Reddito di autodeterminazione e lavoro insubordinato

Reddito di autodeterminazione e lavoro insubordinato

Pubblicato in «Critica marxista», 2012, n.2-3, pp. 35-41

La riforma del lavoro Fornero si fonda su una strumentale e mistificatoria contrapposizione fra “garantiti” e “non garantiti”. Quella del Quinto stato è una condizione che va universalizzandosi. La ridefinizione capitalistica del lavoro. Il reddito di autodeterminazione come obiettivo che può unire Quarto e Quinto stato.

La furia. La furia dei corpi e dei cervelli come postura allo stesso tempo critica e affermativa, costruttrice: «non si fa politica-storia senza questa passione»1. Una passione indispensabile per conoscere e trasformare, per «ampliare il fronte del possibile» (come scrive Rosi Braidotti), per immaginare materialmente una via d’uscita dal capitalismo in crisi. Credo che il «furore» come «espressione della rabbia degna e dell’odio contro un mondo organizzato sul principio della disperazione e della mancanza»2 sia in questa fase un reagente necessario – l’indignazione non è sufficiente, e la prudenza, oltre che triste3, è anche dannosa – per riaprire una stagione di opposizione e di conflitto contro l’ espropriazione di presente e di futuro per intere generazioni. Il dibattito intelligentemente aperto sulle pagine di questa rivista su «lavori, non lavoro, reddito» si connota, in fatti, di una materialissima urgenza nel tempo accelerato delle trasformazioni che stiamo vivendo e di una stringente necessità di assumere un posizionamento di fronte ai bivi – diverse direzioni delle vite e della storia – che si presentano nella crisi, in questa crisi.

Una contrapposizione mistificatoria

Una crisi capitalistica, o meglio una fase in cui il capitalismo come «“continua crisi”»4 sta agendo una potentissima ristrutturazione de gli assetti economici, sociali, politici. La crisi, anche, come perno di una «shock economy», di una narrazione che colonizza il senso comune sostituendo l’ineluttabile al possibile, la tecnica politica. Ampliare il fronte del possibile producendo un nuovo senso comune è allora un’urgenza politica per rompere la connessione fra dominio e passivizzazione. L’estensione e l’intensificazione dello sfruttamento, la produzione di esclusione determinata dalle politiche di austerity e dalla debitocrazia così come da un onnivoro processo di mercificazione e recinzione prodotti dal capitalismo, dalle politiche neoliberiste di gestione della crisi, inducono, a mio avviso, a reinterpretare il tema dei lavori e del reddito alla luce di un problema di fon do, ossia la costruzione della soggettività, o delle soggettività, del conflitto:
– l’estensione del dominio capitalistico produce la subalternità materiale del «99%» – come scrivono i movimenti “occupy” – e al contempo passivizzazione di massa: a livello globale, vi è una crescente sproporzione, per dirla classica mente, tra classe in sé e classe per sé. L’egemonia capitalistica, cioè, produce subalternità anche attraverso forme sempre più pervasive di colonizzazione del senso comune: come possiamo riattivare processi di soggettivazione? Come possiamo ricostruire la soggettività del conflitto? Su quali ancoraggi e su quali leve?
La governance come forma ademocratica della politica, vale a dire la costitutiva espulsione della società dai processi decisionali attraverso lo svuotamento delle assemblee rappresentative e l’impermeabilizzazione del governo al conflitto, parlano anche di una perdita di efficacia del nesso conflitto-rappresentanza per come l’abbiamo storicamente conosciuto nell’Europa occidentale. Come riattivare una efficacia del conflitto?
Il caso italiano assume una sua emblematicità in questo conte sto: il governo “tecnico” riesce ad approvare la riforma delle pensioni, a introdurre il vincolo di pareggio di bilancio in Costituzione con la modifica dell’articolo 81 e a proporre una riforma del lavoro devastante in una quasi totale assenza di conflitto (se si escludono la Fiom, la manifestazione “occupy piazza affari”, quella della Federazione della sinistra e poche altre eccezioni), in ogni caso di una mobilitazione ben al di sotto del necessario e di quanto accade in altri paesi europei e non solo.
In particolare, l’attuale riforma del lavoro a firma Fornero si fonda su una strumentale e mistificatoria contrapposizione fra “garantiti” e “non garantiti” al fine di un livellamento al ribasso delle condizioni di lavoro e di vita: mistificatoria, perché con la demolizione dell’articolo 18 si estende ai lavoratori a tempo indeterminato la condizione di ricattabilità cui è sottoposto il lavoro precario (meno di dieci anni fa più di undici milioni di persone si espressero in un referendum a favore dell’estensione dell’articolo 18); strumentale per ché permangono più di quaranta forme di contratti precari e la nuova Aspi è di difficilissima fruizione: dunque, nulla che seriamente modifichi, se non in peggio (con l’aumento dell’aliquota previdenziale per le partita Iva), la condizione dei “non garantiti”.
Mi sembra ovvio che non si possa e non si debba introiettare la strumentale contrapposizione fra garantiti e non garantiti, la logica dello scontro generazionale. Ed è evidente che l’indispensabile per corso di soggettivazione politica del Quinto stato – il darsi un nome delle generazioni precarie, cioè la costruzione di coscienza su una di versa condizione di vita e di lavoro non nasce contro il Quarto stato. Mi sembra, dunque, mistificatorio anche attribuire al movimento del le precarie e dei precari la stessa lettura del reale, la stessa logica contrappositiva proposta dalla Fornero.
La condizione di esclusione dalla sfera di una cittadinanza di segnata su parametri lavoristici e familistici, così come la voragine di garanzie pensionistiche per il popolo della “gestione separata”, per le figlie e i figli delle varie riforme da Dini a Fornero, reclamano una risposta, che ovviamente non è nello smantellamento dei diritti acquisiti per altre lavoratrici e altri lavoratori: richiedono una op posizione che sappia essere costituente, immaginare nuovi diritti del lavoro e una nuova idea di cittadinanza.
Mi sembra, cioè, necessario – anche per non agevolare la mistificazione “forneriana” – non concederci il lusso di attestarci sulla reiterazione, sulla longue durée di una contrapposizione fra “lavoristi” e “redditisti” che data almeno trent’anni come se di mezzo non fossero intercorse una poderosa ridefinizione capitalistica del lavoro e dei processi di valorizzazione e al contempo la necessità di una ride finizione sociale del lavoro e, di conseguenza, di una idea di welfare e di cittadinanza.
Se i processi di precarizzazione, di messa a valore del cognitivo e del relazionale, di recinzione ed esclusione investono progressivamente tutte le forme di lavoro (e di vita), si può forse parlare di uno scivolamento progressivo  del Quarto stato nella condizione del Quinto.
Quella del Quinto stato è la condizione di una parzialità che progressivamente si generalizza, è una posizione da cui si possono leggere le forme attuali del dominio, prefigurare l’estensione delle forme di subordinazione già in atto e al contempo immaginare processi di liberazione e di conflitto più comprensivi. Il Quinto stato non è un’avanguardia, è un’anteprima, se per Quinto stato intendiamo – come ha scritto Roberto Ciccarelli: “non solo la condizione del precario, dell’atipico e del parasubordinato descrivibile «alla luce della posizione contrattuale del soggetto che lavora (o che non lavora)», ma «una condizione universale in cui le persone vivono in ragione della rottura del patto sociale fordista-keynesiano»5.  Usando altre categorie, Slavoj Žižek sostiene che «l’odierna situazione storica non solo non ci costringe ad abbandonare la nozione di proletariato o di posizione proletaria – ma, al contrario, ci impone di radicalizzarla a un livello esistenziale che va ben oltre l’immaginazione di Marx. Abbiamo bisogno di una nozione più radicale del soggetto proletario» poiché «la progressiva “recinzione” del comune è un processo di proletarizzazione di coloro che, subendola, sono esclusi dalla loro stessa sostanza»6.
Il nodo politico è, dunque, l’alleanza fra Quarto e Quinto stato, ma non solo. O meglio non nei termini di una mera sommatoria, ma di un nuovo “spirito di scissione”, di una coalizione per la fuoriuscita dalle subalternità rispetto alle attuali forme del dominio: in grado cioè di operare per una ridefinizione sociale del lavoro e un’idea universalistica di cittadinanza, svincolata da disciplinamenti lavoristici e familistici. Uno spirito di scissione radicato nel conflitto, o forse – si potrebbe dire – in una lotta di classe che eccede la contraddizione di classe.

 La ridefinizione capitalistica del lavoro

«Come nasce il movimento storico sulla base della struttura»7, di questa struttura del capitalismo? Credo che l’attualizzazione di questa domanda gramsciana  implichi una rilettura delle attuali forme del dominio neoliberista. Parliamo, in primo luogo, di una dimensione tendenzialmente totalitaria del capitalismo, di una estensione e intensificazione della messa a profitto dell’umano, del sessuale, del relazionale, della cura: di uno sfruttamento biopolitico della forza-lavoro che si estende, anche in virtù dei processi di precarizzazione, al tempo di vita e non solo a quello di lavoro.
Come ha scritto Cristina Morini, «l’implementazione dello sfruttamento delle capacità cognitive all’interno del nuovo paradigma di accumulazione» messa in atto nel «capitalismo cognitivo […] raffigura una delle nuove forme critiche della dominazione che in nervano, complessivamente, il lavoro oggi. Da questo punto di vista, le analisi condotte sul capitalismo cognitivo non devono essere considerate antitetiche a quelle condotte sulle relazioni economiche e sui rapporti di sfruttamento in altri contesti produttivi. Esse possono piuttosto costituire un arricchimento e un’integrazione per una maggiore  comprensione  della realtà del lavoro vivo contemporaneo»8.
Nel crinale periodizzante del biennio 19891990 in Italia il movimento della Pantera «comprese le finalità della  trasformazione neoliberista dell’economia della conoscenza» e si oppose «alla precarietà di massa, alla generale psicopatologia delle passioni tristi prodotte da un lavoro intermittente non garantito, alla colonizzazione mercantile dello spazio mentale e di quello fisico»9. Il lavoro cognitivo precarizzato, dunque, come la boratorio del capitale in cui si sperimentano quelli che progressiva mente diventano i processi di generalizzazione della precarietà e del la messa a valore della conoscenza, è anche però luogo di formazione di una nuova coscienza collettiva, che non cerca di raccogliere l’aureola caduta, ma vede nel proprio pre sente di precarietà il rischio di un destino più generale.
Almeno da allora, la soggettivazione politica del Quinto stato è stata ed è un percorso di acquisizione progressiva di autocoscienza a partire dalla condizione di lavo ro e vita che accomuna ormai diverse generazioni; ha dovuto fare i conti con la precarietà e la frammentazione delle nuove tipologie di lavoro, con l’autonarrazione come strategia per costruire collettività a fronte di un mondo che ti vuole competitivo e dell’impossibilità di accedere alle forme classi che di conflitto e di difesa dei propri diritti (la sindacalizzazione e il diritto di sciopero, ad esempio).
Ora sembra si voglia imputare al Quinto stato di non nutrire come utopia l’incubo totalitario di una piena occupazione subordinata né come ambizione l’inclusione in un patto sociale, quello fordista keynesiano, che non l’ha previsto. Perché? Quel patto sociale, pro dotto dalle lotte dei “trenta glorio si”, è esploso. Ed è esploso in virtù della reazione del capitale che viviamo oggi.
Lungi dal considerare resi duale il regime di fabbrica, pensiamo che oggi il conflitto di classe si debba cimentare all’altezza del le forme determinate dell’attuale capitalismo, porsi come supera mento “dei punti più alti dell’avversario”: occorre costruire, per in tenderci, l’Anti-Marchionne – ossia combattere quell’estensione del regime di precarietà e ricattabilità storicamente arginato dal contratto nazionale.
Sia ben chiaro che difendiamo, anima e corpo, tutte le conquiste frutto delle lotte: in primis, la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori. Ma – ed è questa la sfida – vorremmo provare a pensare che la coalizione tra Quarto e Quinto stato possa fondarsi su un assunto zemaniano: «la miglior difesa è l’attacco». Provare cioè a immaginare dalla “posizione di anteprima” del Quinto stato – che sempre più efficacemente è usato come “esercito industriale di riserva” per smantellare i diritti del Quarto – battaglie unificanti per la liberazione dal lavoro subordinato e per un nuovo modello di cittadinanza: ad esempio, il reddito di autodeterminazione.
Per descrivere la posizione e la sfida proposta dal Quinto stato tornano non a caso utili le riflessioni di una femminista: «questa è la posizione del differente che vuole operare un mutamento globale del la civiltà che l’ha recluso». Dunque «approfittiamo della differenza»10.

La “metafora” della femminilizzazione

«Noi identifichiamo nel lavoro do mestico non retribuito la presta zione che permette al capitalismo, privato e di Stato, di sussistere»11: non so se i “padri” costituenti avessero in mente anche il lavoro do mestico quando hanno scritto l’articolo 1. Non credo. Certo è che il lavoro domestico da quel patto fordista-keynesiano, da quell’impianto lavorista e familista del welfare, era escluso. O meglio, ne era un presupposto non riconosciuto, al massimo destinatario indiretto delle garanzie del male breadwinner.
Il pensiero e la pratica delle donne sul lavoro produttivo e riproduttivo, su quello retribuito e non, su quello riconosciuto e non – così come sulla necessità di rom pere queste dicotomie per leggere la materialità delle vite – si può considerare sotto molti aspetti, a mio avviso, una “genealogia” del Quinto stato. Proprio perché le donne hanno fatto della loro esclusione, e della loro differenza, non una mera richiesta di inclusione, ma una parzialità e una posizione da cui pensare un’idea di libera zione che parlasse delle vite e del lavoro di tutte e tutti.
Il lavoro “fuori casa” è stato storicamente per le donne al con tempo un luogo di emancipazione e un luogo di «emancipazione ma lata»12. E non a caso la cosiddetta
«femminilizzazione del lavoro» si può ritenere sia attuale frontiera dell’emancipazione malata che paradigma della precarizzazione e della messa a valore del relaziona le che connotano lo sfruttamento postfordista.
Come ha scritto Nina Power, vi è una «intersezione fra capitalismo consumistico e ideologia del lavoro»13. Penso si possa parlare di una sussunzione del “femminile” nella ridefinizione capitalistica del lavoro attraverso la messa a pro fitto del relazionale, del sessuale, delle capacità di cura14. È la disponibilità (del tempo, del corpo, del lavoro, della vita) il perno del la femminilizzazione: precarizzazione e femminilizzazione parlano cioè di un più pervasivo potere governamentale del capitale nel disporre delle vite. La femminilizzazione del lavoro, dunque, non come nuova libertà delle donne nel lavo ro, ma come declinazione di una biopolitica che governa vite e corpi, di un neocapitalismo che mette a profitto lavoro e vita, corpo e mente, l’intera soggettività. Femminilizzazione, dunque, come “metafora” di processi di valorizzazione capitalistici che investono il lavoro di entrambi i generi, ma anche come nuovo modello di inclusione subordinata del lavoro delle donne. La “metafora” della femminilizzazione dovrebbe allora suggerirci che è proprio questa, ora, storicamente, la posizione, la parzialità – quella delle donne e del Quinto stato come lavoro femminilizzato per entrambi i generi – da cui pensare non a una semplice estensione dell’attuale nesso fra lavoro e cittadinanza, ma a un nuovo modello di cittadinanza e a una ridefinizione sociale del lavoro.

Reddito di autodeterminazione

Ora, proprio il lavoro di cura non riconosciuto, da un lato, e il relazionale messo a profitto, dall’altro, sono elementi che dovrebbero indurci a non avere come obiettivo una estensione onnivora del lavoro merce – per cui il riconoscimento del lavoro di cura passerebbe necessariamente, appunto, attraverso il suo divenire lavoro-merce –, bensì una più complessiva ridefinizione socia le del lavoro, diversi meccanismi di riconoscimento e definizione della cittadinanza, la liberazione del lavoro dalla subordinazione e dalla sua mercificazione.
Il tema della demercificazione mi sembra centrale anche per ché, oltre a quello della finanziarizzazione, il paradigma oggi do minante nel processo di accumulazione capitalistico è proprio quello della mercificazione e della recinzione: ossia un paradigma più ampio, che include e non cancella ovviamente quello della valorizzazione, della estrazione di profitto dal lavoro subordinato, reso anzi più intensivo, come insegna Marchionne. Il carattere estensivo, oltre che intensivo, del processo di accumulazione, cioè, eccede il rapporto capitale-lavoro, ponendoci il problema del divenire-merce di beni comuni (in un processo di recinzione che ricorda che per molti versi il processo di accumulazione originaria) e facoltà umane. Assistiamo, in altri termini, a una «trasformazione relativa e graduale del profitto, generato dallo sfruttamento della forza lavoro, in rendita, la cui appropriazione è ottenuta tramite la privatizzazione del “general intellect”»15.
In questi anni si sono molti plicate le lotte per la difesa e l’estensione dei beni comuni, esperienze che non solo hanno segnato importanti inversioni di tendenza in una lunga stagione di sconfitte, ma sono anche diventate laboratori per pratiche di partecipazione, cittadinanza, autogoverno: pensiamo, ad esempio, al referendum sull’acqua, al Teatro Valle occupato, alla lotta noTav.
Il tema dei beni comuni ha unificato conflitti: proprio nei conflitti per i beni comuni abbiamo imparato che la definizione dei beni comuni stessi è sociale, deri va, appunto, dai conflitti. Abbiamo iniziato a chiamare bene comune acqua, sapere, cultura, democrazia. Abbiamo definito anche il lavoro un bene comune (manifestazione Fiom del 16 ottobre 2010), e ciò dovrebbe farci porre il tema di una ridefinizione sociale del lavo ro stesso, di una sua possibile sottrazione alla mercificazione. Coniugare lavoro e beni comuni implica anche che non si può pensare a una reale demercificazione del prodotto in presenza di una mercificazione del suo processo produttivo: e questo è immediatamente evidente per il lavoro cognitivo che, appunto, produce conoscenza, un bene comune.
Sia come rivendicazione al l’altezza delle  attuali forme di mercificazione e sfruttamento che come elemento indispensabile per demercificare il lavoro a me sembra che quella per un reddito di autodeterminazione possa essere una battaglia comune  a Quinto e a Quarto stato. Possiamo reclamare reddito, cioè, al contempo, sia per la messa a valore delle nostre vite agita dal capitale, sia per pratica re la demercificazione del lavoro come prospettiva di liberazione del lavoro, dal lavoro subordinato.
Il lavoro come attività umana ci parla di esigenza di riconoscimento, di un luogo di relazione e soggettivazione. Tornare a pensare il lavoro non come attività salariata o subordinata, ma come attività umana, implica una doppia mossa. In primo luogo, demercificare il riconoscimento, non fare più del lavoro il luogo dell’attività umana mercificata che consente l’accesso alla cittadinanza. In secondo luogo, connettere in modo nuovo lavoro, reddito e autodeterminazione. Pensare a un reddito di autodeterminazione, un reddito di base universale e incondizionato che renda possibile l’autodeterminazione e ripensare il lavoro come un luogo dove l’autodeterminazione si realizza liberamente: un lavoro insubordinato. Il reddito è “solo” una “riforma”, ma è anch’esso una possibile anteprima per chi immagina un futuro in cui chi lavora decide quale è l’attività necessaria da compiere anche in base a una esigenza sociale rispetto a cui ci si sente responsabili, e, dunque, riconosciute/i.

Un altro becchino è possibile

Indubbiamente l’idea di una de mercificazione del lavoro può ave re oggi il sapore di un’utopia, anche se probabilmente ha lo stesso tasso di realizzabilità di un’ipotesi di ritorno al patto fordista-keynesiano o di una via keynesiana alla liberazione del lavoro.
Concretamente, però, quella per il reddito di autoderminazione, per un reddito minimo di cittadinanza, è oggi una battaglia prati cabile a livello europeo (in molti paesi vi è già un reddito minimo) e unificante, in grado di parlare al precariato cognitivo metropolita no e alla disoccupazione del sud, al lavoro produttivo e riproduttivo, architrave per una possibile riforma non familistica e non lavoristica del welfare. Il reddito di cittadinanza è, semplicemente, in questa crisi, una misura antirecessiva e insieme una misura utile per la fuoriuscita dal ricatto per Quarto e Quinto stato. Reddito e beni comuni sono oggi due assi di lavoro su cui connettere soggettività del conflitto, nominare le contraddizioni all’altezza del presente e co struire l’alternativa possibile.
Gramsci analizzò profonda mente come nel contesto della fordizzazione avvenissero processi di formazione standardizzata del senso comune e come, per converso, in quella fase dello sviluppo delle forze produttive si potessero produrre processi di soggettivazione controegemonici, passando alla  coscienza «contraddittoria» dell’«uomo attivo di massa», alla «comprensione critica di se stessi», alla «coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica)», come
«prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano»: ove «l’unità di teoria e pratica» è «un divenire storico»16. Il tema oggi è come uscire dalla subalternità, come costruire una controegemonia in questa fase dello sviluppo produttivo: cioè come costruire la soggettività politica a partire dalle condizioni del lavoro per come si è ridefinito oggi.
Storicizzare le conquiste del movimento operaio – ottenute alla luce di determinati rapporti di forza – non significa non difenderle: significa porsi oggi – in una diversa fase del capitalismo, di una potentissima reazione dello stesso – il problema di come ribaltare i rap porti di forza a favore di processi di liberazione, come costruire un nuovo «blocco storico».
Credo sia molto importante a tal proposito riannodare i fili delle autonarrazioni, dell’autocoscienza che il Quinto stato ha prodotto a partire dalla propria condizione, con quella narrazione, con quella visione del mondo, che si è prodotta nel movimento altermondialista, considerato la «seconda potenza mondiale»: le giornate di Genova sono state per molte e molti di noi la consapevolezza di far parte di una nuova generazione politica. Una generazione forse nata, per così dire, all’insegna dell’etico-politico, senza passare dall’economico-corporativo. E che progressiva mente si è assunta la responsabilità di porre la propria condizione, la rivendicazione dei propri diritti all’interno di una complessiva idea di liberazione.
Diversamente da Mario Sai, non credo che tutto questo si possa definire come «mobilitazione politica» dei «ceti medi “riflessivi”» che «ha visto prevalere sulle questioni sociali quelle dei diritti civili», connotata da una «profonda ambiguità» poiché «dietro la rivendicazione di una riappropriazione collettiva dei diritti sociali e dei beni comuni è forte la spinta alla separazione dalle classi subalterne e popolari», mentre «occorre riporre al centro la questione della produzione e dell’organizzazione del lavoro»17.
Francamente non credo che sia utile a una comprensione e a una trasformazione della realtà la gerarchizzazione dei conflitti e del le contraddizioni, fra diritti sociali e diritti civili, fra lavoro produttivo e riproduttivo, materiale e immateriale. Le nostre vite sono materialmente accumunate, ancor più in questa crisi, da un presente di subalternità e da un desiderio di liberazione: e questo vale per l’operaio che “gode” a pieno dell’arti colo 18 – ancora per poco, se passa la riforma Fornero – così come per il lavoratore indipendente, e che poi pienamente indipendente non è, dato che viviamo in una economia capitalistica. Pensare a nuove forme del conflitto, di partecipazione e democrazia è un compito che ci unisce e in cui non vi sono primogeniture: perché dalla rottura del nesso conflitto-rappresentanza che mette in crisi l’efficacia delle forme classiche di accumulazione di soggettività (cortei, scio peri, sindacati, partiti) non usciamo contrapponendo vecchio e nuovo, ma sperimentando collettiva mente nuove pratiche di conflitto.
Ecco, non vorrei che affidassimo esclusivamente al capitale il compito di produrre il proprio becchino, che ci votassimo come “un sol uomo” alla “contraddizione principale” anziché alla connessione della molteplicità dei conflitti e dei corpi che parlano di liberazione: vorrei che diventasse comune, che unisse Quarto e Quinto stato, l’immaginazione, l’idea che un altro becchino è possibile. O chissà, una becchina, portatrice di un’altra idea di lavoro, di rapporto tra i generi, di cittadinanza, di un altro mondo possibile.

Note

1) A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Ei naudi, 1975, p. 1505.
2) R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, Roma, manifestolibri, 2011, p. 11.
3) Com’è triste la prudenza!, recita uno striscione esposto nel Teatro Valle occupa to dalle lavoratrici e dai lavoratori dello spettacolo.
4) A. Gramsci, op. cit., p. 1757.
5) R. Ciccarelli, Che cos’è il Quinto stato?, in Critica marxista, 2012, n.1, pp. 89.
6) S. Žižek, Come cominciare dall’inizio, in C. Douzinas e S. Žižek (a cura di), L’idea di comunismo, Roma, Deriveapprodi, 2011, p. 237.
7) A. Gramsci, op. cit., p. 1422.
8) C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Verona, Ombrecorte, 2010, p. 51.
9) R. Ciccarelli, G. Allegri, op. cit., pp.
4344.
10) C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. in Ead., Sputiamo su Hegel. La donna vaginale e la donna clitoridea, Milano, Scritti di rivolta femminile, 1974, p. 21.
11) C. Lonzi, Manifesto di Rivolta fem minile, in Ead., Sputiamo su Hegel…, cit., p.
14.
12) L’emancipazione malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia, Milano, Edizioni Libera università delle donne, 2010.
13) N. Power, La donna a una dimensione. Dalla donna-oggetto alla donna-merce, Roma, Deriveapprodi, 2011, p. 6.
14) Cfr. C. Morini, op. cit. Su questo nodo rinvio anche ai materiali del seminario organizzato da IaphItalia Lavoro o no? Crisi del l’Europa e nuovi paradigmi della cittadinan za, reperibili su www.iaphitalia.org
15) S. Žižek, op. cit., p. 249. Su questo nodo cfr. anche C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Roma, manifestolibri, 2006.
16) A. Gramsci, op. cit., p. 1385.
17) M. Sai, I ceti medi oggi: cambia menti culturali e politici, in Critica marxista, 2012, n. 1, pp. 2223.