Floriana Doronzo – Filosofie maschili e femminismo

“Quando entra un uomo in casa, se stai mangiando sputa il boccone, se sei seduta alzati, se ti stai vestendo fermati”. Era il dolce monito con il quale mia nonna ha cresciuto mia madre e mia zia, sorelle di quattro fratelli, alleati di un unico padre. Una famiglia in cui unire due lembi interni di una gonna per farne dei pantaloni da lavoro è costato a mia madre la cacciata da casa. Ad oggi, sono 36 gli anni di contributi versati da mia madre, da quando nel 1979, prese servizio nell’Archivio di Stato di Bari, a soli vent’anni, con una patente di guida da prendere e un matrimonio da organizzare. Sposata alla mia età, aiuta il marito a comprare il primo terreno con i suoi primi stipendi, mette al mondo cinque figli ed educa tre figlie al “voi siete femmine, loro sono maschi”. Ma questo “voi siete femmine” non ha mai avuto un suono aspro alle mie orecchie, non mi sono mai sentita vittima della mia natura. La stessa natura che mi ha fatto essere l’anima della casa, l’info-point sul posto dei calzini, la ristoratrice per il bis della pasta. La trascrizione automatica della casa che fa il palio con la lettura idiota della strada: “si vede che sei una brava ragazza…non hai grilli per la testa…sei una giovane massaia, ideale da sposare…ma quando a proposito? Ti ci vedo proprio… saresti perfetta come madre…fortunato lui…così non se ne trovano più in giro”. Questo il mio punto di ascolto, che mi ha impedito di capire quale sia quello di enunciazione. Dal mio breve vissuto sembrerebbe che la storia non abbia insegnato nulla a mia madre e che lei, di contro, abbia educato male me e le mie sorelle, costrette ad avere due padri (quello naturale e mio fratello maggiore). Ma, monismo spinoziano docet, siamo delle cellule con un corredo genetico ben definito, ma non incontaminabile. Siamo monadi con tante finestre: l’aria di casa dà il cambio a quella di fuori, le tavole da apparecchiare diventano i banchetti sociali e i panni sporchi si lavano per strada. Non ci voleva il femminismo per dirci che quello che siamo per la nostra famiglia non sempre corrisponde a quello che siamo per noi stesse; ma ci voleva il femminismo per dirci che quel che siamo per noi stesse poteva andare oltre le mura familiari. E non si tratta di uno sconvolgimento identitario diretto solo alle donne, ma a tutti gli esseri uomini con le tre e: embodied in un determinato corpo, embedded in una determinata struttura, employed in un determinato ruolo. E la vagina è solo condizione sufficiente, non necessaria, per sentirsi incorporati, imbrigliati, impiegati.

A ogni essere umano la sua parte di corpo aggettante: a chi il seno, a chi il sedere, a chi le labbra, a chi il pene…tutte propensioni di comunicazione verso un mondo esterno; propnsioni che non significano nulla, precipuamente nulla. Il recupero del simbolico è un’urgenza che ha allertato molti pensatori contemporanei, che hanno trovato la resistenza di argomenti trascendentali apparentemente più convincenti. Uno di questi ultimi è sicuramente l’ontologia sessuale del femminismo radicale di Carla Lonzi prima e Luce Irigaray poi. L’idea che il sesso ci determini, che il clitoride sia lo strumento di controllo all’interno del collettivo femminista si scontra con quella di un culturalismo “simbofilo”, secondo cui il sesso non è altro che una sovrastruttura culturale. In questa frattura s’insinua lo psicanalista Jacques Lacan con la sua sessuazione:  non vi è chiusa corrispondenza tra sesso (membro) e orientamento soggettivo. Per Lacan, l’anatomia non è un dato, né un destino, ma uno stimolo carnale alla significatizzazione simbolica; qualcosa che il pensiero soggettivo deve rielaborare. Contraria a questa sintesi è proprio Irigaray, che ne “L’altro sesso” parla del sesso femminile come una dimensione ontologicamente vincolante per la donna. La sessuazione lacaniana, invece, ci dice che non ci sono essenze maschili ed essenze femminili, ma si fa l’uomo e si fa la donna (non c’è una funzione descrittiva, ma normativa).

 

 

 

 

Il Carnevale dei generi: questo scarto tra essenzialismo ontologico e cognitivismo sessuale sfocia in un’ulteriore analisi lacaniana: quella della parata maschile e della mascherata femminile. Quella degli uomini è la sfilata dell’avere, dove si ostenta il possesso, la quantità dei beni materiali e simbolici; si parla di mascherata femminile, invece, perché le donne nascondono-mascherano-dissimulano il loro non avere il fallo, diventando così loro stesse il fallo, l’oggetto del godimento. In tale posizione, il soggetto mancante diventa l’uomo, perché è colui che desidera, che manca di qualcosa. Lacan si spinge oltre, fino a dichiarare che il rapporto sessuale non esiste, perché quello che viene chiamato rapporto è solo una funzione teleologica di godimento (Isterizzazione dei sessi di Baudrillard). Manca la relazione con il segno d’amore, con le viscere della profondità emozionale tra esseri umani, perché il fallo sta in mezzo. E’ un rapporto mediato da uno strumento corporeo estremamente autarchico, che bada alla sua sussistenza. Ma quello che potrebbe sembrare un successo da parte maschile-ci dice Lacan-è solo un modo meno angoscioso di fallire il rapporto sessuale. A entrambe le parti la quasi sicurezza di fallire il rapporto sessuale: il maschio è sequestrato dalla bellezza della donna, la quale-dal canto suo-opera un immediato rilascio dell’ostaggio perché delusa dalla pochezza dell’efficacia fallica. Inefficacia dovuta al mancato raggiungimento del segno d’amore. L’autenticità di cui parlava Lonzi non viene mai completamente raggiunta.

Ma se il posizionamento di Lacan può lasciarci perpless*, sia in quanto uomo, sia in quanto incubatore dei racconti delle sue pazienti, rimaniamo su un versante fallologocentrico e diamo spazio all’analisi semiotica di Jean Baudrillard. Il filosofo francese, nel suo saggio “Il Delitto perfetto”, riprende lo scrittore Virgilio Martini e l’oscenità della sua opera “Il mondo senza donne” del 1935. Un libro messo al bando, considerato un’apologia della misoginia: protagonisti del romanzo sono uomini omosessuali, che progettano un vero e proprio sterminio del femminile, che dell’alterità è la metafora. Qui gli uomini esercitano un diritto alla differenza, che sconfina nel vietare l’esistenza al diverso.

Ma Il Femminile e Il Maschile-scrive Baudrillard– non sono termini diversi, ma incomparabili. E’ un falso conflitto, per il fatto che i due termini non sono sullo stesso piano. L’alterità non è negoziabile, e tuttavia circola nella forma della complicità e della relazione duale, che questo avvenga nella seduzione o in guerra. […] Il peggio sta nella riconciliazione di tutte le forme antagonistiche all’insegna del consenso e della convivialità.  Il pornografico mette in cassa intergrazione il desiderio: è il punto culminante di un ipercorpo che non desidera nulla, che diventa funzione sessuale ormai indifferente. E’ la trasparenza stessa a essere pornografica e non l’oscenità lussuriosa dei sessi, proprio perché tutto è dato a vedere come citazione fallica. Il porno non ha certamente guadagnato in innocenza pagana, ma ha guadagnato in insolenza mediale. Il pornografico è quindi il modello di una società in cui svaniscono contemporaneamente la differenza sessuale e quella tra realtà e immagine, e in cui tutti i registri si erotizzano via via che cadono nell’indistinzione e nella confusione dei generi.  Non vi è nulla di meno pornografico di un mondo senza donne. Ci sono due concezioni diverse del sacrificio del sé in favore dell’altro e per dirle ci sono due espressioni tedesche similmente diverse: VERFREMDUNG: divenire altro, estraneo a sé, alienazione in senso letterale; ENTFREMDUNG: perdita di ogni alterità, spossessamento dell’altro.  La donna, grazie all’uomo, ha sempre avuto il modo di emergere; distruggendo ciò che la minaccia. E in questa operazione, per Baudrilalrd, la donna si autodistrugge come essere che non ha più bisogno di difendersi. Nel capitolo intitolato “Chirurgia dell’alterità”, Baudrillard si perde in un’analisi psico-anatomica sul nesso uomo-donna: forse che l’altro, nella sua singolarità irriducibile, è diventato pericoloso e insopportabile, e bisogna esorcizzarne la seduzione? Forse l’alterità e la relazione duale scompaiono progressivamente con il potenziamento dei valori individuali? Bisogna produrre l’Altro come differenza, al posto di vivere l’Altro come destino. E’ per sfuggire al corpo come destino, al sesso come destino, che si inventa la produzione dell’Altro come differenza. Voler districare l’inestricabile alterità del maschile e del femminile per restituire ciascuno alla sua specificità e alla sua differenza è l’assurdità della nostra cultura sessuale di liberazione e di emancipazione del desiderio: questa nuova invenzione della differenza coincide con la nuova immagine della donna e dunque con un cambiamento del paradigma sessuale. Si tratta della produzione da parte dell’isteria maschile di un’immagine della donna al posto della femminilità rubata. La donna come resurrezione proiettiva del medesimo, figura gemella quasi incestuosa. Il concetto di differenza sessuale che s’installa nel medesimo movimento non è che una deviazione della forma incestuosa. In questa situazione uomo e donna non sono che il miraggio l’uno dell’altra. Tutta la meccanica erotica cambia significato, poiché l’attrazione erotica che emanava un tempo dalla stranezza e dall’alterità passa ormai dalla parte del simile e della somiglianza. Se la donna reale sembra scomparire in questa invenzione isterica, bisogna notare che anche il desiderio maschile diventa problematico, poiché è capace unicamente di proiettarsi nella sua immagine e di diventare così puramente speculativo. Il processo di gemellizzazione dei sessi dà luogo a un’assimilazione progressiva che arriva al punto di rendere a sessualità una funzione inutile. Sono così anticipati i cloni futuri, la cui sessualità non sarà più necessaria alla loro riproduzione. Diluizione progressiva della funzione sessuale. Ogni sesso è fatale per l’altro; portatore di alterità. In una prospettiva naturalistica su cui invece si fonda la nostra liberazione, i sessi sono meno differenti di quanto si pensi. Ormai si parla ben poco anche di desiderio, diventato un tema astrale di un linguaggio vuoto, psicanalitico e pubblicitario. La donna strappata alla sua condizione artificiale e restituita al suo essere naturale, al suo statuto legittimo di essere sessuale e contemporaneamente a un riconoscimento legale. L’uomo è solo differente, la donna è altra: strana, assente, enigmatica, antagonistica. Ed è per scongiurare questa alterità radicale che s’inventa la differenza biologica, ma anche psicologica, ideologica, politica. Tutto ciò può anche negoziarsi in una contrapposizione definita in termini di rapporti di forza. Ma, a dire il vero, questa contrapposizione non esiste, è un artificio. Il desiderio tende a se stesso un tranello, l’oggetto si vendica. La donna oggetto, la donna fatale, sfrutta questa femminilità isterica di essenza maschile. Essa sfrutta questa immagine speculativa con una speculazione incondizionata, con un potenziamento della propria immagine. Mediante un rilancio della sua condizione d’oggetto, diventa fatale per se stessa e così lo diventa anche per altri. Questa rispettiva isterizzazione dei ruoli decresce via via che la fede nella natura svanisce nell’epoca contemporanea e che salta agli occhi, con la sua liberazione, il carattere problematico e ambiguo di tale differenza. L’isteria fu l’ultima forma di strategia fatale della sessualità. Non è un caso se essa oggi scompare, dopo aver fomentato le figure estreme della mitologia sessuale di tutto un secolo.

Ma se per Carla Lonzi l’uguaglianza è un tentativo ideologico di asservire la donna a più alti livelli e la de-culturazione è il processo sociale attraverso cui la donna deve porsi come soggettività politicante, senza il riconoscimento dell’uomo, Baudrillard rimane sul punto dell’isterizzazione: L’unica alternativa, in questa svolta sessuale dell’indifferenza, sarebbe dalla parte della donna. Dato che essa vuole produrre se stessa come differente, dato che non vuole più essere prodotta dall’isteria maschile, le spetta produrre l’altro come oggetto di seduzione. E’ il problema di una donna diventata soggetto di desiderio, ma che non trova più l’altro che potrebbe desiderare in quanto tale (il divenir-soggetto in un mondo in cui nel frattempo è scomparso l’oggetto è il problema più generale della nostra epoca). Il femminile è disponibile oggi a produrre quest’alterità seduttrice, dal momento che non vuole più incarnarla? Il femminile è ancora abbastanza isterico per inventare l’altro? Purtroppo, sembra che ci avviciniamo all’estremo opposto, ossia alla forma esasperata della differenza, vale a dire alla soluzione finale: la molestia sessuale. Sviluppo estremo dell’isteria femminile, mentre quello dell’isteria maschile è la pornografia. Si tratta, in fondo, dei due versanti della stessa indifferenza isterica. Incesto, autismo, gemellarità, clonazione. Possiamo soltanto ricordarci che la seduzione consiste nella salvaguardia della stranezza, nella non riconciliazione. In ciò risiede il segreto di una strana attrazione.

Ma cosa ne è della donna, neutralizzata dalla sua funzione maschile? La liberazione, l’emancipazione  e l’autocoscienza femminili sono il vapore fuoriuscito da un bagno turco di terme per sole donne, in cui tutte loro erano denudate, erano diventate opache a se stesse, madide del sudore di altri e soffocate dall’aria dei luoghi abitati. Il femminismo è stata la doccia di ghiaccio dopo questo hammam, la purificazione e l’eliminazione delle sostanze tossiche prodotte dalla produzione maschile. E sarebbe altrettanto fumogeno cercare di creare un sistema di riconoscimento che non sia la monetizzazione della produzione e della riproduzione femminili. Si dice che la donna sia la forza e l’uomo la forma; che, cioè, sia la donna ad essere l’energia naturale che si muove all’interno dell’involucro maschile. Una forza in grado di far emergere l’uomo dal suo materialismo, di smascherarlo durante la sua parata e di spogliarlo degli oggetti abitati dalla sua individualità. Ma tutto questo simbolismo sembra non bastare quando in gioco ci sono il potere, la produzione, la meccanica e le nuove forme foucaultiane di soggettivazione.

Una delle critiche più convincenti mosse all’ortodossia filosofica (abbiamo visto Baudrillard) e psicanalitica (Lacan) viene mossa da Judith Butler: la relazione soggetto-potere è una relazione molto instabile e orizzontale. Il potere è sia la dimensione privata e sociale che fonda il soggetto, sia l’oggetto che viene agito dal soggetto. Ora, questa relazione non ha alcuna necessità teleologica, né ontologica. Nessun fine e nessuna edificazione dell’essere spingono il soggetto a esercitare il potere e a farsi determinare da esso. Piuttosto, secondo Butler, c’è un attaccamento appassionato nei confronti della propria sottomissione, per cui il soggetto si innamora della sua fatica, gode della sua condizione, sfrutta se stesso per cavalcare l’onda di un’azione attiva rivolta solo ad altri. Il soggetto è plastico e l’esercizio del suo potere è ruvido; c’è una consistenza molle nella sua soggettività e neanche ed egli non ne sente l’urto.

C’è infatti un amore smisurato che mostra la nostra stessa vulnerabilità e che si prostra e si rivolta conducendoci in una melanconia che è poi prodotta dalla perdita; nel domandarsi le responsabilità del soggetto che si lascia sottomettere non si tiene conto della forma psichica che quel potere assume. La coazione a ripetere dell’attaccamento si comporta come una nevrosi, il rifiuto (o forse sarebbe meglio dire: quel che ne resta) invece – dopo la consapevolezza – scompagina lo scenario repressivo del regime regolatore nell’impossibilità ad approfittarsi di noi. L’esistenza di un soggetto anteriore allo sfacelo è paventabile? Cioè l’interruzione di questo circuito che soggioga è pensabile? Butler risponde così: «sono orientata a sostenere che il soggetto che si oppone alla violenza morale, anche a quella contro se stesso, sia il prodotto di una violenza già consumatasi, senza la quale egli non sarebbe potuto emergere». E in effetti, dalla dialettica servo-padrone passando per la coscienza infelice proposte da Hegel, si introduce il prodromo di ciò che inchioderà Foucault e il dibattito a lui coevo. Cioè quel soggetto non è analizzabile solo come produzione ma anche come forma di interiorizzazione[1].

E più si interiorizza, più si percepisce e più si percepisce più si perde. L’Io in perdita è l’anticamera di una melanconia indefinibile, che per Butler è il terreno di resa di qualsiasi concupiscenza teorica. Nulla si può dire di una condizione che il soggetto non sa neanche nominare, pur rimanendone vittima. La perdita del suo tessuto connettivo è un ritrovamento della sua organicità sistemica: un insieme di funzioni organiche non più schermate dalla pelle e ancor di più in contatto col mondo. Una vulnerabilità interiore in perfetta armonia esteriore ed ecco che lo psicanalitico si socializza. Tuttavia, la melanconia ha una funzione ben precisa nell’economia butleriana: serve infatti per indicare lo statuto frastagliato del soggetto che diventa Io nel suo ripiegarsi. […] Che se allo stringente orizzonte ontologico si sostituisce la relazionalità bisognerà pure sostanziarla affinché non sia una finzione anch’essa, come un atto narcisistico. Si potrà cioè concedere all’alterità tutta la sua incontenibile imprevedibilità nel luogo di quella relazione? Ma Judith Butler questo lo insegna, profondamente.

E ha insegnato anche a me che se non capivo la gravità del detto maschilista pronunciato da mia madre non era per educazione, ma per un appassionato attaccamento al mio assoggettamento. A Lacan rispondo che il mio fare la donna risiede nel nomadismo del mio pensiero, nella conservazione della disciplina e nella sovversione situazionista. A Baudrillard rispondo di credere ancora nella salvaguardia della stranezza. Le attrazioni giovanili giocano la loro partita sul prato non sintetico delle sub-culture, delle esposizioni officinali e delle birre techno. Non importa quanto durino, ma che vengano create ex nihilo, così per eccitamento senza argomento.  Ho ancora difficoltà a dirmi femminista, perché ogni definizione cade nel vuoto semplicistico del senso comune, ma-a dispetto della fisica-le spinte endocrine talvolta sono più forti di quelle provocate dall’esterno. Mi sono autogettata in un mondo altro (sono a Roma da soli due mesi), che ha i suoi richiami con quello lasciato, ma anche delle grandi distanze. Si sente la stessa melodia nell’aria (perché scritta da me), ma suonata con strumenti diversi.

 

[1] http://www.lavoroculturale.org/la-trappola-della-malinconia/

Redazione

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