LIBERE DI NARRARCI. Prevenire la violenza con una narrazione femminista e transfemminista

LIBERE DI NARRARCI. Prevenire la violenza con una narrazione femminista e transfemminista

I media svolgono un ruolo strategico nell’alimentare o contrastare la violenza maschile contro le donne. La narrazione mediatica della violenza informa la percezione collettiva, spesso interagendo anche con i meccanismi giudiziari, come denunciato da donne resistenti alla violenza che sono state ri-vittimizzate, violate e screditate dalle narrazioni mediatiche.
La centralità dei media è stata assunta anche dalla Convenzione di Istanbul del 2011, che disciplina la “partecipazione dei mass media” (Art.17), sollecitandoli ad adoperarsi per prevenire la violenza contro le donne. Riguardano i mass media anche le raccomandazioni rivolte all’Italia nel 2011 dal Cedaw (il Comitato per l’applicazione della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, ratificata dall’Italia nel 1985) e nel 2013 dalla Special Rapporteur dell’Onu Rashida Manjoo: formazione dei professionisti dei media, rappresentazioni non stereotipate delle donne, sensibilizzazione sui loro diritti come strumenti per contrastare la violenza maschile.
I documenti citati condividono alcuni limiti: una definizione di donna “essenzialista”, una visione eteronormativa della realtà sociale che trascura le violenze contro soggettività LGBT*QIA+, la mancanza di una prospettiva intersezionale, in cui al genere si intrecciano anche classe, origine, età e (dis)abilità.
Questo piano vuole realizzare una trasformazione femminista di logiche, politiche, estetiche e retoriche mediatiche della violenza contro le donne e di genere, proponendosi come strumento utile a tutte le operatrici e gli operatori della comunicazione, con l’obiettivo che i media italiani non siano più espressione e veicolo di narrazioni tossiche e sessiste che riproducono una cultura di violenza diffusa.
Per questo vogliamo eliminare tutte le forme di lavoro sottopagato, sommerso e sfruttato delle lavoratrici e dei lavoratori della comunicazione: le narrazioni tossiche sono dovute infatti anche alla ricattabilità di chi lavora nel settore, oltre che alla mancanza di formazione.

Linee guida per una narrazione non sessista
I principi qui espressi confluiranno in una carta deontologica che sarebbe auspicabile venisse adottata dall’intero sistema informativo e mediatico.
• La violenza è strutturale e come tale deve essere raccontata: occorre evitare di presentarla come emergenza o di trattare i fatti di cronaca come episodi privi di legami fra loro, dovuti a circostanze peculiari e fattori individuali.
• La violenza nasce dalla disparità di potere ed è strettamente connessa alla cancellazione sistematica delle donne e dei soggetti non conformi alle norme di genere: occorre promuovere un uso consapevole del linguaggio che sia rispettoso dei generi e che restituisca la storia delle donne.
• La violenza non è amore: occorre riconoscere la cultura sessista alla base della violenza smettendo di parlare di raptus, gelosia, delitto passionale, sovvertendo il frame dell’amore romantico e del conflitto di coppia.
• La violenza è trasversale: è importante dare spazio a tutte le tipologie di violenza patriarcale/eterosessista, evitando di concentrarsi sulle forme ritenute più “notiziabili”, perché eclatanti, come il femminicidio, o perché rappresentate come scabrose, come gli abusi sessuali.
• La violenza non riguarda gli altri: evitiamo di esorcizzarla raccontandola come agita da uomini che appartengono ad altre, e più “primitive”, culture, ad ambienti “degradati”, perché ciò crea allarme sociale e una percezione distorta del fenomeno, strumentalizzandolo in chiave razzista, repressiva e securitaria.
• La violenza avviene principalmente in famiglia e nelle relazioni di prossimità: è necessario sovvertire la logica per cui fanno più notizia le aggressioni nella sfera pubblica per mano di sconosciuti, la stessa per cui serie TV, film e prodotti fictional alimentano il mito del pericolo che viene da “fuori”
• La violenza avviene anche nella sfera pubblica: però si tratta più spesso di illuminati luoghi di lavoro, sale parto e centri di identificazione e espulsione che non di buie strade cittadine.
• La violenza non è spettacolo: è necessario, soprattutto per i media visivi, evitare di normalizzarla, estetizzarla o feticizzarla trasformando corpi vessati e cadaveri in oggetto di contemplazione (erotica).
• Le donne al centro: occorre fare riferimento a CAV e associazioni femministe come fonti principali di informazione, seguendo modalità rispettose nell’interazione con donne che hanno subito violenza.
• Le donne non sono vittime passive, predestinate, isolate: bisogna evitare di riprodurre lo stereotipo vittimizzante e promuovere invece il racconto di donne resistenti contro la violenza, di reti di solidarietà transfemministe.
• Chi subisce violenza di genere non ne è mai responsabile: va evitata qualsiasi forma di “rivittimizzazione”, ad esempio insinuazioni sull’incapacità di sottrarsi a una relazione violenta o sulla vittima/sopravvissuta che “se l’è cercata”, per via di condotte “imprudenti” (che disciplinano i soggetti femminili e ne limitano l’autodeterminazione).
• La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”: dipingerla come rischio cui sono più esposte donne che si prostituiscono, persone dalle identità sessuali “non conformi” o semplicemente donne non in linea con la femminilità normativa significa, di nuovo, rivittimizzare e disciplinare chi ha subito la violenza.
• Gli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi: occorre evitare la patologizzazione dell’uomo violento, che ancora una volta individualizza il fenomeno e deresponsabilizza l’autore di un delitto o di una violenza.