Aurora Bulgarelli – Restituzioni a partire dagli incontri del seminario Lineamenti 2017

Introduzione
Questa serie di incontri ha reso più forti concetti che da sempre consideravo importanti, ma che, tra la mia disinformazione personale e la difficoltà di reperire fonti autorevoli ed esperienze reali, erano troppo vaghi e senza una reale fondatezza teorica. Ora posso dirmi più sicura delle mie posizioni in merito e ritengo che queste lezioni abbiano rappresentato veri e propri spunti di riflessione sul passato, il presente e il futuro, sul mio essere Donna, ma anche sul mio essere donna nella società.
Nel tentativo di dare un carattere più personale a questo elaborato ho pensato di associare a ogni incontro un film che, a mio avviso, può rappresentare efficacemente le tematiche trattate. Ho scelto il medium cinematografico per diversi motivi, il più importante dei quali è la capacità comunicativa dei film che, se usata sapientemente, costituisce un’importante fonte di informazione e può fungere da stimolo per approfondire argomenti prima sconosciuti o poco trattati.
Altro grande pregio che attribuisco a questo mezzo di comunicazione è il meccanismo di identificazione che, spesso, si instaura in virtù del forte coinvolgimento emotivo che il film è in grado di suscitare nello spettatore.

ELABORATO I
Lezione 3 marzo 2017
Sesso – Genere – Relazione
Il primo incontro del Laboratorio di lineamenti di genere si è concentrato intorno a questo trittico di parole, a proposito del quale ho trovato particolarmente interessante la riflessione sviluppatasi attorno al concetto di genere. Ho trovato oltremodo stimolante il pensiero di Judith Butler, filosofa americana di origine ebraica, che polemizza con la definizione di genere proposta dalla storica Joan Scott, la quale, rifacendosi a concezioni tipicamente marxiste, ritiene che le caratteristiche di genere siano riconducibili al ruolo che il soggetto ricopre nella società in un determinato periodo storico. Judith Butler dissente da tale impostazione, sollevando in particolare la questione della “socializzazione forzata”, riguardante quegli individui che pur non riconoscendosi in uno dei due generi si trovano comunque costretti a decidere a quale appartenere, il che li porta a vivere un disagio molto destabilizzante.
In questo periodo ho guardato uno dei film candidati agli oscar 2017 – “Moonlight”  che ritengo riguardi da vicino l’argomento trattato nel corso del laboratorio, in quanto affronta il tema della condizione omosessuale nella comunità nera e machista della Florida attraverso tre capitoli che partono dall’infanzia fino all’età adulta del protagonista, Chiron, che cresce in un ambiente duro e difficile. Anche se per tutto il film non verrà mai trattata direttamente la questione di genere, è interessante osservare la parabola esistenziale del protagonista, che diverrà un grosso spacciatore del quartiere, condizione che può essere letta anche come l’esito della socializzazione forzata. L’uniformarsi, infatti, a uno dei cliché tipici della cultura di strada, quello del boss, viene vissuto da Chiron come l’unica scelta possibile, che, intimamente, sente estranea, e che lo porterà a sviluppare una mancanza di sentimenti verso il prossimo; dichiararsi gay in una struttura sociale fortemente maschilista e gerarchica, del resto, metterebbe a repentaglio la sua stessa vita e, quindi, alla fine preferirà tacere e nascondere la propria identità, anche al prezzo di vivere una vita insoddisfacente.
Un altro film molto interessante che tratta le tre parole chiave dell’incontro è sicuramente “Mona Lisa Smile”, che narra di una professoressa di storia dell’arte, Katherine Watson, giunta in Massachusetts per insegnare presso il prestigioso college femminile di Wellesley. Qui verrà immediatamente guardata con sospetto per il suo essere single e per la fama che la precede: quella di essere una donna indipendente, che ha compensato con il cervello ciò che le manca come status sociale.
Tutto in quell’ambiente è congelato da una mentalità alto borghese, che si fa scudo di presunti valori per mascherare l’ipocrisia che la contraddistingue; ciò che conta è l’apparente rispettabilità, l’ossequio delle “buone abitudini”. Così le ragazze dovrebbero essere come Monna Lisa: sorridere sempre, nonostante la gabbia in cui vivono, nonostante i limiti posti alle loro ambizioni, nonostante il ruolo a cui sono destinate, quello cioè di mogli obbedienti e null’altro. La professoressa lotterà affinché le sue allieve si emancipino, ma, al suo ritorno in città dopo qualche anno, le ritroverà tutte sposate, perfette casalinghe, costrette dalla mentalità patriarcale a rinunciare al proprio futuro, ai propri progetti di vita, e ad accettare supinamente la condizione di mogli e madri.

ELABORATO II
Lezione 10 marzo 2017
Natura – Cultura – Artificio
Il secondo incontro si è incentrato sul legame tra queste tre parole. In particolare natura e cultura condividono una storia lunga, caratterizzata da una contrapposizione molto marcata. Oggi sono considerate costrutti culturali ed entrambe rientrano tra le categorie interpretative tipiche delle varie comunità. Per una determinata popolazione, tuttavia, esse possono acquisire un significato che non necessariamente è riscontrabile, negli stessi termini, nella cultura di un’altra popolazione.

Paradossalmente l’essere umano si scinde tra natura e cultura. Quest’ultima non ha alcuna base biologica o genetica ma, tra il 1800 e il 1900, vi è stata una sorta di “naturalizzazione” della cultura, dato che molti costrutti culturali sono stati ricollocati tra gli elementi naturali.
Ciò che è naturale è la norma, mentre ciò che è culturale è più contestabile. Un esempio di questo fenomeno è il battesimo, considerato naturale, mentre, ad esempio, la mutilazione femminile è un fattore culturale, una tradizione. L’occidente ha diffuso questi concetti attraverso il colonialismo, rendendo, in questo caso, l’ideologia religiosa cristiana più vera di altre (per riprendere l’esempio). È un apparato costruito ad arte, che per funzionare non deve essere svelato del tutto, in modo da risultare socialmente accettabile.
Uno degli elementi più studiati nell’ambito culturale è il potere, in quanto chi lo detiene costruisce l’identità sociale.
Natura e cultura confluiscono nel corpo e uno dei primi modi tramite cui la società interviene sul corpo è attraverso la definizione di genere. In molte società fino all’adolescenza l’essere umano è neutro, solo in seguito al rito di passaggio vi sarà una distinzione tra i generi.
Margaret Mead colse la natura mutevole e culturale del temperamento maschile e femminile. La costruzione della personalità sociale e culturale sulla base del genere non significa che si produce un automatico temperamento maschile o femminile. Ciascuna società persegue specifici modelli.
L’antropologia approfondisce, riguardo l’argomento del genere, tre ambiti in particolare:
– relazione tra i generi;
– rapporti di potere tra i generi;
– stereotipi di genere delle culture.
Nella storia dell’antropologia raramente gli antropologi si rapportavano alle donne delle culture che stavano osservando. Le antropologhe femministe denunciarono questa situazione e misero in rilevo come l’occultamento nelle ricerche del rapporto tra generi abbia avuto come esito la perdita di innumerevoli elementi culturali.

Riguardo la relazione con il corpo sono molto importanti le arti performative che pongono corpi vivi davanti ad altri corpi vivi. In questo tipo di arti assume molto valore il legame corpo – artificio (es: microfono per ampliare e alzare il volume della voce, scarpette come protesi del piede, etc.) e, in tale contesto, la distinzione tra corpo naturale e corpo artificiale è molto labile. Il corpo diventa una macchina data la sua continua interazione con la tecnologia.


Video performance:
1. “Ridere” di Antonia Baehr (2010), basato sul concetto di corpi che producono stupore e orrore allo stesso tempo. A essere rielaborato è il concetto di “mostro” ripreso dal libro di Rosa Braidotti “Madri, mostri e macchine”, in particolare la trasformazione del corpo femminile a causa della gravidanza. Infatti in occidente è il corpo femminile ad essere definito mostruoso, proprio per questa sua mutevolezza;
2. “On line”, di Anne Therese De Keersmaeker: corpo, forma e geometria;
3. “Suddenly Birds”, di Yasmeen Goder (2002): disegno e costruzione dei corpi;
4. “Reproduction”, di Eszter Salamon: rapporto tra naturale-artificiale;
5. “The artificial Nature Project”, di Mette Ingvartsen (1998).
Per questo incontro vorrei allegare, al posto di un film, un documentario – Uncut – che mi è capitato di vedere qualche tempo fa e che parla in modo molto chiaro del legame di queste tre parole:
http://www.corriere.it/reportages/cultura/2016/uncutproject/?refresh_ce-cp

ELABORATO III
Lezione 17 Marzo 2017
Tradizione – Memoria – Oblio
Il terzo incontro del laboratorio si è concentrato su questo trittico di parole che indicano 3 diverse modalità:
1- la tradizione, che è vissuta in maniera più istituzionalizzata;
2- la memoria, che è un concetto più vivo che non passa necessariamente tramite le istituzioni pubbliche statuarie;
3- l’oblio, che si racchiude nel verbo dimenticare, viene trattato tramite l’ottica di Nicole Loraux che mostra come alle origini della democrazia vi sia un ritorno all’oblio per superare il trauma della vita associata.
L’incontro si è diviso in due parti. Nella prima vi è stato l’intervento di Federica Castelli, che ha esposto la politica istituzionale tramite gli scritti e gli studi di Nicole Loraux, che analizzano l’Atene del 5 secolo a.C., periodo in cui nasce la democrazia e sede ottimale per rintracciare le origini dei meccanismi di inclusione ed esclusione.
La polis era uno spazio omogeneo di fratelli (già da questa definizione si evince come dalla vita civile e politica fosse esclusa la donna), liberi e guidati dal logos.
Gli elementi che potevano turbare la vita ateniese e che potevano portare alla guerra civile, erano:
– la Follia
– la Violenza
– le Donne
Il primo elemento di squilibrio, la follia, è pericoloso perché si oppone al logos che guida gli uomini della polis, nella quale non era contemplata la violenza, mentre era considerata legittima in caso di guerra all’esterno della città.
Le donne sono forse l’elemento più pericoloso in quanto incarnano la memoria, che si oppone alla ricercata dimensione dell’oblio, che consente alla polis di mantenersi unita, tant’è che l’oblio diventa una delle virtù fondamentali degli uomini politici. Dimenticare significa mettere da parte possibili questioni che potrebbero mettere in pericolo la vita della città di Atene (sono stati elencati episodi quali: la tragedia di Frinico, che portò a vietare la produzione di qualsiasi tragedia che riguardasse la città di Atene, in quanto poteva riportare alla memoria episodi dolorosi in grado di riaprire conflitti, come la guerra civile del 403 a.C., in cui le due fazioni, per ricongiungersi, fecero voto di amnistia).
Un elemento che ha sollecitato il mio interesse riguarda sempre il ruolo della donna come portatrice di memoria, ma nell’ambito della riproduzione (questione esclusivamente femminile), rispetto alla quale la donna era vista:
– come un campo da arare;
– come una tavola di cera;
In entrambe le percezioni la donna è l’elemento su cui l’uomo deve “lasciare il segno” e, come dice Aristotele, la donna aveva svolto bene il suo ruolo se aveva partorito un figlio maschio simile al padre, in quanto ciò significava che l’incisione dell’uomo era stata forte e la donna non l’aveva dimenticata.
Ma, se è così, la Memoria non possiede un’accezione positiva tramite cui il ruolo della donna può essere elevato? A questa mia domanda ha risposto Federica Castelli dicendo che: “in questo processo alle donne viene attribuito un ruolo a partire da uno sguardo che non è il loro. Sono gli uomini, che hanno deciso che posizione – esclusivamente passiva – dare alle donne nel processo riproduttivo. Le donne, per i greci, hanno un senso all’interno del suolo civico solo in quanto riproduttrici. Non sono altro che la loro capacità di generare”.
La seconda parte dell’incontro è ruotata attorno all’intervento di Loredana Rotondo, autrice di trasmissioni radio e tv per la Rai e poi capo struttura di Rai International e Rai Educational.
Il suo impegno professionale e di ricerca l’ha portata a realizzare, all’interno della struttura Rai, un gruppo di lavoro segnato dall’intreccio di relazioni femminili e caratterizzato da un’attenzione particolare alle storie passate e presenti delle donne, costituendo il primo esteso progetto simbolico femminile realizzato in Rai. Per la rubrica “Vuoti di Memoria” di Rai Educational progetta e realizza 15 ritratti di donne e uomini singolari. Tra questi è molto significativo quello riguardante Carla Lonzi.

ELABORATO IV
Lezione 24 marzo 2017
Autodeterminazione – Liberazione – Empowerment
La lezione si è articolata su due interventi, il primo dei quali è stato quello di Alessandra Chiricosta, filosofa interculturale, storica delle religioni, specializzata in sud-est asiatico. La studiosa ha introdotto le tre parole chiave di questo incontro, spiegando che il terzo termine (empowerment) è complesso e in molte lingue non ha un corrispettivo che lo traduca; esso, inoltre, attraversa gli altri due termini e conferisce loro un nuovo significato. Il termine empowerment emerge nella conferenza mondiale sulle donne di Pechino, nel 1995. Riferito alla condizione della donna, riguarda un processo che tende alla modifica delle relazioni di potere nei diversi contesti del vivere sociale e personale. Questo termine ha, di conseguenza, una forte relazione con gli altri due, che ne diventano gli indicatori.
Il concetto di empowerment nella relazione mente-corpo agisce tramite l’inferiorizzazione di uno dei due sessi; ad esempio il corpo femminile è inferiore a quello maschile in quanto culturalmente associato alla cura dei figli (profezia che si auto-adempie). Come dice Rosi Braidotti, l’uomo nasce naturalmente culturale. Per liberarsi da questo potere coercitivo e violento le donne hanno cominciato a “potenziarsi” fisicamente tramite la pratica delle arti marziali, finalizzate a definire un “corpo combattente” femminile nella direzione dell’empowerment.
Questo concetto non va associato all’autodifesa, che inibisce la donna in quanto essa deve esclusivamente difendersi, prevedendo l’accettazione di pratiche violente nei suoi confronti.
Edith Garrud, insegnante di arti marziali, aprì una palestra che divenne un centro di incontro per le suffragette (suffrajitsu). Propose al movimento delle donne una diversa gestione del corpo nel momento in cui si è in piazza (proteste e manifestazioni); il concetto alla base di questa pratica era di rendere più forti i corpi per potenziare la propria lotta politica. La corporeità femminile si scopre non seconda alla fisicità maschile e prevede un lavoro a livello sia psicologico che corporeo.
Gulabi Gang è, invece, un movimento composto da 400.000 attiviste, fondato nel 2006 da Sampat Pali, contadina semianalfabeta che tramite questo movimento ha attivato politiche di aiuto per la sicurezza e la salvaguardia psicofisica delle donne. Le militanti sono esperte nell’uso del bastone e costituiscono un corpo combattente femminile che rimette al centro l’idea e la pratica della corporeità.
Un altro esempio proviene dalla Giordania, in cui viene praticato il Wen do, tecnica di difesa fisica e psicologica, in cui alla preparazione atletica viene affiancato un percorso di riflessione sulla violenza affinché le situazioni di brutalità e maltrattamento possano essere affrontate in maniera completa ed equilibrata.
Come si può dedurre, si tratta di esperienze nate in paesi prevalentemente “orientali”, luoghi in cui il patriarcato non ha avuto la possibilità di prendere il completo sopravvento.
Il secondo intervento è stato gestito da Eleonora Forenza, politica e attivista italiana, membro della segreteria nazionale del Partito di Rifondazione Comunista e responsabile del dipartimento legato alle attività del parlamento europeo. Fa parte del collettivo Femministe Nove e del direttivo dell’International Gramsci Society Italia.
Forenza afferma che queste tre parole – Autodeterminazione – Liberazione – Empowerment – non sono statiche ma indicano una processualità e, mentre i processi di liberazione e autodeterminazione non hanno un contenuto prestabilito, l’empowerment ha già in sé un significante contenutistico, tanto è vero che esistono centri di studio che elaborano indicatori per quantificare e misurare l’empowerment (es: disparità salariale, tasso di disoccupazione, etc..).
Questo termine è in diretta relazione con la questione del potere. Per il femminismo però è necessario spostare la liberazione e l’autodeterminazione verso la direzione delle possibilità.
La relazione è l’elemento fondante del movimento femminista in quanto la libertà deve essere riconosciuta. Il tema della liberazione come riconoscimento viene trattato ampiamente da Carla Lonzi, la quale si interroga su chi debba riconoscere la libertà alle donne, e la risposta è: le donne, compiendo il passaggio dal femminismo dell’emancipazione a quello della liberazione.
Forenza ha fatto inoltre un focus sul movimento “Non una di meno” (“Ni Una Menos”) che nasce nel 2015 in Argentina a seguito di un appello di giornaliste, attiviste e artiste per dire basta ai femminicidi e alla violenza maschile sulle donne. Presto il movimento si diffonde in tutto il paese come spazio politico di autodeterminazione delle donne per la costruzione di una società libera dal sessismo e dalla violenza.
Lo slogan coniato dal movimento –
«se non valiamo, allora non produciamo» – evoca piani politici molto interessanti già elaborati dal femminismo degli anni Settanta. A partire da questo slogan, le donne argentine sono riuscite a dar luogo a una mobilitazione di massa che si è espressa nella forma dello sciopero, inteso come sottrazione dalle funzioni produttive e riproduttive all’interno della società, ma anche come strumento che permette di rendere visibili, riconoscibili e pubblici i corpi e le vite delle donne, in una dimensione di indisponibilità e di sottrazione dai meccanismi di cattura, di dominio e di valorizzazione del capitale neoliberista.
Un film che tratta in maniera forte ed esplicita, a mio parere, le tre parole chiave dell’incontro è: “Mulan”, film di animazione del ’98, in cui la protagonista vorrebbe onorare la famiglia nell’unico modo possibile per una donna della rigida società patriarcale dell’VIII secolo: sposando un uomo benestante. Mulan però è poco incline ad adeguarsi alle imposizioni sociali e appena arriva la notizia della chiamata dell’imperatore alle armi decide di fuggire di casa e di fingersi uomo per difendere la nazione. Nonostante sia un film di animazione, a mio avviso è uno dei primi a non diffondere l’immagine della principessa convenzionale. Mulan è una donna forte, restia alle convenzioni sociali del tempo perché in esse non vi si identifica, ed è disposta anche a perdere la famiglia pur di non assoggettarsi alla società patriarcale dell’epoca.
Ho sempre trovato molto bella questa frase che l’imperatore rivolge a Mulan:

«Ho sentito tante cose su di te, Fa Mulan. Hai rubato l’armatura di tuo padre, sei scappata di casa, ti sei travestita da soldato, hai ingannato il tuo comandante, disonorato l’armata cinese, distrutto il mio palazzo e hai salvato tutti noi.»

Quindi, alla fine, nonostante Mulan si sia ribellata a tutte le imposizioni sociali dell’epoca, vi è riconoscimento da parte della comunità e potrebbe rappresentare la chiave affinché vi sia un cambiamento («Un solo chicco di riso può squilibrare la bilancia»).

ELABORATO V
Lezione 31 marzo 2017
Autocoscienza – Soggettività – Agency
L’incontro è stato incentrato sull’intervento di Valeria Mercantino, che ha analizzato il termine “soggettività”, che differenzia il femminismo della prima ondata da quello della seconda. Il femminismo di prima ondata è principalmente emancipatorio, mentre quello di seconda si basa sul riconoscimento della donna. Con soggettività non si intende quella definita da Cartesio, in quanto narrazione egoistica e isolata che rappresenta una trasformazione universale, né quella di Hobbes e Locke, in cui il soggetto che emerge è isolato e si unisce agli altri solo per contratto. La soggettività femminista non nasce da una spinta metafisica o politico-giuridica, ma da una condizione concreta. Vi è la consapevolezza che per costruire un pensiero sul soggetto è fondamentale la relazione con le altre, ma non vi è comunque una pretesa universale.
La soggettività femminista da una parte è riconoscimento dei condizionamenti relazionali e dall’altra una sovranità del proprio sé.
L’agency può essere assimilabile all’autodeterminazione, ha fondamentalmente a che fare con il corpo (aborto, divorzio, contraccezione, etc.), riguarda il poter decidere di sé e implica l’allontanarsi dai condizionamenti socio-culturali della società maschilista.
È tuttavia un termine ambiguo, tanto che la Lonzi si domanda: come possiamo definirci libere se ancora viviamo in una società di uomini? Secondo il suo parere non si poteva parlare di libertà di aborto/maternità se non vi era la libertà sessuale e ritiene l’aborto come l’atto di una donna sottomessa alla cultura maschile.
L’autocoscienza invece fa riferimento a una pratica del femminismo degli anni ’70 ed è il processo che permette alle donne di arrivare alla coscienza di sé. Molte donne si univano e creavano dei piccoli gruppi (7-8 donne) che si incontravano nella casa di una delle partecipanti ed elaboravano un pensiero politico. Questa tipologia di aggregazione nasce dal movimento per i diritti civili dei neri negli anni ’60, che ragionavano a partire dalla loro discriminazione.
Serena Castaldi è la fondatrice di uno dei piccoli gruppi in Italia.
L’autocoscienza è la pratica di massa del femminismo italiano di quegli anni e ha avuto una grande capacità di circolazione delle idee. Nel ’74 iniziano a disperdersi i gruppi a causa:
– discussione sull’aborto;
– pratica dell’inconscio (“La pratica dell’inconscio definisce inizialmente il progetto di due gruppi milanesi di portare nel movimento delle donne non solo un campo di ricerca aperto dalla psicanalisi, ma anche il rapporto duale analista-paziente” Lea Melandri).
Da parte mia vorrei concentrarmi sul termine autocoscienza e mi piacerebbe compiere una riflessione a questo proposito attraverso il film “Frida”. Si tratta di una pellicola biografica che racconta la storia della famosa pittrice Frida Kahlo. Tenendo conto che l’artista è cresciuta in una realtà, quella messicana, caratterizzata da un forte machismo, ha la fortuna di crescere in una famiglia di intellettuali “illuminati” che le permetteranno di dedicarsi all’arte. Questa piccola premessa biografica mi serve per introdurre il tema dell’autocoscienza attraverso gli autoritratti, che la stessa Frida Kahlo definisce in questi termini:

«dal momento che i miei soggetti sono stati sempre le mie sensazioni, i miei stati mentali e le reazioni profonde che la vita è andata producendo in me, ho di frequente oggettivato tutto questo in immagini di me stessa, che erano la cosa più sincera che io potessi fare per esprimere ciò che sentivo dentro e fuori di me» (H. Herrera, 1983, “Vita di Frida Kahlo”, pag 197).

L’autoritratto ripercorre e rispecchia dunque le tappe fondamentali della formazione dell’Io, portando in superficie e rielaborando le ansie correlate al senso della nostra identità. In tal modo si configura come un racconto autobiografico, una confessione, una interrogazione, un gioco speculare in cui si prende coscienza della dimensione del proprio corpo e della propria immagine che non sempre coincidono con quella mentale. L’artista quindi sceglie sé stesso come modello e si reinterpreta.

ELABORATO VI
Lezione 7 aprile 2017
Diritto – Diritti – Giustizia
Il primo intervento è stato quello di Anna Simon, docente di sociologia del diritto, che ha individuato il termine che lega le tre parole chiave: conflitto. Ha citato, sul piano simbolico, la figura di Antigone e a quella di Porzia, in quanto queste due figure femminili hanno capovolto la risoluzione di un conflitto/situazione voluta dagli uomini senza l’uso dello scontro diretto.
Per diritti si intendono i diritti delle donne e delle altre minoranze di genere e, appunto, durante il corso dell’incontro, sono stati presentati diversi casi sull’argomento. Il diritto è per certi versi discriminatorio in quanto custodisce una moralità universale che, però, spesso poggia su basi troppo retrograde e tende a difendere determinati status. La generalizzazione della norma non deve portare all’inapplicabilità della giustizia. Quest’ultimo concetto si apre su due fronti: tradizione e rivendicazione delle generalità.
Oggi in Italia non si parla più di patriarcato ma di paternalismo e questa modifica produce un’illusione del cambiamento e di un’emancipazione liberatoria.

Il secondo intervento è stato condotto dalla professoressa Silvia Niccolai che ha sollevato la questione centrale della bigenitorialità, il progetto genitoriale e la predisposizione alla genitorialità. La legge a riguardo vanifica il corpo della donna, portando a domandarsi se, in questo caso, il femminismo non abbia fallito.
Il terzo intervento è stato curato da Angela Condello che ha posto l’accento sui binomi “genere-diritto” e “diritti umani-diritti di genere”. La complessità dei vari casi dovrebbe tener conto del percorso di vita del soggetto coinvolto. Non bisogna basarsi sull’omologazione ma sulla norma universale da rivedere secondo l’applicabilità specifica in nome della differenza rivendicata dal femminismo, del concetto una ad una, del confronto e dell’esperienza individuale.
Ilaria Boiano, giurista impegnata soprattutto sul rapporto tra diritto penale e femminismo, ha guidato l’ultimo dei 4 interventi, presentando casi reali di processi relativi alla violenza sulle donne.
Il film “We want sex” (tratto da una storia vera) è stato per me un notevole input alla riflessione generale sullo squilibrio, tutt’oggi esistente, tra il ruolo della donna e quello dell’uomo nella società.
Il film è incentrato sui diritti del lavoro femminile, si svolge in Inghilterra, paese all’avanguardia nell’ambito industriale ed è ambientato nell’industria della Ford di Dagenham tra gli anni ’60 e gli anni ’70. L’obbiettivo del film è di raccontare la storia delle lavoratrici del settore tessile di questa industria, che ambiscono a ottenere lo stesso stipendio degli uomini e a essere considerate operaie. Dimostra le difficoltà che incontrano queste donne per essere riconosciute come lavoratrici al pari degli uomini, ma soprattutto insegna come una piccola voce (Rita O’ Grady) possa smuovere tante persone e poter produrre un cambiamento.
Questo film mi fa sentire orgogliosa, in senso ampio, di essere donna e mi fa riflettere sul fatto che se oggi ho tante opportunità è anche grazie alla lotta di queste femministe, perché tali, di fatto, esse sono.

ELABORATO VII
Lezione 21 aprile 2017
Affettività – Sessualità – Parentela
Riguardo questo argomento il primo intervento è stato curato dalla dott.ssa Alessia Acquistapace, antropologa, che ha incentrato la riflessione sulla violenza maschile moderna che si attua attraverso microricatti all’interno delle relazioni. Molto spesso questi ricatti “velati” si presentano anche in coppie che potrebbero essere definite emancipate, ovvero in cui entrambi i partner lavorano e vivono situazioni sociali anche esterne alla coppia (amicizie non in comune, hobby diversi, etc..), ma che comunque relegano la donna nella dimensione domestica, in quanto è lei a occuparsi della casa e ad avere cura dei figli.
Caratteristica di molte coppie, intendendo questo concetto in senso lato, è quella di identificarsi in questa definizione delle due persone. La coppia ha delle caratteristiche sociali, quali la fedeltà, progetti futuri comuni che hanno uno sviluppo temporale e la sua priorità rispetto ad altre relazioni. Questi fattori possono essere considerati limitanti, in quanto portano entrambi i partner a costruire il proprio futuro in funzione della coppia.
Nella società di oggi non è raro che, in un’età compresa tra i 30 e i 35 anni, gli individui facciano una meta riflessione sulla base di questo costrutto sociale. Spesso si è portati a pensare sé stessi nella relazione di coppia, vi è aspettativa e pressione sociale affinché la persona si realizzi soprattutto nella vita di coppia, anche se, frequentemente, ciò significa non realizzarsi.
Quando le proprie aspirazioni non coincidono con questa visione che, per certi versi, è socialmente imposta, si è in “torto” dato che l’idea comune innalza la relazione amorosa standard a baluardo della realizzazione personale.
Anche se, in realtà, non solo la relazione di coppia garantisce alla persona stabilità, emotiva e psicologica, in quanto, fin dalla nascita, l’individuo costruisce una rete di relazioni che, generalmente, sono caratterizzate da sentimenti positivi, come le relazioni amicali, la famiglia, i colleghi di lavoro, etc… In quest’ottica, le relazioni che un individuo decide di instaurare contribuiscono al suo benessere. Ma, nonostante possano essere considerate fondamentali, non danno vantaggi di tipo sociale  (ad esempio stare vicino al compagno ha un peso maggiore rispetto a stare vicino a un amico).
Per decentrarsi dalla visione dell’individuo nella coppia è necessario riorganizzare tutta la propria rete di relazioni, ma, nonostante il numero delle opzioni sia aumentato, questo procedimento di liberazione è limitato al concetto di autorealizzazione, in una visione quasi egoistica.
Sarebbe necessario organizzarsi collettivamente per mettere in discussione i costrutti sociali che limitano il movimento e le preferenze dell’individuo, che così diventa un soggetto stressato, oppresso e ansioso.
A seguire vi è stato l’intervento della dott.ssa Federica D’Andrea, che ha trattato il rapporto della donna nella maternità e nella tecnologia. Il sé è un’unità inscindibile di mente e corpo, occorre radicarsi nel corpo per far emergere la vera soggettività dell’individuo.
Il rapporto della donna con il corpo biologico la porta a diventare automaticamente madre in quanto questo è il suo destino. Il corpo è una superficie politico-discorsiva su cui agiscono degli effetti di potere (Foucault) che regolano la vita del singolo tramite enti e istituzioni che disciplinano il singolo, per giungere alla normalizzazione, limitando l’io.
È un processo in cui varie tecniche di conoscenza e domesticazione intervengono per esercitare un controllo affine alle caratteristiche socio-economiche dominanti. Queste azioni agiscono anche sul controllo della riproduzione (basti pensare alla limitazione delle nascite in Cina). Questo potere si muove intorno al concetto dell’anatomo-politica e della bio-politica che confluiscono nella sessualità. Quest’ultima dà accesso alla vita pubblica e allo spazio più intimo e corporeo.
Il sesso diventa la linea di contatto tra ciò che si conosce della sessualità e le scienze biologiche della riproduzione, creando una connessione politica che consacra il ruolo della donna nei confronti della sua specie. Tutto ciò è volto allo scopo di creare assoggettamento, in cui l’individuo macchina viene rinchiuso in questo circolo di potere e, ancora oggi, la bio-politica si impone nella questione della riproduzione, soprattutto tramite le nuove tecnologie.
Il femminismo supera questo dualismo, in favore della molteplicità: il corpo non deve essere ridotto all’essere biologico e alla dimensione sociale della donna-madre. Non deve esserci forzatamente un destino biologico o anatomico, ma è necessario essere padrone del proprio corpo per elaborare forme alternative di sapere che emancipino la donna da queste catene.
Nella gravidanza vengono ricondotti dei ruoli e delle funzioni. Negli ultimi 100 anni la donna ha dovuto interiorizzare dei concetti scientifici che prima non erano sanciti dal medico, era la donna a stabilire la propria gravidanza che poi veniva decretata anche dal medico.
Come è stato oggettivato il feto? E come le donne hanno permesso che la dimensione della gravidanza divenisse pubblica?
Da fatto estremamente privato si passa al controllo totalmente esterno di questa condizione che ha inizio nel ‘800, periodo in cui il paradigma si sposta nell’ambito medico, che diventa parte di un destino biologico che comincia a trattare il corpo come qualcosa di già conosciuto. La scoperta della gravidanza ha inizio dall’esterno e si inizia a lavorare sul codice del diritto riguardo l’aborto. Il primo metodo di osservazione si afferma nel 1818 con lo stetoscopio. La svolta arriva nel 1960 con l’invenzione dell’ecografia, che tramite suoni di ritorno, basati sullo spessore, produce un’immagine. Questi sono tutti tentativi di rendere il feto visibile, dato che la scienza si basa sulla visibilità dei fenomeni.
Sono state ideate delle griglie standard del feto in base a uno sviluppo generalizzato; se il feto nella gravidanza non segue questo percorso si crea uno stato d’ansia nella donna in quanto non si tiene conto delle ripercussioni emotive che possono scaturire dai dati medici. Un esempio di questo fenomeno è il Duo test, che nel 30% dei casi dà un falso positivo.
Dopo gli anni ’90 la possibilità di vedere il feto ha conferito a quest’ultimo uno status, che, a volte, supera anche quello della donna nel momento della scelta dell’aborto.
Un altro esempio di questa tecnologizzazione della gravidanza è l’inseminazione artificiale. Anch’essa fa uso del senso visivo per assicurarsi della compiutezza dell’atto e viene spesso vissuta come un’esperienza estraniante.
Questo processo è avvenuto tramite 3 passaggi:
– scientifico;
– diffusione tramite mass media;
– il percepire, ad esempio, il feto come una protesi del proprio corpo in conseguenza della possibilità di monitorare la gravidanza attraverso dispositivi tecnologici, come l’ecografia, può indurre a considerare l’eventuale scelta dell’aborto come una mutilazione inferta al proprio Sé.
Quindi l’universo tecnico ha dei risvolti concettuali sulla persona che coinvolgono l’universo conoscitivo e personale. Vi è una produzione di valore sociale a partire dall’organicità, si è passati a una sorta di bio-capitalismo e si crea valore laddove prima vi era solo naturalità.
Per questo incontro mi sento di consigliare un film che potrebbe essere considerato “fuori luogo”, ma che, a mio parere, ironicamente smorza un po’ i toni, senza però omettere i messaggi fondamentali trasmessi da questo corso. Il film in questione è “Hysteria”, ambientato in Inghilterra durante l’epoca vittoriana, tratta l’invenzione del vibratore, originariamente nato per curare l’isteria. In questo contesto un giovane medico comincia a lavorare per un noto studio che tratta l’isteria attraverso la manipolazione dell’organo femminile (la cura era letteralmente la stimolazione fisica della donna). Mortimer, il protagonista, inizia a soffrire di crampi alla mano destra per le eccessive sedute terapeutiche. Il vero personaggio chiave del film è però Charlotte, figlia del superiore di Mortimer, di convinte ideologie socialiste e femministe, con diversi precedenti penali e, per questo, dal padre stesso considerata gravemente isterica. Il susseguirsi di varie vicende nel film porterà all’invenzione del vibratore.
In questo contesto molto ironico e, per certi versi, tagliente, emerge il tema largamente trattato in questo incontro dell’influenza delle tecnologie sulla vita e sulle scelte delle donne che, però, nella pellicola, diventa uno strumento di emancipazione e di liberazione dall’etichetta di una malattia inesistente.

Redazione

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