Angelica Scarpanti – Restituzioni a partire dagli incontri del seminario Lineamenti 2017

 

La “questione femminile”, così come molti media gradiscono identificarla, è un tema che mi ha sempre affascinata e che mi ha portata a concentrarmi su letture specifiche, specie dal punto di vista della partecipazione politica femminile. Il laboratorio “Lineamenti di genere” è stato per me come un richiamo: nel momento della scelta del corso magistrale da seguire, subito ho puntato gli occhi su questo percorso in quanto sapevo avrebbe potuto fornirmi un ritorno sia in termini culturali, sia personali. È chiaro che quando si affrontano tematiche così importanti come il genere, la sessualità, le relazioni umane, è immediata la resa dei conti, o almeno la si tenta, con la propria esistenza. Ed io di conti da fare ne ho abbastanza. Durante le lezioni, ho scoperto che siamo in molte ad averne. Anzi, mi azzarderei ad ipotizzare che non vi sia donna che si trovi nella possibilità di scegliere la propria direzione senza giustificarsi con nessuno. È altrettanto vero che si dovrebbe parlare di persone e non di donne ma, ahimè, la storia ci insegna che fin dai tempi della parabola di Adamo ed Eva la colpa di tutti i mali è, nel corpo in primis e nella mente in secundis, della donna.

I sette incontri sono stati tenuti esclusivamente da docenti donne: si tratta forse di un richiamo all’ultimo punto del Manifesto di Rivolta femminile del 1970? «Comunichiamo solo con donne», così recitava. La libertà di esprimere pensieri alti e non condizionati, nella certezza della comprensione da parte dell’uditorio e nella speranza che si diffonda un messaggio positivo. Almeno questo è ciò che ho concluso io. Oltre alla professionalità e alla preparazione delle studiose che sono intervenute, è emerso il loro lato umano, la loro esperienza personale in vari contesti, il loro spirito di iniziativa e costante ricerca. Entusiasmante e coinvolgente.

Riporto di seguito i miei elaborati, iniziando proprio da un acerbo tentativo di identificazione del mio genere rispetto alla mia storia personale, passando a più approfondite tematiche affrontate in ogni singolo incontro:

Storia delle mie caratteristiche di genere

Se dovessi immaginare un filo conduttore che abbia portato me, essere umano dotato di caratteristiche biologiche femminili, a identificarmi nel genere universalmente a me attribuito, quello femminile, non avrei difficoltà a rispondere che il mio percorso abbia seguito una semplice logica comune per quel che concerne le caratteristiche superficiali e, al contempo, un’evoluzione emotivamente complicata per l’aspetto più personale, soggettivo. Ad oggi sono una trentenne che porta i capelli lunghi e la gonna ma che rivendica in piazza il suo diritto alla libertà civica, sociale e personale. Ho avuto difficoltà nella mia famiglia di origine a legittimare il mio essere deciso e poco accondiscendente, il voler difendere la mia opinione anche a costo di scendere in fastidiose discussioni che non portavano altro che a polemiche sul mio posto nel mondo. Io sono nata in un clima tradizionale e tradizionalista, difficile far accettare scelte come la convivenza prima del matrimonio o l’aiuto domestico da parte del mio compagno e, eventualmente, di un collaboratore esterno. Scelte viste inizialmente come atipiche e da contestare ma che, con l’evoluzione dei tempi, della società nel suo complesso, sono sempre più presenti, riconoscibili in altri e, quindi, legittimabili. Il mio destino “prescelto” fatto di un corredo nuziale di tutto rispetto e di un’educazione tendenzialmente arcaica ha avuto inevitabilmente un’incidenza nei valori di base ma poco è valso nell’applicazione del modello quotidiano di giovane donna-moglie-lavoratrice e madre… (ops, a trent’anni lavoro su turni, mi sono iscritta di nuovo all’università dopo otto anni di pausa, convivo e non ho – ancora- figli). Questo secondo me perché, nonostante la mia famiglia identificasse in modo netto la differenza tra i ruoli maschili e femminili, mi ha sempre spronato a studiare e lavorare. L’informazione e l’evoluzione dei tempi hanno aiutato, a mio avviso, molte di noi ad abbracciare una nuova idea di genere femminile, un calderone ampio e diversificato dove non obbligatoriamente ci si identifica nel modello tramandato dalle nostre nonne e che lascia scegliere ad ognuna chi essere, chi amare, come vivere. Certo, non senza inciampare in polemiche e giustificazioni dell’ultimo momento.

Per scrivere questo elaborato ho chiesto un contributo proprio a mia madre, donna settantunenne tutta d’un pezzo, chiedendole cosa significhi per lei essere donna e che cosa distigue a suo avviso il genere femminile da quello maschile: «Per me essere donna significa prima di tutto avere una famiglia, essere rispettata, realizzarsi nella vita e non essere mai dipendente da qualcuno, a prescindere da tutto. L’uomo ha la possibilità di agire come desidera, la donna, invece, ha i suoi limiti in quanto è nel suo intimo questo freno; anche se ci sono delle eccezioni. Dal punto di vista estetico la donna deve rispettare determinate caratteristiche fisiche e caratteriali, altrimenti non può essere definita come tale». In questa piccola dichiarazione, si coglie come per mia madre sia importante l’autonomia della donna dal punto di vista economico, ma, non altrettanto, dal punto di vista del vincolo familiare, legato alla gestione domestica nel suo complesso, tutta a suo carico, perché è la sua indole a dettarglielo. Le sue scelte, in ogni campo, sono bloccate da un qualcosa che è dentro di lei e in tutte le donne tranne rare eccezioni (e chissà se queste eccezioni possono essere definite donne!). Il rispetto è fondamentale, almeno appagherà il duro lavoro quotidiano che divide la donna tra lavoro e famiglia. L’aspetto fisico poi ha la sua importanza perché è il primo segnale che ci definisce in quanto appartenenti al genere X o Y e che, quindi, si costituisce vaso conduttore di tutta una serie di peculiarità che da secoli identificano Adamo ed Eva.

Il dibattito tra generazioni porta, a mio parere, sempre ad arricchire sia la vecchia che la nuova scuola. Il confronto invita a considerare in modo diverso punti di vista spesso criticati e non contestualizzati in base al periodo storico, alle possibilità economiche, all’accesso all’istruzione e all’informazione. A questo proposito, ho deciso di chiedere un contributo anche al mio compagno, giovane ingegnere di trentun’anni cresciuto in Puglia in una famiglia ancor più tradizionalista della mia e da sette anni a Roma per motivi di lavoro: «Per me essere un uomo significa in primis essere virile, avere quindi vivo l’istinto primordiale. Altresì significa possedere forza fisica e praticità nelle scelte. Una donna è molto più attenta ai particolari e sensibile alle sfumature che caratterizzano gli eventi, soprattutto nelle relazioni. Per me dire donna è dire mamma, altrimenti la scelta di non avere figli in favore, ad esempio, di una brillante carriera significherebbe uscire dal modello femminile. Un eventuale ostacolo biologico è ovviamente un discorso a parte. Ad ogni modo, un uomo senza figli resta a mio avviso pur sempre un uomo mentre la donna appare ai miei occhi incompleta. Relativamente a chi non si riconosce nelle macrocategorie uomo/donna è per me collocabile in un genere neutro, di mezzo, che per legge naturale non è portato alla riproduzione ma che esiste in quanto essere umano e quindi legittimato in tutti i diritti civili, comprese le unioni tra individui dello stesso sesso biologico».

Gli scontri familiari sono all’ordine del giorno e forse proprio “la sensibilità che per natura mi contraddistingue” mi porta a considerare in modo più aperto e dimanico il mondo intorno a me, un mondo fatto di battaglie e di rivendicazioni di esistenza da parte di individui diversi con storie diverse e modelli nuovi o forse di non-modelli. Il rifiuto totale della categoria sarebbe forse un tentativo estremo e poco produttivo ma il cambiamento radicale sta avvenendo e sta partendo prima di tutto da noi, dalle nostre “nuove famiglie tipiche”, dalla nuova suddivisione dei compiti, dal sostegno psicologico e pratico nella gestione domestica, dal rispetto e l’importanza per l’attività lavorativa extra familiare della donna così come dell’uomo, dal riconoscimento dell’intelletto e della ragione, delle abilità e del senso artistico. Tutto ciò nel 2017 dovrebbe apparire scontato ma, ahimé, non lo è e la forza richiesta per scrivere questa nuova storia è tanta. Il mio modus operandi è diffondere un messaggio ricco e plausibile all’interno prima ancora che all’esterno. Le grandi battaglie si fanno prima di tutto intorno al tavolo della cucina e poi sui tavoli del Parlamento. Diamo un punto di riferimento valido alle nuove generazioni partendo dal fulcro in cui crescono e si sviluppano. Ricordiamoci che i bambini e le bambine di oggi saranno gli adulti e le adulte di domani.

Elaborato lezione del 3 marzo 2017

Il primo incontro ha subito presentato in modo efficace le linee guida sulle quali si basa il laboratorio Lineamenti di genere. Parole chiave a gruppi di tre che ogni settimana presenteranno uno spunto per aprire un dibattito articolato tra professionisti del settore e studenti sul tema dell’identità di genere: essere uomini o donne è ancora oggi l’unico bivio possibile? Essere donne, nello specifico, ha una storia dinamica o una tendenza lineare nel corso del tempo? Domande molto generali che già da subito hanno stuzzicato il mio interesse, da sempre orientato sulla rivendicazione della presenza femminile nell’ambito pubblico e privato. In occasione della lezione del 3 marzo, la professoressa Federica Giardini ci ha esposto le tre parole chiave Sesso–Genere–Relazioni, dove la prima coppia appare essere in contrapposizione e la terza, invece, sembra proprio riaprire il dibattito tralasciando la necessità di schierarsi dall’una o dall’altra parte. “relazioni” è appunto una parola neutra e, come tutti i campi neutrali, non fa paura e non destabilizza. Abbiamo visto che “sesso” è una parola che ha avuto definizioni diverse in base al periodo storico in cui viene presa in considerazione, ad esempio fino agli anni cinquanta identificava in modo povero l’appartenenza categoriale biologica di una persona senza aggiungere altre peculiarità che, invece, si sono accodate poi con l’avvento di definizioni quali “gentil sesso” o “sesso debole”. Modi di dire non del tutto superati che si riferiscono in modo specifico alle donne con tutta una serie di caratteristiche di inferiorità, debolezza, immaturità, incapacità che le contraddistigue rispetto agli uomini. Questo ha portato, in quel periodo, intellettuali e professioniste di vari settori al rifiuto dell’appellativo femminile in favore di una parola neutra o maschile. Negli anni settanta la parola “sesso” si traforma in “sessualità” e quindi bisogno, istinto, non più celato ma rivelato: “Ebbene sì, sappiatelo, anche le donne hanno una sfera intima attiva e articolata”. La rivoluzione sessuale di quel periodo pone proprio come dogma il sesso vissuto con gioia, un’energia vitale che compete all’essere umano in quanto tale (e non solo l’essere maschile), non un dovere coniugale. Negli anni settanta anche la parola “genere” cambia la sua accezione: se prima veniva utilizzata per identificare studi di settore su donne o uomini, con la rivoluzione sessuale arriva su manifesti e titoli del movimento femminista sia in ambito pubblico che privato. La questione però non è né il sesso né la sessualità, in questo caso si tratta della presenza femminile nella storia e nella sociologia. Le citazioni a Debouvoir, Arendt, Freud, Lonzi, Scott, Butler, Woolf hanno contribuito a contestualizzare e arrichire la lezione in modo vivo. A seguire, la lectio magistralis tenuta dalla professoressa Ruth Hagengruber sulle filosofe della storia, spesso celate ed escluse dai percorsi didattici, ha interessato, a mio avviso, tutti i presenti in modo vivido lasciando spunti su letture e approfondimenti non sempre noti ai più.

Elaborato lezione del 10 marzo 2017

La lezione del 10 marzo 2017 ha visto l’intervento delle professoresse Serena Fiorletta e Ilenia Caleo, le parole chiave presentate sono state Natura-Cultura-Artificio. Anche questa volta, così come l’appuntamento del venerdì precedente e, come credo, tutti i gruppi di parole che si analizzeranno, i primi due termini sembrano in un primo momento essere opposti tra loro mentre il terzo appare come elemento di rottura e/o riequilibrio. Il tentativo contemporaneo è decostruire per arrivare all’origine delle parole “natura e cultura”; da sempre, la prima è contraddistinta da un valore eterno, in nostro possesso dai tempi dei tempi, la seconda, invece, dominata da un’evoluzione temporale, è caratterizzata in modo diverso in base al periodo storico considerato. Oggi, queste due tematiche sono più vicine nel campo di studio ma comunque continuano a presentare una distinzione netta tra ciò che è biologico e ciò che è costruito. L’antropologia ha avuto il merito di capire che laddove il sesso biologico identifica la nostra natura, il genere è invece originato da un costrutto colturale diverso in ogni popolazione. Ciò che per noi è la norma, non è detto lo sia per una popolazione che vive dalla parte opposta del pianeta, con un’altra storia, altre tradizioni, altre credenze. Si pensi alla mutilazione dei genitali femminili o alla circoncisione maschile (molto meno invasiva ma comunque innaturale), non sono pratiche appartenenti alla tradizione italiana-cristiana (anche le religioni hanno la loro influenza!) ma sono assolutamente normali, anzi necessarie, in altre popolazioni. In generale, ciò che è naturale è dato una volta e per sempre, mentre, ciò che è cultura è modificabile, discutibile. Nelle società chi detiene il potere propone e costruisce un discorso culturale che definisce un modello di umanità attraverso la narrazione. Il corpo, in questo progetto, rappresenta il confine tra natura e cultura. Le donne sono detentrici del potere di dare figli alla società, una società che non sempre le rappresenta come vorrebbe e che appunto ha portato alla messa in discussione di un modello che oggi, in Italia, in occidente, non sembra più essere valido. Non sono le differenze biologiche a stabilire il modello comportamentale di riferimento, bensì sono il genere e il tempo a costituire la personalità di un individuo. Il genere, appunto, è un’identità che arriva dopo, in alcune culture addirittura c’è chi non si categorizza mai e rimane in una sorta di limbo senza definizione (più generi e identità possibili). Il linguaggio, in una cultura, è il primo stumento di discriminazione per fa emergere differenze e convenzioni. Pronomi e attività indicate al maschile o al femminile danno già l’indicazione di genere. Questa caratteristica, ad esempio, è sicuramente accentuata nella lingua italiana piuttosto che nella lingua inglese. Anche i colori, convenzionalmente ricondotti al celeste per i maschi e al rosa per le femmine, non sono che un costrutto della società in cui viviamo. Assodato quindi che la definizione del genere sia prettamente un fattore culturale, riferendomi alla mia situazione personale mi verrebbe da chiedermi se davvero non avessi avuti vincoli di identificazione, avrei amato lo stesso con tanta passione il balletto classico, la letteratura, l’estetica… e ancora se avessi avuto contatti quotidiani con gruppi di amiche (e non amici), se fossi stata ugualmente incline alla socialità, ai rapporti umani, alla gentilezza dei modi e, allo stesso tempo, alla ricerca del dibattito e dello scontro/incontro. Sono certa, però, che il fatto che io non ami la cura domestica non dipenda dal mio genere bensì da esso dipende la mia irrefrenabile e inevitabile spinta a giustificarmi per questo, non solo con le persone a me più vicine ma anche con uno sconosciuto, se si presentasse l’occasione. Per genere quindi si intende tutta una serie di caratteristiche fisiche, sociali, familiari che un individuo porta con sé e con le quali deve fare i conti. Nel bene e nel male. Donna, se ti piace cucinare bene, se non ti piace male. Chi lo ha deciso? Da dove arriva il modello? La religione, forse, può darci una mano in questo senso: spesso nelle sacre scritture è scritto chiaramente il ruolo prescelto sia per l’uomo che per la donna. Siamo così per scelta divina = condanna per chi non è d’accordo che, tra l’altro, non ha nessuno da poter attaccare. Modelli per certi versi molto superati che però continuano ad essere riproposti e commemorati negli incontri di rito.

Nella seconda parte della lezione, è stato interessante notare come lo spettacolo, il mondo della finzione e allo stesso tempo la rappresentazione marcata dello steriotipo reale, ci permetta di viaggiare oltre la parola verso una dimensione fatta di tempo, spazio scenico e pensiero. Il linguaggio è un elemento aggiuntivo che può o non può esserci. Il corpo prende forma in modo astratto oppure viene utilizzato come strumento, rappresentazione specifica o fuso con altri corpi. I confini vengono superati e si stabilisce un nuovo concetto asessuato di essere persona, artista. In teatro si possono portare in scena pensieri filosofici, tragedie, commedie, satira politica. Tutto rimane in uno spazio da prendere sì sul serio ma solo per il frangente di quello spettacolo e per il dibattito lieve che seguirà la chiusura della scena. Poi, il sipario si chiuderà e tutto continuerà a scorrere lento, inesorabilmente lento, come la nostra evoluzione sociale.

Elaborato lezione del 17 marzo 2017

La lezione del 17 marzo ha posto l’evidenza sui termini Tradizione-Memoria-Oblio. La dott.ssa Federica Castelli ci ha trasportati nell’antica Grecia, “culla della democrazia”, come viene universalmente definita, ponendo l’accento in realtà sull’assenza pratica e concettuale delle donne all’interno della polis, in particolar modo dell’agorà, e, quindi, dell’ambito giuridico-decisionale. La vita pubblica era affar di uomini e non certo di donne, sempre inclini allo scontro, alla destabilizzazione, al conflitto. Le donne tramandano la storia, conservano la memoria e, il modo in cui lo fanno, è espresso dalla maternità e dallo sviluppo psico-somatico della prole. I figli devono assomigliare al padre, in primis quelli maschi ma anche le femmine. La somiglianza dei nascituri alla madre, ancor peggio se si tratta di una bambina, è vista come una carenza di forza dei geni paterni e, qundi, di un tramandare poco valido della storia.

Tradizione e memoria si fondono così in un percorso bivalente dove un termine è intriso dell’altro e si protrae e sviluppa secondo regole che partono da molto lontano. In Grecia vigeva il divieto di ricordare episodi spiacevoli per la comunità e, addirittura, gli uomini liberi giuravano la rinuncia al ricordo di determinati eventi, quindi, l’oblio come valore politico, sociale e culturale. Le leggi sono sì scritte dagli uomini politici, ma, conservate nel grande tempio della madre, che simboleggia la donna, però solo in quanto conservatrice di ciò che l’uomo ha stabilito essere valido per tutti, donne comprese. Il riferimento al pensiero politico di Nicole Loraux è stato il filo conduttore di tutto l’intervento.

La seconda parte della lezione, invece, ha avuto un taglio più contemporaneo con il contributo della dirigente Rai Loredana Rotondo, la quale ha ripercorso la storia del femminismo italiano facendo riferimento in particolar modo alla figura di Carla Lonzi. A quest’ultima, la Rotondo ha dedicato una delle venti puntate del format “Vuoti di memoria”, in onda su Rai Educational tra il 2000 e il 2007. Si tratta di puntate dedicate a personaggi illustri che, per vari motivi, sono stati censurati, ignorati o semplicemente dimenticati nel corso del tempo. Tra questi, la figura rivoluzionaria di Carla Lonzi ha riscosso grande successo e non poche polemiche già a partire dal contesto redazionale della rete televisiva. Guerdando il video-documentario è stato possibile vedere da vicino la vita di Carla, attraverso le dichiarazioni delle persone a lei care, delle amiche-combattenti, le fotografie che la rappresentano nei momenti clou della sua vita. La sua infanzia in un istituto di suore l’aveva avvicinata ai testi di Santa Teresa Martin e Santa Teresa D’Avola, mantenute anche in età adulta come punti di riferimento per l’indipendenza e la libertà che secondo lei avevano dimostrato nel loro percorso di vita. Bizzarro se si pensa al tipo di lotta portata avanti con fatica dalla Lonzi, nelle piazze, nelle sedi rivoluzionarie. Una donna davvero determiata e di straordinaria intelligenza che ha saputo trascinare un intero movimento di donne, in continuo aumento ed evoluzione, seguendo batteglie che per sempre e per fortuna hanno segnato il nuovo panorama politico-sociale italiano.

La narrazione della carriera di Loredana Rotondo e del suo attivismo femminista in Rai, anche attraverso l’intervista pubblicata su Iaph Italia, ha suscitato particolare interesse nelle presenti, specialmente in riferimento alla censura dei programmi scritti con la sua collaborazione: “Processo per stupro” e “AAA offresi”. Addirittura per “Processo per stupro” la Rotondo è accusata insieme ad altre cinque donne di sfruttamento della prostituzione, violazione della privacy dei clienti e della tratta delle bianche. Assurdo. L’assoluzione in formula piena arriva dopo tredici anni dall’inizio del processo e a seguito della morte di quattro delle sei autrici coinvolte.

Ancora molto lavoro c’è da fare ma la scuola che ci ha precedute è sicuramente un punto di riferimento estremamente valido dal quale (ri)partire.

Elaborato lezione del 24 marzo 2017

Autodeterminazione-Liberazione-Empowerment, queste le tre parole analizzate all’interno della lezione del 24 marzo con il contributo della filosofa e docente universitaria Alessandra Chricosta e della ricercatrice e europarlamentare Eleonora Forenza.

Il dibattito ha preso luogo analizzando in primis il contenuto che il termine empowerment apporta all’interno del discorso politico, nonché sociale, in modo diverso a seconda del paese che andiamo a considerare. Si tratta di un termine difficilmente traducibile in modo chiaro, anzi, nella nostra lingua proprio non esiste una traduzione univoca, specifica, chiara. Si è cercato di tradurlo con diverse accezioni quali: “dare potere – mettere in grado di… – dare autorità a… – accrescere potere”. In definitiva, si tratta di processi destinati a modificare relazioni di potere in ambito sociale e personale. La ricerca del livello di empowerment in una nazione ha dato vita a tutta una serie di indici statistici che vanno ad analizzare in sintesi un dato politico che spesso esclude la soggettività in favore di dati numerici. Secondo la Chiricosta, il corpo non può essere un oggetto di questo discorso bensì una soggettività agente: “Siamo corpi. Non abbiamo dei corpi”. A partire da questa dichiarazione, breve ma intrisa di significato, è stato molto interessante a mio avviso scoprire una concezione di corpo femminile diversa nella cultura di paesi come Cambogia, Vietnam, Filippine, terreno di studio per la Chiricosta per oltre quindici anni. In Vietnam, ad esempio, i lavori di forza sono prerogativa delle donne in quanto sanno sfruttare l’energia e l’agilità di un corpo esile in modo strategico e non scontato. Molto interessante anche l’escursus sulle suffragette e sui loro allenamenti in palestra per la difesa personale. Ciò si ricollega allo storico sodalizio tra attività femministe e arti marziali: lotta utilizzata non per fini competitivi (il concetto di “sport” è depotenziante in questo contesto) ma per fini di difesa del proprio spazio; uno spazio determinato dal corpo che è in continuo pericolo. In quest’ottica, il corpo restituisce una più profonda conoscenza di sé e, quindi, un accrescimento di empowerment che ci porta ad un proporzionale aumento dei livelli di libertà e autodeterminazione: rendersi più forti per conseguire obiettivi politici.

L’intervento dell’onorevole Forenza poi, ha aperto gli orizzonti su ciò che è definito “femminismo istituzionale”, grazie alla sua presenza a livello europeo in commissioni dedicate, ha potuto illustrare quanto lavoro ancora ci sia da fare a livello internazionale considerando che, ancora oggi, il livello di disparità salariale tra uomini e donne risulta al 16% in favore del sesso maschile, mentre, la disparità economica è pari a ben il 40%, ovviamente, a svantaggio del sesso femminile. La libertà, secondo l’europarlamentare, nasce dal riconoscimento di se stesse indipendentemente dal confronto con l’uomo. Riprende così Carla Lonzi, già citata nelle lezioni precedenti, la quale nelle sue opere, tra cui nello specifico, “Sputiamo su Hegel”, sposta l’asse di riconoscimento e, quindi, di autodeterminazione, al confronto tra donne e non più tra donne e uomini.

Nel dibattito post lezione, la professoressa Chiricosta, all’interno della tematica dei movimenti femministi che oggi si muovono in Italia, ha, secondo il mio modesto parere, lanciato una frecciata linguistica a tutte coloro che organizzano il proprio lavoro di protesta pensadolo negli stessi termini in cui si pensava negli anni settanta, quando, termini come “comunismo”, “socialismo”, “capitalismo”, assumevano certamente un’accezione diversa e, per molti aspetti, superata. Il passato, a mio avviso, va considerato e preso come esempio ma non rivendicato specificatamente negli stessi termini, con le stesse strategie comunicative (es:simboli), bensì riorganizato in chiave moderna, sulle attuali problematiche e, soprattutto, confrontandosi con la nuova classe politica, volgendo lo sguardo all’Europa, all’occidente così come all’Asia, all’oriente. Io sono tra le migliaia di persone che hanno manifestato l’8 marzo sotto lo slogan “Lotto Marzo” abbracciando l’iniziativa di “Non una di meno”. Proprio in questa occasione, ho avuto modo di conoscere e confrontarmi con altre donne che, nonostante il macro pensiero comune sulla disparità di genere, sulla violenza, sulla liberà personale, avessero però idee di protesta diverse da quelle che mi rappresentano. Probabilmente, la sintesi di questo discorso, nasce dal fatto che tutto parte dall’esperienza personale di ognuna di noi perché non c’è niente che spinga alla rivolta più di quanto sulla propria pelle si abbia sofferto.

Elaborato lezione del 31 marzo 2017

La lazione del 31 marzo ha posto l’accento sulle tre parole chiave Autocoscienza–Soggettività– Agency attraverso l’excursus storico proposto dalla dottoranda all’università di Verona (ma laureata Roma Tre) Valeria Marcandino e dalla professoressa Federica Giardini, con particolare riferimento al movimento femminista degli anni settanta. È stato quindi analizzato il cosiddetto femminismo di secondo ordine, un movimento che propone la soggettività come questione di differenza tra la donna e l’uomo e non solo la lotta per l’acquisizione di diritti paritari. Si tratta ora di riconoscere le donne in quanto soggetti autonomi, non definibili in paragone con gli uomini e secondo punti di vista personalizzati e non sotto un macroconcetto universale, valido per tutte (rifiuto del soggetto cartesiano e dell’assenza di relazione). Obiettivo non poco ambizioso che è costato, a volte, anche uno squilibrio psicologico per tutte coloro che, avvicinandosi alla nuova informazione di rivolta, iniziarono a fare i conti con loro stesse, passando dal compiere passi prestabiliti e, quindi, dal condizionamento di ogni singola scelta di vita (cura della casa, maternità, rinuncia alla carriera, accudimento dei membri della famiglia ma non di sé) ad un’autoriflessione, scardinando le pietre miliari della “propria” identità in favore di una ricostruzione, o meglio, rinascita, lunga tutto il percorso che va dall’autocoscienza all’autodeterminazione. Il mutamento atropologico di quegli anni è sicuramente rappresentato dal coincidere dell’autodeterminazione femminile con il corpo fisico. Le leggi sul divorzio e l’aborto hanno segnato la fine della proprietà maschile sul corpo della donna ancor prima che psicologica. Il matrimonio inteso come passaggio di proprietà dal padre al marito è un rito di iniziazione che ha preso fuoco insieme a tutti quei concetti di antica sopraffazione, in primis sessuale, che delegittimava la donna anche nella scelta che più di chiunque altro la riguardava: la maternità. La libertà sessuale, certamente, è stato un altro grande filone in quegli anni, accolto con non poca polemica soprattutto dalla cospicua ala conservatrice-cattolica del nostro paese. Carla Lonzi, filo rosso della lezione, con le sue parole mette in evidenza il cuore della problematica: “Per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?”. Quindi, non è tanto la possibilità di abortire o meno, non è l’aspetto normativo che cambia la condizione della donna, bensì, l’autodeterminazione. Capire dove finisce l’influenza dell’altro (che potrebbe desiderare o rifiutare la nascita di un figlio) e dove inizia la nostra scelta. La frigidità non è più una virtù, è una vera e propria condanna. La donna clitoridea e la donna vaginale non stanno ad indicare due modelli di donna in cui una è l’emblema della libertà sessuale, dal godimento fine a se stesso, delle catene spezzate verso la dipendenza dal piacere maschile e l’altra la sottomessa che concede il suo corpo, anche in modo romantico e devoto, disposta a procreare e a far raggiungere l’orgasmo all’uomo ogni qual volta sia egli, e non ella, a desiderarlo. Questa è una dicotomia un po’ troppo rigida a mio avviso. Attraverso le lezioni di questo laboratorio, invece, ho capito che si tratta di una distinzione intellettuale e non prettamente fisica. Si fa riferimento al modo complessivo in cui si è propensi ad affrontare la vita: il primo in relazione con le altre donne e senza la giustificazione/benedizione di qualsivoglia precetto culturale, il secondo in accordo con la storia che ci ha precedute e in difficoltà nell’uscire dallo schema culturale, non più antico come allora ma pursempre a sfantaggio delle donne, che, talvolta, addirittura si arriva a (auto)negare. Il concetto di relazione tra donne, il sogno della sorellanza, è il fulcro del discorso femminista ed è, appunto, molto sostenuto anche dalla Lonzi. La terapia della parola permette a tutte di esprimersi e, nel (piccolo) gruppo di confrontarsi, trovare la forza di reagire, riflettere sul modo in cui si desidera modificare il proprio avvenire, con chi affianco, in che prospettiva e, magari, tornare a casa la sera per scrivere sul proprio diario una nuova pagina verso l’autodeterminazione a cui ognuna aspira e che non tutte saranno in grado di identificare come raggiunta. Carla no, lei lo dichiarerà apertamente alla fine del suo diario e dopo non poche turbolenze emotive. Del resto, mai nessuna ha detto che sarebbe stato facile.

Si arriva qui ad inserire il termine agency, esplicato dalla professoressa Giardini, come facoltà e volontà di agire per le donne. La presa di parola all’interno del discorso pubblico con la fermezza di chiarire ed esprimere i propri pensieri non in base a quanto sia il caso di dire (ciò che gli altri si aspettano da noi o ciò che il contesto specifico richiede) ma a quanto si desidera esprimere, liberamente, con i pro e i contro che un dibattito libero richiede. Agency non è una parola attribuibile agli anni settanta ma è di stampo più recente: prima si parlava per lo più di soggettività, autocoscienza e autodeterminazione. Tuttavia, il concetto che agency esprime si ricollega a pieno titolo a quel periodo con la relativa uscita per le donne dalla caverna di Platone, la presa di possesso della propria vita, lo scontro e l’apprezzamento in ambito pubblico per le proprie scelte, facoltà, debolezze, peculiarità, eccellenze. Questa parola produce traformazione e, quindi, è un potere racchiuso nelle mani di una persona, in questo caso donna (oggi sappiamo di diversi gruppi minoritari sempre riferiti al genere) che emergendo e diversificandosi liberamente può intraprendere la propria (stavolta senza virgolette) strada aspettandosi una risposta, non sempre positiva, dalle altre donne che insieme a lei si confronteranno e che avranno il coraggio di appoggiare, riprendere, accusare, incoraggiare, a seconda del contesto specifico in cui si troveranno.

Entusiasmante il lungo dibattito a fine lezione. Molte di noi sono intervenute sollecitando tematiche soprattutto attuali che, considerando le vive risposte, evidentemente toccano la vita privata di ognuna. Purtroppo, la condizione di “emancipate” rischia di allontanare le donne da se stesse con il doppio inganno di poter essere in carriera ma, allo stesso tempo, mantenere lo status familiare storico che a loro, ancora oggi, è attribuito. La parola che più mi spaventa in tutto questo divenire è GIUSTIFICAZIONE. Il continuo e invasivo sentimento che bilancia le nostre scelte con il più profondo senso del dovere (per alcune, forse, anche senso di colpa) che ci porta a dare una motivazione pubblicamente riconosciuta a tutto ciò che facciamo, allontanandoci da noi stesse, dalle nostre priorità, in favore dell’accettazione esterna ancor prima che interna. L’eventuale influenza negativa della famiglia di origine e delle persone con le quali ci troviamo a relazionarci (spesso non per scelta), rappresenta a mio parere, un ulteriore ostacolo alla redazione del nostro diario verso l’autodeterminazione.

Elaborato lezione del 7 aprile 2017

L’incontro del 7 aprile è stato organizzato lungo un pomeriggio di interventi di stampo giuridico-femminista con la presentazione dei concetti chiave Diritto–Diritti–Giustizia. La lezione si è aperta con l’intervento della docente Roma Tre e sociologa del diritto Anna Simone, la quale ha da subito introdotto il termine collage tra le tre parole focus, ossia, Conflitto. Non si tratta, questa volta, di una dicotomia spezzata da un terzo elemento, bensì, di tre macroterminologie che convergono l’una nell’altra, sconfinando le proprie definizioni e spesso trovando ostacoli proprio nella messa in pratica di norme elaborate teoricamente dal legislatore e applicate dal giudice nei singoli processi. Riprendendo il discorso presentato a Santiago del Cile dal giurista Tullio Ascarelli nel 1955, la prof.ssa Simone ha citato sul piano simbolico le figure di Antigone, riferendosi quindi alla tragedia greca di Sofocle, e a quella di Porzia, protagonista de Il mercante di Venezia, Shakespeare fine 1500. Queste due figure femminili hanno capovolto il risultato finale di un conflitto predefinito dalla forza/autorità di un uomo, senza l’uso dello scontro diretto. Nello specifico, Antigone, dopo aver disobbedito al re della città, viene chiusa in una grotta e condannata a restarci sola per il resto della vita. Antigone era la promessa sposa del figlio del sovrano, la futura nuora quindi. Pentitosi, il re fa liberare la ragazza ma ella, nel frattempo, si è uccisa. Il dolore porta al suicidio del promesso sposo della vittima e, di conseguenza, la perdita del figlio fa suicidare anche la mamma del giovane, lasciando, in pratica, colui che aveva emesso la condanna alla solitudine perenne. La scena, quindi, si è ribaltata al di là di ogni previsione.

Ne Il mercante di Venezia, Porzia, travestita da uomo, riesce a salvare Antonio sostiuendosi al legale ufficiale. Grazie alla rilettura del contratto, fa leva sul fatto che non una goccia di sangue fosse stata inclusa nel patto iniziale. C’è qui una rinegoziazione e rivendicazione del diritto. Proprio la rinegoziazione e rivendicazione continua del diritto caratterizza la lotta contro le disparità di genere e l’evoluzione della normativa vigiente. Dove inizia la morale e finisce la norma? Cosa è educazione, pratica consueta e cosa specificatamente regolamentato? Regolamentato è tuttavia una parola che pùò avere un peso giuridico differente in base al codice nel quale questo “regolamento” è inserito.

In linea generale, per diritti si intende diritti delle donne e delle altre minoranze di genere in questo specifico contesto, durante la lezione abbiamo ascoltato esempi di casi giuridici reali in cui appunto, l’applicabilità della norma aveva come referenti dei gruppi non una persona in quanto cittadina con caratteristiche a sé. La giurisprudenza si riferisce alle madri, alle lavoratrici, alle criminali… ma parla a degli status, non a Laura, Silvia e Francesca che sono madri, lavoratrici, vittime oppure criminali, casalinghe o senza figli ecc. Casi passati, spesso valgono da esempio per il giudicie circa la “corretta” interpretazione del testo normativo. Il diritto tende a custodire gelosamente una moralità universale che riconosce, probabilmente, solo una percentuale dei cittadini di uno Stato. Generalizzare la norma va bene, questo potrebbe aiutare coloro che non rientrano in nessuno status, categoria, ma questo non deve diventare la scusa di inapplicabilità della giustizia in caso di vuoto normativo. Quindi, abbiamo una divisione del concetto di Giustizia su due fronti: da un lato, la tradizione che porta avanti modelli, status, macrocategorie determinate dall’oppressione maschile e dal suo potere storico, dall’altra, una rivendicazione della generalità solo dopo aver riconosciuto e tutelato le differenze. In Italia, oggi, sulla scia degli Usa che hanno incentrato il loro bidimensionalismo di genere sul piano sociale ed economico, si parla di paternalismo e non (più) di patriarcato. Si tratta quindi, forse, dell’illusione di emancipazione acquisita culturalmente (Campagne elettorali centrate sulle donne in carriera e, quindi, politica, spot pubblicitari in cui la donna è in tailleur intenta a presentare una conferenza, pubblicità progresso contro la violenza sulle donne, la voce di corridoio sull’equa spartizione dei lavori domestici ecc.) senza però un adeguato quadro giuridico. L’obiettivo, secondo le giuriste presenti in aula, è poter vivere il gruppo Diritto-Diritti-Giustizia secondo l’esperienza e non solo in base alle decisioni prese a tavolino dall’autorità.

Il secondo intervento, la lectio magistralis curata dalla professoressa di diritto pubblico dell’università di Cagliari Silvia Niccolai, nonché costituzionalista e professoressa ordinaria in altre università europee, ha acceso il vivo della conferenza con temi soprattutto inerenti al concetto di famiglia, maternità surrogata, genitorialità – bigenitorialità, adozioni e riconoscimento legale di figli procreati all’estero da persone dello stesso sesso. Il problema principale sollevato dalla prof.ssa Niccolai sta proprio nella nuova famiglia giuridica: bigenitorialità (che esclude, di fatto, le madri senza compagno/a), progetto genitoriale (dà l’idea di un modello precompilato come i bandi europei per le nuove imprese), predisposizione a prendersi cura del bambino (forse l’unico elemento della triade che pensa all’infante, al suo sano sviluppo). Questa legge vanifica il corpo della donna, il momento della gestazione e del parto, la relazione che inevitabilmente si crea tra il feto, poi bambino, e la genitrice. La donna, in quanto madre, non viene più neanche nominata. Se per anni il femminismo ha rivendicato il ruolo della donna nella società in quanto portatrice di caratteristiche particolari, differenti dall’uomo, oggi, il problema non viene neanche più affrontato. L’ostacolo è deviato. Tu, non esisti. Tu, non generi. Il tuo ruolo è subordinato alle esigenze moderne di differenziazione e di opportunità non più per uomini e donne ma per tutte le persone che popolano il pianeta e che, con le possibilità della nuova era, intendono mettere su famiglia. La dott.ssa Niccolai fa sorgere spontanea una domanda: “In questi termini, non avrà forse fallito il femminismo?” anche solo riflettendo sull’etimologia della parola, non avremmo forse capovolto come Antigone e Porzia il contratto iniziale? Stavolta però, non siamo né Antigone e né Porzia, siamo il re e il mercante.

Il terzo intervento, curato dalla filosofa Angela Condello, neomamma tra l’altro, ha posto l’accento su binomi genere-diritto e diritti umani-diritti di genere. Si tratta qui di spostare l’asse da una visione generale dei diritti umani come soluzione retorica, imposizione normativa di un sistema giuridico ferreo che mira alla pace nei confini nazionali, verso una teoria critica dei diritti umani intesa in termini di azioni, o meglio Agency (cfr. lezione 31 marzo 2017), diritti giuridici fruiti e rivendicati secondo un confronto che colloca la teoria alla pratica senza far riferimento a definizioni prestabilite. La complessità dei vari casi dovrebbe tener conto del percorso di vita del soggetto coinvolto. Non omologazione ma norma universale da rivedere secondo l’applicabilità specifica, in nome della differenza rivendicata dal femminismo, del concetto una ad una, del confronto e dell’esperienza individuale. Anche la dott.ssa Condello rimanda alla maternità surrogata e specifica che, a suo avviso, la gestazione e il parto andrebbero regolamentati non solo dal punto di vista della corporalità ma anche da quello del conflitto che, da un’eventuale formazione atipica di famiglia, potrebbe verificarsi. A questo punto: “Dove inzia e finisce l’autoderminazione della donna che cede l’utero in affitto e come si sviluppa l’autodeterminazione del genitore nonbiologico?”. Riflessioni personali e non definite lasciano spazio al pensiero di ognuna.

Ilaria Boiano, giurista incentrata soprattutto sul rapporto tra diritto penale e femminismo, ha chiuso il cerchio dei quattro interventi presentando casi reali di processi relativi alla violenza sulle donne, facendo riferimento, ovviamente, anche al già citato documentario di Loredana Rotondo (cfr. lezione 17 marzo 2017) Processo per stupro, accendendo il dibattito tra le presenti in termini di equità di valutazione delle prove, oggettività e razionalità di giudizio. Citando Carol Smart, sociologa femminista: “Non far dire al diritto la tua verità”, la dott.ssa Boiano attribuisce alla personale testimonianza, esperienza, un valore che sconfina i limiti delle definizioni giuridiche che, invece di perdersi tra i cavilli della burocrazia, dovrebbe sconfinare in altri ambiti e chiedere aiuto alla sociologia, psicologia, filosofia (aggiungerei io, neuroscienze) per poter ampliare lo spettro di valutazione personalizzata in base al caso specifico.

Il dibattito conclusivo, con domande che hanno spaziato in ogni ambito affrontato durante tutto il pomeriggio, ha restituito l’impressione (per lo meno a me) che la giurisprudenza italiana sia ancora molto legata a pregiudizi popolari che nulla hanno a che fare col diritto e che, nonostante l’alta presenza di donne nella magistratura (il 65% circa), ancora si faccia fatica ad accettare la propria eccellenza lavorativa titolandosi al femminile, piuttosto che al maschile, con terimini quali l’avvocata, la giudice, a volte schivati proprio dalle professioniste del settore che predilogono maggiormente l’abolizione delle distinzioni di genere, in una fossa di leoni progettata dagli uomini, dai tempi della polis greca (cfr. intervento della dott.ssa Federica Castelli, 17 marzo 2017).

Elaborato lezione del 21 aprile 2017

L’incontro conclusivo del laboratorio “Lineamenti di genere” è stato orientato sulle tre parole chiave Affettività-Sessualità-Parentela ed ha toccato quindi temi molto vicini alla vita di ognuno dei partecipanti, specie delle donne presenti in aula, in quanto si è parlato anche di maternità e rapporto madre-figlia. Durante il primo intervento, la dott.ssa Alessia Acquista Pace, antropologia appartenente al gruppo smaschieramenti di Bologna e SomMovimento NazioAnale, ha proposto una riflessione sulla violenza maschile “moderna”, specie nei confronti di quei microricatti che si presentano all’interno di relazioni di nuova generazione che, almeno apparentemente, rifiutano il modello patriarcale pre femminismo. Il lavoro di cura lasciato in esclusiva alle donne e i ricatti velati dietro al riufiuto di rapporti sessuali a comando, con frasi tipo “allora non mi ami abbastanza”, rappresentano delle microviolenze domestiche che rimettono in discussione il concetto di coppia anche laddove, ad esempio, sia chiara una certa “emancipazione” (ad esempio lavorano entrambi ed entrambi hanno attività sociali autonome). La coppia è un concetto standardizzato sopravvalutato. L’identificare in un’unica relazione, in un’unica persona, di tutto il proprio futuro potrebbe risultare rischioso e costrittivo. La coppia, se non vogliamo dire il matrimonio, prevede il vincolo di fedeltà, progetti futuri a lunga scadenza e il primo posto rispetto a qualunque altro tipo di relazione; probabilmente, l’unico sorpasso ammesso, è quello del rapporto con i figli (ovviamente nati da quella medesima relazione, s’intende). Ancora oggi, almeno in Italia, arrivati ad un’età compresa tra i trenta e i trentacinque anni, le persone sono costrette a tirare le somme della propria esistenza nei confronti di un modello prestabilito a cui la società si aspetta che aderiscano. “Mettere su famiglia” è un modo di dire talmente diffuso e sponsorizzato che non c’è individuo che possa esimersi dal confrontarvisi. Anche se i propri obiettivi di vita sono diversi, amici e parenti si aspettano che qualunque tipo di desiderio si voglia esaudire nella propria vita, esso debba poter combaciare con la condivisione dell’esistenza insieme ad un’altra persona e, possibilmente, con la prole che questa unione riuscirà a dare. Anche la coppia omosessuale tende alla standardizzazione, il fatto che il matrimonio-omo sia riconosciuto più o meno ovunque ormai, rende automaticamente implicita l’uniformità al concetto di coppia finora convalidato agli etero. Dove inzia il modello e dove finisce l’esperienza personale? Sembrerebbe che quando i propri desideri, le proprie tendenze, siano discordi dal pensiero comune, ci si debba sentire in difetto oppure, estremo opposto, costituire dei gruppi minoritari di rivendicazione o, ancora, aderire ad un’associazione già esistente. Il rischio è che col tempo, ogni minoranza sarà categorizzata e che il passo successivo, dopo aver “accontentato” un gruppo sociale, sia di passare al successivo. Dov’è la libertà individuale? La dott.ssa Acquistapace ha posto una domanda a cui non è facile fornire risposta immediata: è necessario che l’attività sessuale sia alla base della nostra relazione “prioritaria”? Se pensassimo di no, a farci tornare sui nostri passi sarebbe l’esempio che la stessa antropologa ha fatto: se aveste un impegno imprevisto che vi impedisse di raggiungere i vostri genitori ad una cena e la scusa fosse: “Scusate ma ho litigato con mio marito”. Probabilmente, i vostri genitori capirebbero e la questione finirebbe lì. Se alla stessa frase, sostituissimo “marito” con “amico”, la reazione sarebbe stata palesemente diversa. Ecco spiegato il punto. È il valore che la società fornisce ad un certo tipo di relazione a renderla importante per noi e per gli altri.

Liberarsi dalla normatività non è un processo individuale. Discostarsi da questo modello ci mette in crisi, ci fa porre domande che mettono in crisi il rapporto con l’altro. Essere “soli” significa essere privi di una relazione in coppia ma in senso comune è totalizzante. Esistono tante atre relazioni efficienti come la rete di amici, gli inquilini, i colleghi di lavoro… persone con le quali si stabilisce rapporti diversi con diversi confini che ma colmano e arricchiscono la vita probabilmente molto di più di quanto la sola coppia tradizionale possa riuscire a fare. Anche una sola relazione di sesso può contribuire al benessere affettivo degli individui. I legami emergono dalle pratiche, non viceversa. È necessaria da questo punto di vista una vera e propria rivisitazione del legame biologico. È la pratica sociale a produrre il legame, non è il legame di sangue che produce la pratica sociale.

Il secondo intervento, curato dalla dott.ssa Federica D’Andrea, specialista in dinamiche interculturali, ha proposto un’analisi sul rapporto della donna nella sua funzione materna, proliferatrice, in sovrapposizione con l’aspetto individuale. Si è riflettutto sulla maternità intesa non come sfruttamento di un destino biologico (strumento di oppressione) ma come scelta individuale di valore. Esiste tutto un mondo legato alla maternità che è totalmente estraneo i piaceri sessuali non riproduttivi. La donna, così come ogni essere umano, deve avere la libertà psicologica e fisica di gestire i propri desideri sessuali senza che questi vengano vincolati a relazioni obbligatoriamente monogame o che comunque prevedano la nascita di figli come fine ultimo. Già il femminismo aveva superato i dualismi mente – corpo e donna–madre.

Un aspetto molto importante e poco studiato è il cambiamento dello status della donna in gravidanza rispetto al riconoscimento pubblico. Negli ultimi cento anni, e in particolarmente dopo il 1960, il controllo della condizione delle donne in maternità è passato dalla donna stessa alla medicina. Il corpo delle donne incinte è diventato il campo di applicazione delle tecniche scientifiche di monitoraggio. Prima, era la donna ad annunciare la sua gravidanza dopo aver sentito un movimento nel suo grembo. Oggi, è il medico che dà ufficialità alla notizia e rende effettivo lo status della futura mamma. Lo stesso vale per l’aborto: all’epoca si riusciva ad abortire clandestinamente, con tutti i rischi del caso certamente, ma questo poteva avvenire prima di aver dichiarato pubblicamente la gravidanza e quindi senza incorrere in crimini penali. Oggi, al di là delle vittorie ottenute in merito, sono sempre i medici che cercano di capire dall’esterno come gestire l’aborto e la definizione della condizione della donna in questione. La tecnologia sta oggettivando il feto. La biomedica ha altresì stabilito valori specifici in tabelle temporali che il feto deve seguire affinchè risulti sano. In caso di mancanze, l’aspetto psicologico della futura mamma non viene considerato lasciando la parola alla sola profezia scientifica. Anche per migliorare i test biomedici si passa dal corpo della donna e dalla relazione alterata tra lei e il feto in caso di notizie non positive. Addirittura esistono telecamere che, in caso di fecondazione assistita, testimoniano l’impianto dell’embrione fecondato nell’utero. Questo non può non significare nulla. La stessa esperienza di preparazione all’operazione di inseminazione lo è. Vi è un’alterazione ormonale da non sottovalutare. Cambia totalmente la percezione di se stesse. C’è da considerare anche tutto l’aspetto etico, molto spinoso, del mercato degli ovuli, del loro valore economico e della selezione razziale. Si sta passando dal biopetere al biocapitalismo. L’egemonia scientifica spacca l’ordine sociale e riapre il dibattito sulla genitorialità biologica vs genitorialità surroggata facendo tornare il concetto che è la pratica sociale a formare i legami e non il contrario.

Il terzo intervento è stato proiettato in videoconferenza da Mariaenrica Giannuzzi, ex coordinatrice del master in Pari opportunità studi e politiche di genere dell’Università degli studi Roma Tre, ora dottoranda negli USA, la quale ha proposto una genealogia del concetto di sessualità negli Stati Uniti tra il 1968 e 1990. Nello specifico, la dott.ssa Giannuzzi ha voluto porre l’attenzione sulle contraddizioni e i compromessi che riguardano l’intimità, spesso familiare, che sfocia in ultima analisi nel conflitto politico. L’uso femminista del concetto di sessualità, specie in tempi moderni, vede il confronto tra una sessualità interna, privata, con altri soggetti che a loro volta hanno un sé sessuale determinato, specifico. I social network sono luogo di identificazione in cui si definisce l’immagine di sé, quindi, l’identificazione che non avviene nell’individuo ma all’esterno, addirittura nel mondo virtuale. “Per essere maschio bisogna diventare maschio” per questo la materialità conta, il processo evolutivo d’identificazione deve essere anche materiale, tattile. Partendo dallo specchio, abbiamo un primo step di straniamento in quanto esso sospende il luogo di identificazione dominante, ma, non è il luogo della formazione dell’io. L’io si forma a partire dallo schermo di un dispositivo, almeno questo è ciò che ci suggerisce K. Silverman nel 1996. L’obiettivo è mantenere l’identificazione dell’io in relazione all’ego attraverso lo sguardo della madre, mediatore logico tra i due. Lo schermo permette di includere in una funzione unificante dello sguardo, non una gerarchia simbolica che ha a capo la madre, bensì, una gerarchia che si interroga sulla funzione della madre e sulla sua figura di cura. La verità del corpo femminile è la verità riproduttiva per cui, Rich lo spiega bene, l’omosessualità femminile è collocata in un ambiente sociale rappresentato dalla menzogna tanto che in passato ci sono stati dei tentativi di riabilitazione delle lesbiche che, appunto, sono andate a “stuprare la natura”. Essere lesbiche, o meglio, accettare di esserlo, rimette in discussione tutta l’esistenza di una donna. Dal femminismo, dal sentirsi donna, a non sentirsi più rappresentata neanche da quella categoria.

Cercare se stessi credo sia la missione più difficile e altrettanto pericolosa in cui un’individuo possa imbattersi. Il problema è che allo stesso tempo credo sia l’unica vera possibilità che abbiamo in questa vita per essere felici, o meglio, per cercare di esserlo. Bisogna capire cosa vogliamo prima di cercare invano, nella speranza di trovare casualmente ciò che fa per noi (modello societario, partner, amici). I tentativi possono dare risvolti negativi e l’ascoltare le nostre naturali inclinazioni può salvarci in molti casi (o condannarci, dipende dal contesto ovviamente).

La lezione si è conclusa con un dibattito molto interessante che ha portato alcune delle studentesse, nonchè una delle docenti, a condividere pubblicamente la propria esperienza personale con un relativo ritorno di consigli e punti di vista. L’empatia respirata in aula 10 durante l’ultimo incontro rappresenta per me il risultato più significativo dell’interno percorso didattico.

Conclusioni:

Desidero concludere il mio collage finale dei sette incontri del laboratorio Lineamenti di genere con una citazione di Carla Lonzi, personaggio di spicco che ha aperto per me, e probabilmente per altre studentesse, una nuova linea di pensiero e di autocoscienza: «il femminismo ha inizio quando una donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna. Capisce che il suo unico modo di ritrovare se stessa è nella sua specie»1(Lonzi, 1974, p.120). Differentemente da quanto percepito fino a pochi mesi fa, ho potuto cogliere l’essenza del femminismo non solo nel mettere disordine laddove ordine si aspetta, capovolgendo le aspettative tradizionaliste con un nuovo modo di imporsi nella società e nella propria vita, ma anche e soprattutto nel condividere il progetto di rivolta con altre donne che, come noi, hanno pensieri a riguardo e che possono stuzzicare coloro che (ancora) non li hanno. Una donna non dà consigli ad un’altra ma l’aiuta ad entrare in crisi. In questo profondo e, inevitabilmente, doloroso percorso ognuna cerca di riemergere con una nuova coscienza/conoscenza di sé. Il riconoscimento non è il rispecchiamento ma è l’unicità irriducibile della singola donna.

Durante le lezioni si è parlato molto anche di diritti, affettività, omosessualità, tansessualità, altri generi, famiglia, inganno dell’emancipazione, agency ed empowerment. Tematiche che si intrecciano nella macrodiscussione contro il patriarcato che, ancora nel 2017, fa da padrone, seppur mascherato dalla menzogna della modernità, in ogni contesto sociale. Dalla famiglia al luogo di lavoro troviamo ancora ricatti velati che mettono in discussione il valore del singolo in favore di un pregiudizio culturale che poco ha a che fare, lo abbiamo visto, con il concetto di natura. La libertà di essere se stessi dovrà sempre fare i conti con i valori morali incarnati nella società in cui viviamo. Nasciamo predestinati a determinati comportamenti, relazioni, reazioni, incasellamenti che compromettono il nostro “costruire” con una lotta continua al “decostruire”. Energie inquantificabili vengono investite quotidianamente per sfaldare il modello impostoci e dare valore al modello che su di noi vogliamo disegnare, l’unico che possa calzarci a pennello e che abbiamo il piacere di indossare.

1 LONZI C., (1974), Significato dell’autocoscienza in Sputiamo su Hegel, Milano, Scritti di Rivolta Femminile.

Redazione

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