La teoria non è un ombrello. Dieci anni di AdATeoriaFemminista, 2006-2016, a cura di S. Tarantino, T. Dini, N. Nappo, L. Cascella, Orthotes, Salerno 2017.

La teoria non è un ombrello. Dieci anni di AdATeoriaFemminista, 2006-2016, a cura di S. Tarantino, T. Dini, N. Nappo, L. Cascella, Orthotes, Salerno 2017.

Recensione di Sara Fariello

Ogni teoria è una questione di velocità di accelerazione. Mette in gioco la percorribilità in sensi inversi. C’è un’attinenza tra teoria e stradari, mappe, estensioni, particelle. Questa è una rivista che cerca di precisare punti di avvistamento nelle teorie femministe”. AdaTeoriaFemminista è stata fondata da Angela Putino e Lucia Mastrodomenico, entrambe prematuramente scomparse nel 2007, ad un anno dalla fondazione. Due filosofe e femministe, Stefania Tarantino e Tristana Dini, che facevano già parte del nucleo originario del collettivo di redazione insieme a Nadia Nappo e altre, hanno provato a raccogliere l’eredità di quella esperienza, di quella relazione, di quel desiderio. Il testo presenta il lavoro dei primi dieci anni della rivista che è anche un omaggio alla figura di Ada Lovelace la quale elaborò nell’Ottocento il primo programma informatico della storia, molto prima che fossero inventati i computer. Esso si inserisce nel solco del pensiero della differenza, un pensiero che però si emancipa dalla riflessione sulla relazione materna che aveva costituito un punto focale di osservazione a partire dagli anni Ottanta. Proprio Angela Putino, nel libro dal titolo fortemente provocatorio “Amiche mie isteriche”, aveva, infatti, osservato come il femminismo italiano si fosse incancrenito su posizioni troppo rigide arrivando ad affermare che “la differenza sessuale è libertà possibile di un divenire molteplice che non scaturisce da un’interiorità – germe – ma da una diversificazione attivata: differenza come scambio prodotto in una zona di movimento tra esterno interno”.

Sembra che oggi un “piccolo gruppetto di idee omogenee” abbia perso il significato originario e non riesca più a cogliere ed interpretare la realtà. Sembra che la pratica della relazione si sia ancorata ad una serie di indicazioni ormai prive di senso che rischiano di generare errori, ambiguità e confusione. Il risultato è che la libertà femminile risulta ingabbiata, insabbiata nelle maglie di un neoliberismo che ha imparato a mettere a frutto anche la relazione tra donne attraverso meccanismi che oggi potremmo definire di “inclusione differenziante”. Il rischio, non solo potenziale ma reale, è che il pensiero delle donne diventi un brand economico o politico da utilizzare quando serva o piaccia, neutralizzando il potenziale anche rivoluzionario rappresentato dalla differenza sessuale. Storicamente, il femminismo della seconda ondata ha introdotto due variabili fondamentali che hanno reso possibile un “sguardo e vero pensiero sulla realtà”: il linguaggio, ovvero il modo in cui esso costruisce la soggettività femminile, ed il rapporto con la madre. Oggi, però, si fa strada una nuova variabile sulla quale occorre riflettere, che riguarda il rapporto di ogni donna con la vita ed il potere che mette a valore la sua capacità di cura del vivente e di riproduzione dello stesso.

Il punto di partenza, esplicitato nel primo editoriale del 2006 è, dunque, chiaro: la teoria non è un ombrello sotto cui proteggersi e ripararsi dagli imprevisti della vita, dalla complessità delle relazioni tra donne e non solo. L’obiettivo, dunque, è quello di far rivivere la potenza di quelle relazioni per rilanciare il “pensiero come rischio”. In questo modo la teoria diventa un “variatore di accelerazione”, un moltiplicatore di idee perché agisce “convocando altre idee che le si allacciano, la contrastano, vanno di lato o si mettono a saltare in avanti o indietro”; una teoria che diventa bussola per chi naviga a vista, mai sganciata dalla vita materiale dal momento che la proposta politica è di “far teoria ed agganciarvi le pratiche”. Pratiche che hanno sempre a che fare con la capacità di sottrarsi alla fascinazione del potere e alla tentazione di confondere la libertà femminile con la presenza delle donne nella rappresentanza, nel mercato, nella biopolitica. Perché oggi si delinea un quadro diverso nel quale il (neo)patriarcato si trasforma, diventa moderno, multiforme e soft, e agisce in maniera più subdola producendo nuove forme di addomesticamento del “femminile”. In una società dove “tutto cade”, dove crolla il tetto della biblioteca così come tutto il sistema democratico, dove si sgretola anche l’architettura dell’umano, “mantenersi in bilico nella contemporaneità” è davvero difficile. In nostro soccorso può, quindi, arrivare il pensiero critico e attivo che nasce dai resti e dagli scarti, poiché un crollo apre sempre ad un cambiamento radicale, a spazi nuovi e nuove relazioni.

Essere-sante oggi” significa, infatti, agire mettendo in atto “azioni prive di interesse personale, quasi solitarie sebbene tutt’altro che solipsistiche, piuttosto radicalmente aperte al versante relazionale”. Un processo nel quale è necessario “sottrarre ego e far posto al vuoto” per accogliere l’altro/l’altra e farlo vivere liberamente. Come le madri di Plaza de Majo che sono capaci di trasformare il loro privatissimo lavoro di cura materno in agire politico. La “de-creazione”, , lascia spazio ai fatti su cui riflettere o consente l’apparizione di “qualcosa di inaudito ma di essenziale”. I fatti che accadono, appunto. Come la violenza, gli agguati di camorra, la “munnezza”…è evidente come un’altra caratterizzazione importante della rivista sia proprio il suo legame politico con Napoli, città amata ed anche odiata in quel perenne conflitto che molte di noi conoscono e sperimentano giorno per giorno. Una città che esalta e, al tempo stesso, illude. Una città che si trasforma continuamente per non cambiare mai. Ecco che i fenomeni sociali locali possono essere letti in una dimensione globale grazie alla lente che la teoria femminista ci offre. In questa prospettiva, una sezione è dedicata al tema del “ò sistema” che, a partire dalle considerazioni di Angela Putino sulla connessione tra camorra e neoliberismo, si snoda attraverso una serie di interventi volti a mettere in luce che la camorra non è più una forma arcaica di gestione economica che pesca nella marginalità e nella arretratezza delle periferie-ghetto napoletane, ma è un fenomeno che si fa sistema: sistema di impresa, pilastro dell’economia, interpretando al meglio gli imperativi del neoliberismo e cioè la libertà di mercato e, soprattutto, l’idea della imprenditorialità a partire da sé (self-made man).

Questo ne fa uno dei più grandi gruppi di affari internazionale, con la sua capacità di penetrare nella cultura e negli stili di vita delle persone, di quei soggetti che non siano affiliati in modo diretto. Nel passaggio dal modello liberale a quello neo-liberista, il piano oggettivo del mercato, inteso come struttura di scambio, viene sostituito dalla dimensione soggettiva dell’impresa: una logica che viene interiorizzata dagli individui affinché siano disposti a mettere a disposizione il proprio capitale umano (spesso anche biologico) e che diventa anche parametro per la misurazione delle nostre prestazioni. Il sistema diventa quindi la “cartina di tornasole del capitalismo contemporaneo” che chiede alle donne di offrire il massimo in tutti i settori della vita pubblica e privata: di essere lavoratrici flessibili e buone madri, procreatrici in salute, compagne attrattive e all’occorrenza trasgressive, attente a valorizzare il proprio corpo e la propria femminilità. La fatica scandisce le loro esistenze dal momento che le regole della divisione sociale del lavoro non sono cambiate ed esiste un “implicito contratto sessuale” che individua e gerarchizza lavori di tipo produttivo e riproduttivo, come affermato anche da Carole Pateman in The sexual contract.

Ecco che le donne risultano intrappolate nello schema della “doppia presenza”: da un lato l’impegno nella vita lavorativa e professionale, dall’altro quello verso la propria famiglia alla quale si offre lavoro oblativo non retribuito. Le cause dell’attuale divario retributivo, di cui in qualche modo oggi si inizia a parlare, risiedono spesso e volentieri nella diseguale ripartizione dei carichi di lavoro domestico e familiare, che impedisce alle donne di accedere al mercato del lavoro alle stesse condizioni degli uomini, nonché di progredire nella carriera. La “fatica” è il risultato di una falsa ed ingiusta struttura sociale dove è impossibile conciliare i ritmi della vita lavorativa, familiare e personale.

Viviamo, dunque, in una fase storica e sociale nella quale le donne sono sotto pressione perché diventano bacino strategico per un sistema che mette a valore le loro attitudini comunicative e relazionali, nonché la funzione riproduttiva: ecco che anche la nascita diventa un luogo toccato dalla biopolitica, un luogo di controllo sulla vita reso possibile dal progresso scientifico e tecnologico. Il corpo delle donne è sempre stato un luogo di conflitto e di subordinazione, persino di sfruttamento, ma oggi il corpo generante diventa un “luogo dove si gioca una partita decisiva per il potere che tenta di sottrarre al materno la sua funzione primaria, pretende di governare le dinamiche e dettarne il senso”. E allora, la nostra resistenza risiede nella nostra capacità di riappropriarci del senso delle cose e delle relazioni a partire da quelle che possiamo avere con i bambini/e, figli e figlie reali o solo immaginate, che guardano alla città e al mondo con i loro occhi e attraverso la lente rappresentata dalla loro infanzia. Perché l’infanzia “è il nuovo inizio, la possibilità della trasformazione, l’unicità che ogni vota rimette al mondo”. E forse così potremmo arrivare a pensare che il mondo sarà salvato proprio dalle ragazzine.

Redazione

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