La potenza di rimanere senza parole. Intervista alla filosofa argentina María Lugones

La potenza di rimanere senza parole. Intervista alla filosofa argentina María Lugones

Introduzione

di Alessia Drò

La filosofa argentina María Lugones, docente in Women’s Studies alla Binghamton University di New York, radicata da tempo negli Stati Uniti, ha partecipato a Buenos Aires con Walter Mignolo alla Conferenza sull’Estetica e sul Pensiero decoloniale. Famosa per le sua tesi sulla “colonialità del genere” l’opera di María Lugones è diffusa in lingua inglese, e in castigliano in tutto il Latinoamerica, ma i suoi lavori sono poco conosciuti e non sono ancora stati tradotti in Italia. Proponiamo questa intervista, uscita per il quotidiano argentino Pagina12, da cui emerge chiara la  critica al cosiddetto femminismo egemonico. ll problema che la filosofa argentina affronta rispetto al femminismo egemonico risiede nell’incapacità di quest’ultimo di prendere seriamente in considerazione le differenze in modo non eurocentrico e auto-referenziale, mancando così nell’acquisire la consapevolezza di un posizionamento antirazzista e anticapitalista non-egemonico. María Lugones, ci spiega come altri posizionamenti, nei femminismi provenienti da diversi contesti – come quello latinoamericano-  possano dar luogo a pratiche politiche e di vita comunali, in cui sentire e pensare non siano scissi e in cui ciascuna persona non si colloca come un’identità statica, ma riesce sempre esprimersi in modo relazionale e creativo dando così espressione non all’individualismo, ma a quello che viene definito dalla filosofa argentina l”io comunale”. María Lugones ci parla, con la figura positiva e inaddomesticata del “mostro”, fuori dai limiti imposti ai corpi dalla normalizzazione e dai confini dello Stato-Nazione. Affida ad un pensiero decoloniale l’unica possibilità per vivere fuori dalle oppressioni, formulando domande che segnano il cammino verso pratiche di lotta femministe situate che vedano nell’interstizio del margine la possibilità di sovvertire le proprie categorie, non solo per mezzo della produzione discorsiva, ma anche per mezzo della trasformazione dei propri modi di vita nell’incontro e nel rispetto delle differenze in dis-apprendimento continuo dalla modernità capitalista e coloniale.


María Lugones cerca le parole tra le sue mani. Dubita, ritorna, riprende un’idea precedente per costruire quello che cerca di spiegarmi. Questa femminista argentina, lesbica e meticcia, -come si autonomina- radicata da anni negli Stati Uniti sa che le parole non sempre sono capaci di dare conto di coloro che abitano mostruosamente il mondo e che questa ansietà del silenzio ha bisogno di una comunità di appartenenza nella quale sia possibile cominciare a fare esperienza, sentire e pensare. E’ stata a Buenos Aires all’inizio di Maggio per partecipare alla Conferenza su Estetica e Pensiero decoloniale, realizzata nell’Università di Avellaneda, dove ha partecipato alla Conferenza su “Aisthesis e femminismo decoloniale”, insieme a Walter Mignolo.

Mi ha interessato molto quello che è stato detto alla Conferenza, soprattutto rispetto alla relazione tra il pensare dal margine e il pensare dall’interstizio. Qual è la particolarità di entrambi?

C’è differenza tra abitare il margine e l’interstizio. Anzaldùa dice che il margine ci spinge all’interno come spine di metallo, ci divide e ci disfa. L’interstizio invece è quello spazio liminale che si trova in questo margine, che da fuori appare molto piccolo, fino a quando una persona lo abita, rendendosi allora conto che in realtà è enorme. È in questo spazio di questo margine che abitano tutti quei soggetti che vanno oltre il normale. Abitare l’ interstizio permette di comprendere il margine.

Abbiamo cercato di capire come creare comunità e socialità. Hai parlato di attiviste che sono alla ricerca di una pratica politica comunale e non di una comunità. Puoi spiegare meglio questo concetto?

Tutte le persone possiedono un io comunale, però siccome viviamo nelle società in cui viviamo, questo io comunale è atrofizzato, e questo ci impedisce di andare al di là dell’individuale. È come una tortura il fatto che il mio io comunale non possa esprimersi. Perché possa farlo, la intenzione di ogni persona deve essere un’altra. Per stare meglio tra noi abbiamo bisogno di uno spazio la cui caratteristica sia poter trovare negli altri ciò che ci risuona, ciò che a noi risulta piacevole, ciò che desideriamo. Ho avuto solo poche volte questa esperienza, negli spazi dell’educazione popolare o di organizzazioni comunitarie dove si crea una vita comunale, dove una persona percepisce che abbiamo più di un io, che siamo più di una persona e dove è possibile vedere il nostro essere diminuiti, ridotti, frammentati, nel momento in cui non si può fuggire da ciò che mi  è imposto in quanto donna, e in quanto donna di colore e lesbica. La sensazione in questi casi è quella di essere sfocata, e  questo provoca quella preoccupazione di avere un’intenzione comunale: questa intenzione non può consistere in altro se non nel fatto di far saltare la colonialità. La colonialità abbraccia un insieme di atrocità che corrodono dissolvono e assorbono l’io comunale. Allora non ci resta che avere nessun’altra intenzione se non quella individuale, che impedisce l’espressione di questa comunalità che ci permette di fare qualcosa che di ci tolga dalla logica dell’oppressione. Molti spazi si autodefiniscono “comunità”, però non mostrano nessuna relazione, tra chi ne è parte, che dimostri la creazione di un’intenzione comunale, di un sentire-pensare insieme.  Questi spazi possono essere dispersi, essere, chiaramente, impuri, ma devono avere a che fare con una tendenza a pensare e a creare insieme. Si tratta di spazi con una logica distinta da quella dell’ oppressione, che permettono così che l’intenzione dell’io sia un’altra, che sia comunale. Questi spazi convivono sovrapposti a logiche di oppressione.

Questa ricerca di un’intenzione diversa propria dell’io comunale, come si relaziona con la socialità permeabile?

Si, i luoghi coloniali sono concettualizzati come impermeabili. Pensiamo per esempio alla parola “meticcia”. In America Latina io mi autonomino meticcia e non eurocentrata. Questa affermazione è necessaria perché qui il meticcio si è mischiato con la elite europea. Negli Stati Uniti non ho bisogno di dire niente più di meticcia, perché quando hanno iniziato a invadere il Messico, hanno preso solo la parte della California, del Texas, dell’Arizona, e del New Mexico, e c’erano centinaia di migliaia di persone che venivano denominate come mongole, cioè come esseri che non erano puri perché “non erano di una sola razza”, perché nella logica della colonialità l’unica cosa che vale è la purezza della razza bianca. Una goccia di sangue nero ci rende neri, però una goccia di sangue bianca, non ci rende bianchi. Le persona mongola non è un mostro perché il mostro ha la capacità di incutere paura mentre il mongolo è disprezzato. I mostri si autocsotituiscono. Esseri che per qualche motivo sono eliminabili perché, dal punto di vista della purezza, sono patologici, non vendibili al sistema, e non vogliono essere normalizzati o essere accettati e per questo motivo sono permeabili. La purezza, invece, è impermeabile. In questo senso, il comunale è permeabile e decoloniale, perché non si basa sulla ricerca di una separazione e della purezza, ma al contrario si basa su quest’esperienza di conoscerci in quanto altri e di sentire il mondo a partire dall’alterità

Tutto questo si relaziona con la necessità di sovvertire la colonialità e con il dis-apprendimento critico dalla modernità?

Potremmo definire questo passaggio in tre concatenamenti: la permeabilità, lo spezzare la colonialità e infine il meccanismo di questo dis-apprendimento critico. Se pensiamo solo dentro questa aisthesis, in questo sentire, il mio corpo, il corpo delle donne, è ristretto. Tutto quello che è, si limita alla differenza sessuale, che, a sua volta, ci riduce ad un apparato riproduttivo. Qui è dove si radica il problema dell’uso del concetto di genere che suppone la differenza sessuale socializzata, ma solo in quanto possibilità ristretta delle persone bianche: questo è quello che lascia fuori chi incarna invece un passato di schiavitù o di colonialismo o di chi rifiuta il colonialismo.

In questo senso, quali altre costruzioni discorsive sono possibili per ripensare il senso, quando parliamo di genere, rispetto a soggetti che non occupano una centralità e per i quali non risulterebbe idoneo questo concetto?

Mi sembra importante che una persona rimanga senza parole. Dobbiamo sempre avere una parola o ci sono luoghi che possiamo abitare con la preoccupazione di non averla? L’ansietà e la preoccupazione nascono perché ci hanno messo nel corpo l’idea che è una combinazione di razzismo e sessismo che ci dice “tu vali solo per il sesso e per la sessualità alla stregua di una bestia”, riferendosi ad una persona che in quanto sessuata è una bestia e in quanto bestia è aggressiva. Preferisco molto più questa visione a quella che proclama di essere una differenza sessuale socializzata, un mostro nel quale il desiderio non tiene restrizioni. Il mostro può invece essere meticcio, può avere capacità scientifica e di parola ponendo il suo corpo e instaurando intenzioni comunali. E in questa ultima caratteristica si radica la sua pericolosità e potenza. Possiamo relazionarlo alle cosmogonie indigene, ma non solo a quelle. La sfida è cominciare a autocostituirci attraverso la soggettività la personalità e le possibilità dell’altra che ti attraversa, e che tu attraversi,  tutto questo perché entrambe permeabili. Perché non solo i limiti nazionali, ma anche i limiti del copro hanno in sé questa permeabilità. E’ infinitamente piena di piacere l’idea di stare insieme, di stare nude in questo desiderio senza la necessità di chiedere il permesso alle norme della normalità e della concettualizzazione. La permeabilità permette di stare in un ambiente e habitat di connessione, corpo a corpo con quello che esiste, senza dover obbedire alle norme che riducono l’io alla individualità.

L’umano, non ha corpo. Alla donna vien fatto scomparire, riducendola ai suoi organi.  Anche l’uomo è tutto mente e non vuole avere un corpo. Il fallo non è di carne, ma simbolico. Quelli che hanno un corpo sono i non-umani, i mostri.

Possiamo creare i femminismi con questi esseri incarnati a partire da un sentir-pensando, un pensare incarnato che sta in una stretta relazione con l’ambiente. In questo habitat esistono tutte le cose, tutti i tipi di specie in connessione e questo sentir-pensando ha senso perché ci permette di pensarci in relazione. Per esempio, dal posizionamento di meticcia, posso connettermi con l’esser meticcia delle altre persone. In un viaggio a Trelew ho visitato  alcune anziane donne mapuche che erano molto contente di vedere un’altra mapuche, tanto che una di loro mi ha detto: “Perché  sei andata così lontano, sorella?”.

E’ bello che, essendo mostro, possa connettermi con lei da un posizionamento fondamentale, in cui mi vien detto: “la nostra cultura è anche tua”  e non come direbbero invece i nazionalismi impermeabili: “la nostra cultura è nostra”. In questo spazio sfocato l’io comunale incomincia ad esprimersi e questo sentir-pensando comunale non è estraneo ai differenti meticciati del Latinoamerica. Da questi luoghi credo sia possibile pensare altri femminismi.

intervista realizzata da Andrea Lacombe, apparsa su “Pagina 12”, il 27 Maggio 2016*.

*traduzione di Alessia Drò