Alessia Perifano – Restituzioni a partire dagli incontri del seminario Lineamenti 2017

In poche occasioni si lascia la possibilità di riflettere su sé stessi, a prescindere dal sesso di appartenenza ma, con non poca soddisfazione, posso affermare di aver trovato un forte stimolo alla riflessione su me stessa e su molti fatti, eventi, recenti o remoti, che ho vissuto.

Personalmente non credo di avere l’esperienza necessaria per poter parlare di quanto la “questione femminile” sia presa in considerazioni dalle varie istituzioni, tuttavia, data la mia età e la recentissima esperienza all’interno del sistema scolastico, posso con certezza affermare che in nessun modo l’istituzione scolastica si sia mai preoccupata di affrontare questa questione, auspicando una presa di coscienza maggiore ed un maggior rispetto tra individui. È proprio a partire da queste constatazioni che posso parlare di uno dei più grandi meriti di questo laboratorio, ossia uno stimolo alla riflessione grazie alla presentazione di autrici, autori ed opere che hanno tematizzato alcune questioni sulla quali spesso non riflettiamo, come nel caso dell’incontro in cui una delle parole chiave era autocoscienza, termine nuovo per me, che mi ha permesso di comprendere che molte delle questioni sulle quali mi interrogo, spesso vanno discusse con un’alterità e non elaborate solamente in maniera autonoma. Altra caratteristica degna di lode è sicuramente la chiarezza e la semplicità con cui ogni argomento è stato trattato dalle ospiti, così da permettere anche a coloro che meno sono inserite in queste questioni (come la sottoscritta) di potersi sentire coinvolte, permettendo ad ognuna (ed ognuno) di esporre le proprie perplessità, rispondendo chiaramente e stimolando, spesso e volentieri, la nascita spontanea di dibattiti e confronti.

Ogni settimana ci è stato chiesto di produrre un elaborato contenente le nostre impressioni circa i singoli incontri, tuttavia per molti di questi ho preferito attendere poiché mi sono resa conto che l’elaborazione dei contenuti avveniva propriamente in seguito, durante quei momenti apparentemente “vuoti” che, in realtà, conducono i nostri pensieri e ci permettono di giungere a delle conclusioni precedentemente impensabili, e sono altresì convinta che, con il passare del tempo, riuscirò ad elaborare ulteriormente ciò che ho trascritto in questi elaborati.

Primo incontro, 3/03/2017

Incentrato sul trittico di parole: sesso, genere e relazione, il primo incontro di questo laboratorio credo abbia suscitato molteplici spunti di riflessione in quanto ritengo che molte persone si siano ritrovate nelle varie definizioni e chiarimenti, circa le parole-chiave trattate.

Il punto di vista che vorrei approfondire in questo primo elaborato è incentrato sulla questione del “sesso” inteso in un duplice significato: un’appartenenza ad un genere, determinato da alcune caratteristiche biologiche (limitante nella donna) e l’atto fisico che, a mio parere, ancora determina una posizione di subalternità della donna, rispetto all’uomo, nell’intimità di un rapporto; nella speranza, tuttavia, di ricollegarmi alle altre due parole trattate.

Andando in ordine, comincerei dal primo significato del termine “sesso”, rifacendomi alla risposta della Prof.ssa Giardini al mio intervento (che richiamava l’invettiva misogina del protagonista del libro “Sonata a Kreutzer”) riguardante la possibilità di una doppia liberazione: a seguito della tanto decantata liberazione della donna dall’insistente dipendenza dall’uomo dal punto di vista economico, fisico e, purtroppo, ancor oggi mentale, ve ne sarebbe un’ulteriore, questa volta dell’uomo stesso il quale, percepirebbe come una gabbia i gesti e le convenzioni che ancora oggi determinano la figura (stereotipata) del “perfetto gentiluomo”. Parliamo, in questo caso, dei gesti più banali (aprire la porta, pagare il conto, offrirsi di guidare, prendere l’iniziativa) i quali tuttavia, come spesso mi sono sentita ripetere, sono quelli che “fanno sentire una donna tale”. Nonostante la possibilità di riscatto di entrambi, non c’è, forse un richiamo di sottofondo ad un’interdipendenza da entrambi gli stereotipi?

È comune a molti individui preferire la cosiddetta “pappa pronta” al sudore ed alla fatica che bisognerebbe impiegare per guadagnarsela; dall’altra parte mi chiedo se agli stessi uomini non faccia comodo abbindolare per poi possedere, e se probabilmente non auspichino una liberazione dagli stereotipi di genere in quanto sono proprio questi a determinare il loro potere.

Veniamo ora, alla seconda e più breve riflessione sull’altro significato attribuito al termine “sesso” (Ovviamente nello specifico tratterò del rapporto eterosessuale in quanto è l’unico di cui ho avuto esperienza).

In una conversazione con un amico, mi è stato fatto notare che il rapporto sessuale tra un uomo ed una donna termina, molto spesso, con il solo pieno soddisfacimento dell’uomo.

Sono sicura che in molti/e avranno da controbattere che i loro attuali rapporti non si concludano in questa maniera, ma mi venga concesso di ammettere che, almeno durante le nostre prime esperienze l’ipotesi del completo appagamento della donna molto spesso non era contemplata.

Infatti ritorno indietro nel tempo e, né da parte del mio primo partner, tantomeno da figure più adulte (come genitori o coloro che si occupavano di educazione sessuale), ricordo sia trapelata l’idea di concedere alla donna la possibilità di determinare la fine di un rapporto sessuale con il proprio appagamento. Forse perché, in parte, siamo ancora legati e legate alla concezione dell’atto come finalizzato alla sola procreazione, ed una donna che auspichi un appagamento

del desiderio viene ancora additata come lasciva. Ho continuato a riflettere su questo argomento ed ho notato che, nelle mie successive esperienze, i partner susseguitisi hanno sempre dato una maggiore importanza al mio piacere, tuttavia, avendo tra le mie amicizie più strette molti maschi, mi sono resa conto che l’attenzione al piacere femminile è dato, per la maggior parte dei casi, solamente da una questione di virilità e di soddisfacimento personale in quanto «l’uomo deve saper soddisfare la PROPRIA donna a letto» Mi chiedo, a questo punto, se e come sia possibile ribaltare questa situazione così da poter concedere, oltre ad una parità dei sessi, anche una “parità del sesso”.

Secondo incontro, 10/03/2017

Le tre parole, protagoniste del secondo incontro di questo laboratorio, erano natura, cultura ed artificio, e la riflessione sulla quale verte l’elaborato in questione si intreccia con un interessante confronto con una collega circa le nostre caratteristiche di genere, ovvero ciò che ci determina in quanto donne, o uomini, ed il percorso che ci ha portate a questa identificazione.

Premettendo che quest’ultima richiesta ha fatto emergere non poche difficoltà, mi sono resa conto che questo è uno di quei casi in cui, nel corso anche di poco tempo, c’è stata la possibilità di un’ulteriore riflessione e rielaborazione.

Natura e Cultura sono due termini all’apparenza in antitesi che, tuttavia, grazie a quanto è emerso dagli interventi Serena Fiorletta ed Ilenia Caleo, possono essere risignificati e riconsiderati alla luce di una nuova analisi antropologica. Infatti, quali sarebbero i criteri con i quali asseriamo che un determinato elemento debba appartenere alla prima categoria piuttosto che alla seconda? Nessuno in particolare dal momento che questi criteri possono variare da cultura a cultura.

A questo proposito vorrei specificare, rifacendomi all’antropologo Arnold Gehlen, che nel caso dell’umano non ci è concesso scindere il naturale dal culturale e che, inevitabilmente, questi due concetti sono modellati e risignificati a partire dall’artificio. Infatti, secondo Geheln, l’essere umano nasce come biologicamente carente, dotato della “sola” intelligenza e perspicacia, caratteristica inevitabilmente legata alla predisposizione dell’uomo all’adattamento e all’azione; termine importante che ci permette di capire perché, attraverso la sua capacità tecnica, l’individuo reinterpreta la natura inospitale che lo circonda creando un “mondo culturale”:

«Infatti, secondo questa concezione, la “sfera della cultura” è in prima approssimazione l’ambito della natura trasformato dall’uomo, per così dire, il nido costruitosi dall’uomo nel mondo.

Ciò è avvenuto per necessità vitale, in quanto all’uomo manca l’adattamento innato dell’animale al suo ambiente. [..]

Tutto ciò è natura modificata, trasformata, nobilitata, tutto ciò è natura che ha ricevuto una nuova forma attraverso un’azione intelligente, natura che oltretutto produce essa stessa i punti di partenza, i mezzi tecnici per la sua stessa decostruzione » .1

È dunque l’intervento dell’artificio umano, la capacità tecnica gehleniana, che modifica e reinterpreta la natura creando un vero e proprio, ma soprattutto nuovo, ambiente culturale, proprio da questo possiamo ipotizzare che le culture variano al variare delle interpretazioni date alla natura.

In questo scenario si inserisce il discorso sul genere e sul perché risulti difficile inserirlo nella categoria naturale.

La definizione di ciò che è naturale e ciò che, invece, è classificabile come culturale, è frutto di una meta-narrazione imposta da chi detiene più potere, come nel caso del modello di umanità a cui ci rifacciamo il quale è indubbiamente quello occidentale e che, nell’epoca del colonialismo, oltre ad essersi classificato come una verità univoca e stabile (dunque naturale) è stato esportato nelle varie colonie ed imposto alle popolazioni indigene.

Rappresentante di questa dicotomia (natura-cultura), è dunque il corpo, in occidente determinante, fin dalla nascita, l’appartenenza ad un genere. In questo senso possiamo notare che la nostra cultura si scontra visibilmente con altre molto lontane nelle quali i bambini, fino al sopraggiungere dell’adolescenza, vengono considerate neutri, la loro sessualità verrà imposta solo successivamente dalla società stessa che li accoglie.

È la società che modifica i corpi definendoli ed impostandoli secondo i propri standard, per questo ho trovato molta difficoltà a cercare di definire quelle che credo essere le caratteristiche che definiscono il mio genere e quale sia stato il percorso che mi ha portato ad acquisirle.

Durante la conversazione fatta con la mia collega, ho capito quanto La riflessione sulle nostre caratteristiche di genere sia effettivamente il risultato di un confronto che ha fatto emergere quanto, ad oggi, ci si possa sentir costantemente determinati.

Entrambe concordiamo che l’appartenenza ad un genere sia determinata solitamente, ad un certo punto della vita dell’individuo, dal contesto sociale in cui cresce (infatti non è difficile notare quanto siano differenti tra loro le caratteristiche determinanti dei generi anche solo cambiando zona in una stessa città), poiché, senza il consenso del gruppo l’individuo verserebbe in una condizione di asocialità.

Sulla base di queste premesse abbiamo individuato il momento della nostra “determinazione” di genere orientativamente tra gli 11 ed i 13 anni, tuttavia si parla più dell’acquisizione di una certa consapevolezza piuttosto che di una determinazione vera e propria; infatti, come ho già spiegato, si tratta di un processo che agisce dalla nascita e prosegue per tutta la durata della nostra vita in quanto il genere, come dice Butler, è in realtà una performance che noi mettiamo in scena quotidianamente: dall’epilazione alla minigonna, al rossetto, alle limitazioni di gesti risultanti eccessivamente rudi e del linguaggio eccessivamente scurrile (in quanto non adatto ad un uomo).

Ancora non riesco a capire cosa mi rende effettivamente una donna, forse perché non ho ancora capito cosa significa esserlo.

Terzo incontro, 17/03/2017

Il concetto di memoria è sempre stato considerato parallelamente a quello di tradizione ed il legame che si pensa li leghi sembra essere molto forte. Tuttavia, quanto è emerso dall’incontro del 17 marzo, che si è strutturato intorno al trittico di parole tradizione-memoria-oblio, ci rende chiaro come proprio quest’ultima parola riesca a scardinare questo, apparentemente infrangibile, legame.

La mia riflessione inizia con la relazione presentata da Federica Castelli, incentrata sul pensiero di Nicole Loraux la quale ha trattato il legame intrattenuto tra il concetto di oblio e la figura della donna (custode della memoria) nell’ Atene del V secolo, il modello che delinea le caratteristiche politiche comuni delle polis. Infatti una certa rilevanza assume il mito della nascita di Atene: in uno spazio comune, in cui sia uomini che donne erano detentori di pari opportunità, Zeus indice una gara, tra Poseidone ed Atena, per decidere chi tra i due sarebbe diventato il protettore della città. Fu Atena a vincere, grazie al voto unanime delle donne, più numerose degli uomini, e questo comportò il terrore generalizzato per una possibile rappresaglia di Poseidone, noto per la sua irascibilità. Per questo motivo, da quel giorno, alle donne fu negato il diritto di voto, fu cancellato il secondo giorno di Boedromione e la polis divenne uno spazio per uomini liberi (fratelli) guidati dal Logos, con lo scopo di rifuggire la stasis (divisione, conflitto) per mantenere la pace e l’uniformità della città.

Proprio da questo mito emerge quanto il conflitto interno, la rottura dei legami, quindi anche della tradizione, sia legato alla memoria ed il mantenimento della pace invece all’ oblio. Le donne, al pari della violenza e del corpo (legato inevitabilmente ad un’essenza transeunte), sono considerate generatrici di stasis, quindi di conflitto e violenza, per questo vengono indicate come custodi della memoria, ed è solo l’oblio di questo avvenimento che garantisce una convivenza civile.

Dunque mi sembra palpabile la dipendenza della tradizione, e delle istituzioni che la conservano, dall’oblio al fine di mantenere la situazione quanto più statica ed uniforme possibile. Non è la memoria a fondare e mantenere viva la tradizione, bensì l’oblio, il quale impedisce la riflessione, il raggiungimento di un’ autocoscienza, la fondazione di una nuova singolarità, come spiega Loredana Rotondo in un’intervista2 per “Iaph Italia” : « L’istituzione non è sempre in grado di accogliere il bisogno di una donna di rimanere aderente a se stessa.», ma credo che sia determinante, in questo senso, il ruolo della memoria come occasione di tumulto. Tumulto interiore che si risolve in un rovesciamento degli schemi preimpostati, la possibilità di mettere e, soprattutto, mettersi in discussione. Prosegue la Rotondo: «[…] bisogna provare, soprattutto quando sono in atto movimenti storici importanti, e sicuramente se c’è una rivoluzione culturale in corso. Non si può dire a priori che l’istituzione non lo permetta per definizione. In certe condizioni bisogna forzare l’istituzione a tenerne conto […]». É solo attraverso la memoria, come quel filo lungo il quale raccogliamo e disponiamo la nostra esperienza (come la descrive Loredana Rotondo all’inizio dell’intervista) che possiamo riflettere sul passato al fine di costruire una nuova individualità, più consapevole, autocosciente, in grado di rispondere ad un ambiente politico, che pretende di soddisfare le nostre necessità, fondato su un ordine simbolico propriamente maschile – anche in questo caso faccio riferimento al momento dell’intervista in cui Loredana racconta della partecipazione femminile al programma radiofonico Chiamate Roma 313 e di come fosse difficile coinvolgere e presentare esperte in grado di fornire risposte competenti alle richieste delle donne che chiamavano.-.

Quarto incontro, 24/03/2017

Empowerment è stata la prima delle tre parole-chiave sulle quali è stato strutturato l’incontro del 24 marzo, introdotta da Alessandra Chiricosta, la quale, personalmente, ritengo abbia fatto un intervento e delle considerazioni pregnanti ed istruttive. Questo termine (empowerment), infatti, è sicuramente il più nuovo rispetto agli altri due (autodeterminazione e liberazione) ed è quello che, attraversandoli, è riuscito a risignificarli.

Come già accennato, questo primo termine è di recente utilizzo, perlomeno nei contesti che ci accingiamo ad analizzare, ed è per questo motivo che una sua traduzione e contestualizzazione risultano molto difficili. Infatti la parola empowerment “vanta” svariate traduzioni, tra cui: “conferire/attribuire poteri”, “dare autorità” ecc… Ma con riferimento alla condizione della donna questo termine sta ad indicare un processo teso a modificare le relazioni di potere in cui le donne riescano ad assumere una discreta importanza, così da potersi garantire un maggior ascolto e considerazione. Questo termine si lega agli altri due risignificando, in primis, il concetto di autodeterminazione; infatti, se il monitoraggio dell’empowerment consiste nell’analisi degli indicatori fondamentali (quali: accesso alla salute, all’istruzione, e indipendenza economica), è nel corpo che raggiunge la sua più piena realizzazione. La stessa risignificazione del concetto di autodifesa ci spinge a riflettere sul ruolo subalterno della donna, rispetto alla sua autodeterminazione.

L’idea di femminilità sembra respingere qualsiasi genere di approccio con le arti marziali, concedendo questa possibilità solo se giustificata dal concetto di autodifesa, in quanto il corpo femminile è relegato alla sola cura nell’immaginario di una società ancora troppo patriarcale e maschilista.

Il rovesciamento di significati ci conduce a vedere quest’autodifesa come una possibilità di auto-coltivazione e auto-potenziamento, con il fine ultimo dell’autodeterminazione che consiste, forse, in una piena libertà d’azione e di liberazione da quelli che, personalmente, reputo degli stereotipi limitanti.

Quinto incontro, 31/03/2017

Il trittico di parole preso in esame durante questo incontro (autocoscienza-soggettività-agency/autodeterminazione) ha destato decisamente il mio interesse, soprattutto la questione concernente il termine agency.

Come già ho avuto modo di sottolineare, durante il momento dell’incontro riservato agli interventi, è curioso come i discorsi performativi abbiano cambiato la figura femminile lasciandola, però, ancora necessariamente ancorata, legata, sussunta ad un discorso maschile che la determini. É infatti vero che l’emancipazione femminile, anche a livello lavorativo, è sicuramente progredita durante il corso dei secoli, ma mi sembra ancora lontano il traguardo della determinazione del “Soggetto-donna”; con ciò intendo il raggiungimento di un’autocoscienza, una consapevolezza di sé. Infatti, se negli anni ’50 il discorso performativo e/o trasformativo descriveva la brava donna come realizzata nel solo contesto familiare, oggi si è giunti al suo opposto, infatti il modello di riferimento di molte delle donne contemporanee, per l’appunto, è la figura della donna in carriera, totalmente indipendente e realizzatasi in una professione, meglio ancora se in un ambiente principalmente maschile, dimostrando così molta forza e sfatando il mito del “sesso debole”; questo discorso è talmente ben radicato che sono le stesse donne a non sentirsi tali se non raggiungono un grande grado di indipendenza.

Mi sembra quindi evidente che non si sia raggiunto un grado di civilizzazione della società che permetta di giungere ad una piena coscienza di sé, ciò che cambia è semplicemente il linguaggio, il discorso performativo che facilità il passaggio da un modello, in base al quale creare i propri soggetti-oggetti, ad un altro, forse anche con il fine di impedire il conseguimento di quell’autocoscienza (che sembra coincidere con la libertà, sotto tutti i fronti).

Sesto incontro, 7/04/2017

Per quanto stimolante ed interessante, trovo molta difficoltà a discutere delle tre parole chiave protagoniste di questo incontro (Diritto-Diritti-Giustizia) viste le mie molto più che esigue conoscenze in materia, tuttavia spero di riuscire a restituire un pensiero omogeneo avvalendomi anche di qualche approfondimento on-line.

Ad un primo impatto, emerge con chiarezza la difficoltà nel descrivere questi termini; infatti la sola definizione della parola “diritto” ci pone di fronte alla sua stessa ambivalenza, che a sua volta la pone in antitesi al secondo termine del trittico. Il sopraggiungere della “giustizia”, e dell’ambivalenza, che a mio parere anch’essa si porta dietro, non sembra riuscire a sciogliere questo primo “legame dialettico”. Cominciamo, dunque, con l’analisi di queste parole.

Come già accennato del diritto abbiamo due definizioni: oggettivo e soggettivo. Il diritto oggettivo è quell’insieme di norme teso a garantire la convivenza sociale, la cui violazione comporta, necessariamente, una sanzione; il diritto soggettivo, di contro, è lo stesso insieme di norme volto alla tutela delle azioni e dell’interesse del singolo. È evidente la contraddizione che sorge nel momento in cui questo insieme di regole viene messo in pratica, come sono anche noti i cavilli legali che permettono facilmente di arginare le stesse norme limitanti alcune azioni. Per rendere palpabile l’antitesi tra i due termini (diritto e diritti), mi avvarrò dei concetti esposti da Silvia Niccolai, durante la lectio magistralis, in particolar modo concentrandomi sul caso della maternità surrogata (tentando, il più possibile, di esulare dall’ambito etico a cui questo argomento inevitabilmente rimanda).

La professoressa Niccolai hai infatti introdotto il suo discorso a partire dalla distinzione di due modi di parlare del diritto: uno corretto ed uno sbagliato. Nel primo caso si fa riferimento al diritto come sapere derivato dall’esperienza, nel secondo si richiama il concetto di auctoritasf e del potere con cui questo diritto viene messo in pratica. Sebbene nell’epoca attuale il diritto faccia riferimento principalmente alle scienze ed alla ragione calcolante, trascurando il sapere derivato, la figura del legislatore sembra non poterne prescindere e, quindi, occupa un ruolo fondamentale, quello di mediatore tra auctoritas ed esperienza poiché la necessità del diritto si fa più evidente in una situazione di conflitto.

Ed è proprio a partire dalla nozione di conflitto, più precisamente di lite strategica (volta ad ottenere un cambiamento nel diritto, avvalendosi ed esaltando l’auctoritas), che il discorso è passato alla questione della maternità surrogata. Infatti, uno dei principi presenti nel nostro codice è quello del “mater semper certa che, assieme ad alcune regulae iuris, come quella dell’“inaudita altera pars”, si fondano sull’esperienza. Ora, questo principio, riguardante la certezza della maternità, considerato un principio “sessuato”, è stato messo in discussione e sostituito da un altro asessuato, nullificando, di fatto, l’importanza e la presenza del corpo femminile, riducendolo alla stregua di un contenitore utilizzabile su progettazione. Infatti, quello che sembra un passo avanti verso un’abolizione delle differenze, è in realtà una retrocessione verso un sistema patriarcale in cui la donna non ha voce in capitolo.

Ed ecco che l’intervento della giustizia avrebbe potuto sistemare le contraddizioni, tuttavia il discorso sembra intricarsi maggiormente.

Con il termine “giustizia” intendiamo sia la virtù che consiste nella volontà di rispettare i diritti altrui, sia la facoltà di esercitare il diritto (la piena auctoritas), ossia la principale attività del legislatore. Tuttavia questi due aspetti sembrano stare più in contraddizione di quanto li si possa vedere uniti a collaborare. Infatti, abbiamo già spiegato come sia sempre più una tendenza contemporanea quella di dipendere dalla ragione dell’utile, una ragione tecnica e strumentalizzante, anche nell’ambito del diritto, trascurando completamente il sapere derivato dall’esperienza e, per questo motivo, la “giustizia secondo virtù” sembra non appartenere propriamente al legislatore, teso a valorizzare il potere dell’auctoritas.

Settimo incontro, 21/04/2017

Veniamo, quindi, al settimo ed ultimo incontro del laboratorio. Le parole-chiave che lo inquadrano (affettività-sessualità-parentela) sono intense tanto quanto le relazioni presentate e discusse in aula, in particolare in quanto fanno riferimento a situazioni che ognuno di noi ha inevitabilmente sperimentato sulla propria pelle, per questo è imprescindibile, a mio avviso, orientare il discorso sulla propria opinione a riguardo.

La revisione del concetto di affettività tramite quello di “altre intimità” è sicuramente stata illuminante per me e mi ha spinta a riflettere su molte delle relazioni che intessiamo nella nostra vita.

Nonostante la mia famiglia rappresenti il classico nucleo familiare, non credo di essere cresciuta in un ambiente opprimente che determinasse sin da subito le mie scelte ed il mio modo di vivere; per questo metto continuamente in discussione la figura della coppia standardizzata come anche ogni tipo di figura predeterminata, senza necessariamente rinnegarla.

Il concetto di Normatività della coppia, intesa come un rapporto sentimentale, tendenzialmente monogamo, totalizzante e proiettato verso il futuro, mi ha fatto riflettere molto sul modo in cui consideriamo tutti i nostri rapporti.

Infatti è vero che, come osservato da Alessia Acquistapace, tendiamo a concentrare le nostre attenzioni, la nostra cura, come anche la maggior parte delle nostre aspettative su un’unica persona, pretendendo da lei lo stesso atteggiamento nei nostri confronti, molto spesso dimenticando di coltivare le “altre affettività”, determinanti nella vita di una persona, come le reti di amicizie, di parentela o, più semplicemente, rapporti occasionali senza altri tipi di coinvolgimenti sentimentali. Come Federica d’Andrea ha successivamente affermato, è l’intervento del biopotere (potere volto a tutelare la popolazione in quanto produttrice di valori) che in misura maggiore controlla e gestisce le relazioni umane, soprattutto attraverso la sessualità che è l’elemento per eccellenza che permette di accedere sia alla vita pubblica che alla sfera più intima dell’individuo.

1 Ghelen A., “Prospettive antropologiche”, Il Mulino, Bologna (2005), p.39.

2http://www.iaphitalia.org/quando-vita-lavoro-e-politica-vanno-insieme-intervista-a-loredana-rotondo/

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