metabolizzato e non lascia traccia di sé, Questo credo intenda dire quando certe volte ripete: non è servito a niente!

Sua figlia certamente la guardava, quella instancabile lavoratrice, che dell’arte e del dipingere nutriva la sua esistenza, la guardava e ne riconosceva il valore, ma intuiva anche che la società doveva fare lunghi passi prima che l’arte di una donna fosse universalmente riconosciuta e le fosse tributato il dovuto valore.

C’era da fare una rivoluzione politica perché tutto questo avvenisse. Pina ha intrapreso ormai da anni questa strada. Quando lei si definisce come una donna che fa politica non credo che voglia rendere visibile il suo lavoro e la sua presenza nell’Udi che è il luogo politico che lei frequenta, ma proprio questo suo personalissimo percorso che ha alle spalle e che la sostiene nel suo lavoro di pittrice alla ricerca di una cultura differente, per un mondo in cui vivere meglio e dove nessuna donna possa mai dire: non è servito a niente…

Molto lo deve a sua madre che le ha dato autorizzazione simbolica ad essere se stessa in questo non scontato percorso. La sua gratitudine e il suo gesto politico di figlia è riuscita a compierlo, ancora una volta, dipingendo: ha messo l’arte di sua madre in un suo quadro. Un quadro nel quadro. Bisognerebbe vederlo”.

(Marisa Forcina, sul dipingere di Pina Nuzzo https://pinanuzzo.wordpress.com/scritti/scritti-note-e-commenti/marisa-forcina-sul-dipingere-di-pina-nuzzo/ )