Livia Monardo – “Esistere all’interno di un campo artistico, letterario… significa differire”

Introduzione

Habitus[i], campo sociale, capitale simbolico e infine il celebre e studiato argomento della violenza simbolica[ii] sono solo alcune delle tematiche che stravolgono il nostro tempo in una chiave che inizialmente ci appare teorica ma che si applica perfettamente al quotidiano! È proprio questo che ci insegna il celebre sociologo Pierre Bourdieu: la possibilità di distinguere tra il sociale e il politico in una maniera non monolitica; il sociale dalla parte dell’immanenza e il politico dalla parte della trascendenza. Facciamo politica in tutti quei momenti non distinti del vivere ordinario, nel passaggio dall’opus operatum al modus operandi.

Un altro punto interessante del nostro protagonista, è che non si limita come Engels, a considerare il romanziere una fonte per la storia di un’epoca, ma guarda il romanzo come una ricerca «sociologica spontanea» (del suo autore), cioè delle categorie sociali secondo cui l’autore «appercepisce» kantianamente l’universo sociale in cui si muove. È questo uno sguardo del tutto nuovo sul romanzo, una chiave di lettura che non si sostituisce alla critica letteraria, all’esegesi filologica, all’analisi testuale, ma che fa emergere dalla costruzione narrativa una dimensione che fino ad allora ci era rimasta del tutto nascosta. Un’altra idea insolita e incongrua di Bourdieu è di disegnare le mappe urbane dei romanzi, con i personaggi che si addensano a grappoli in quartieri legati alla loro posizione sociale, e con altri personaggi che traslocano a seconda delle loro traiettorie sociali, in una straordinaria sovrapposizione tra destino narrativo e parabola sociale.[iii]

Prima di proseguire bisogna definire alcune nozioni tra le quali il concetto rilevante di campo, per poi fare un breve excursus sul rapporto di genere e sull’ habitus di genere, giungendo infine alla violenza simbolica e all’economia dei beni simbolici.

Bourdieu prende in prestito il concetto di campo dalla fisica, esso non va inteso come dominio, «podere della conoscenza specialistica», ma nel senso del campo elettromagnetico o gravitazionale.

La prima osservazione è che dalla rottura tra filosofia della natura (fisica) e filosofia tout court, che si è prodotta dopo Leibniz, la filosofia non ha quasi mai introiettato le grandi elaborazioni concettuali prodotte dalla fisica.

La seconda osservazione riguarda lo specifico prestito acceso da Bourdieu: il campo è un operatore che incorpora in sé stesso tutti i processi di retroazione con gli agenti su cui opera e da cui è costituito. In questo senso il campo appare come il miglior strumento concettuale a disposizione per un’analisi della società, se si vogliono evitare le trappole del determinismo di tipo positivistico e del volontarismo individualista.[iv]

C’è poi da sottolineare che ogni individuo è immerso in parecchi campi contemporaneamente. D’altronde ogni ambito delle relazioni sociali che acquista una relativa autonomia rispetto alle altre relazioni, che acquista una sua logica, finisce per strutturarsi in campo, così che i vari campi interagiscono tra loro e ognuno di essi può essere suddiviso in vari sottocampi. Un campo del potere potrà scindersi in un campo del potere politico interagente ma distinto dal campo del potere economico. Altrettanto dicasi per il campo intellettuale che si suddivide in vari campi, da quello artistico a quello scientifico. Bourdieu parla di campo burocratico e giornalistico, come di campo medico o filosofico. A tal proposito afferma che quest’ultimo può funzionare come campo del linguaggio[v] ordinario quando non occulta la gamma di proposizioni; e i significati dell’essere filosofico vengono attribuiti ad un riconoscimento collettivo.

In ogni campo, la posizione di un agente dipende dalla quantità e dalla struttura del capitale che ha a disposizione (perché ereditato o perché accumulato): Bourdieu distingue infatti vari tipi di capitale, un capitale economico, un capitale culturale e un capitale sociale (la rete di conoscenze), e non conta solo la quantità assoluta di capitale di un certo tipo a disposizione, ma la composizione, per così dire, «del portafoglio». In ogni campo un certo capitale ha più peso di altri, ma in ognuno contano tutti e tre i tipi di capitale. Le disposizioni di una persona sono perciò la sua storia incorporata, nello stesso modo in cui Roland Barthes diceva che lo stile costituisce il passato di uno scrittore, è il sedimento della storia letteraria, mentre il suo presente è la scrittura. Queste disposizioni fanno sì che in un certo campo un agente scelga una strategia piuttosto che un’altra, o più in generale che un individuo sia più incline a comportarsi in un determinato modo e ad avere determinati gusti: quest’insieme di disposizioni, che come abbiamo già visto, Bourdieu chiama habitus.[vi]

Il rapporto di genere

La pratica sociale, insiste Bourdieu, è una pratica classificatoria, ordinata e strutturata secondo schemi di classificazione.

La rappresentazione simbolica di genere, rimanda alla divisione sessuale del lavoro. Bourdieu fa riferimento alla società cabila, descrivendola come una società che non conosce altra dimensione di differenza sociale e di dominio se non quella determinata dal genere.

La distinzione tra maschile e femminile è uno strumento primario di classificazione, in grado di strutturare non solo il mondo sociale, ma anche quello che potremmo definire mondo naturale.

La distinzione tra maschile e femminile si riversa nei corpi, forgiandoli così come forma la percezione del corpo, la capacità espressiva e le abitudini corporee. Infine determina anche l’identità attraverso il corpo, un’identità che è fin da principio maschile o femminile.

La divisione del lavoro secondo i sessi non solo è profondamente ancorata ai soggetti ma si presenta come ordine naturale del mondo.[vii]

L’Habitus di genere

Il rapporto di genere viene percepito innanzitutto come “naturale”. Secondo Bourdieu le tassonomie e gli ordini simbolici vengono elaborati dall’habitus, determinano l’agire per mezzo dell’habitus.

La violenza simbolica presuppone che ogni donna possegga un senso pratico del femminile, un senso dei limiti, della capacità di muoversi in una determinata società e situazione, e quindi percepisca tutti quei segnali più o meno inconsci che in situazioni concrete, le mostrino chiaramente i propri confini e il proprio assoggettamento. La divisione del lavoro sociale tra uomo e donna e gli schemi di giudizio ad essa connessi devono essere tradotti in carne e in sangue, devono diventare “natura”, habitus.[viii]

Anche l’autrice Lia Cigarini, nel testo La politica del desiderio sostiene che il soggetto femminile si costituisce se pensa il mondo a partire da sé, dalla propria pratica e dalle proprie relazioni, mentre il soggetto maschile si è costituito perché ha pensato il mondo.

Se penso il mondo a partire dal mio essere donna, se voglio dare un significato a questo essere donna, penso il mondo nella sua interezza.

L’identità di genere, invece, è il risultato di un lavoro di differenziazione, di diversificazione e di distinzione, un lavoro basato sulla semplificazione, sull’esclusione e sull’eliminazione delle ambiguità per mezzo della relazione antagonistica tra maschile e femminile.[ix]

Violenza simbolica

Che cos’è la violenza simbolica? E come viene descritta dall’autore?

La violenza simbolica viene definita nel seguente modo è «quella che estorce atti di sottomissione nemmeno percepiti come tali, fondandosi su attese collettive, credenze socialmente inculcate. La teoria della violenza simbolica si fonda su una teoria della credenza, o meglio su una teoria della produzione della credenza, dell’opera di socializzazione necessaria a produrre agenti dotati di schemi di percezione e di valutazione che permettono loro di percepire le ingiunzioni inscritte in una situazione o in un discorso di uniformarvisi».[x]

La violenza simbolica è un modo sottile, eufemizzato ed invisibile di esercitare il potere; è una forma di violenza nascosta, presente nell’interazione face to face, ma che funziona solo nella misura in cui non viene riconosciuta in quanto violenza, costrizione o intimidazione.[xi]

Unito alla tematica della violenza simbolica vi è la violenza fisica/simbolica contro le donne. Perché noi donne subiamo quotidianamente tanta discriminazione per strada, sul lavoro, in discussioni universitarie non venendo ascoltate o tagliate fuori dai discorsi e la cosa più triste anche in alcune famiglie? Questo è quello che viene sostenuto da Gunter e Beate nel testo Habitus e che purtroppo è una triste realtà!

Per Bourdieu, la violenza simbolica è una forma di dominio legata immediatamente all’habitus.

La violenza simbolica, secondo Bourdieu presuppone una certa approvazione. Approvazione significa in grado di decodificarne i segnali e di interpretare il contenuto sociale nascosto, senza essere consapevoli del significato di quei gesti, di quegli sguardi del fatto che si tratti di atti di violenza.

La violenza simbolica viene esercitata dagli uomini verso le donne anche in campo accademico.

Le richieste di intervento da parte delle donne vengono spesso ignorate. Questo ha portato al diffuso malessere delle donne, la sensazione di non far parte di questo mondo e lo scopo degli atti di violenza simbolica è proprio la produzione di questo malessere.[xii]

I soggetti repressi, in questo caso le donne, interiorizzando l’ordine vigente, assumono l’identità di soggetti minori. Dominazione significa assunzione da parte dei dominanti.

I dominati applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti ai rapporti di dominio, facendoli apparire come naturali. E ciò può portare ad una sorta di autosvalutazione, se non di autodenigrazione sistematica, visibile soprattutto, come si è detto, nella rappresentazione che le donne cabile si fanno del loro sesso come di una cosa deficitaria, brutta, addirittura ripugnante (o nei nostri universi, nella visione che molte donne hanno del loro corpo come non conforme ai canoni estetici imposti dalla moda) e, più generalmente, nella loro adesione a un’immagine svalutante della donna. Il sociologo Laing parla, in proposito, del sentimento di «insicurezza ontologica primaria», ossia un pervasivo sentimento (o vissuto) di insicurezza o di mancanza di autostima, di fiducia in se stessi, di solidità dell’Io, di coesione del self.

La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarci o, meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questo rapporto come naturale; o, in altri termini, quando gli schemi che egli impiega per percepirsi e valutarsi o per percepire o valutare i dominanti (alto/basso, maschile/femminile, bianco/nero) sono il prodotto dell’incorporazione delle classificazioni, così naturalizzate, di cui il suo essere sociale è il prodotto.[xiii]

Accettare un’inversione di apparenze equivale a far pensare che sia la donna a dominare cosa che sarebbe screditante da un punto di vista sociale: la donna cioè si sentirebbe diminuita con un uomo sminuito. Nella rappresentazione che le donne si fanno del loro rapporto con l’uomo al quale la loro identità sociale è legata, le donne tengono conto della rappresentazione che l’insieme degli uomini e delle donne sarà inevitabilmente portato a farsi di lui applicandogli gli schemi di percezione e di valutazione universalmente condivisi.[xiv]

Si può quindi pensare questa forma particolare di dominio solo a condizione di superare l’alternativa tra costrizione e consenso. L’effetto del dominio simbolico si esercita non nella logica pura delle coscienze conoscenti, ma attraverso schemi di percezione, di valutazione e di azione che sono costitutivi degli habitus e fondano, al di qua delle decisioni della coscienza e dei controlli della volontà, un rapporto di conoscenza profondamente oscuro a se stesso. Così la logica paradossale del dominio maschile e della sottomissione femminile, di cui contemporaneamente e senza contraddizione, che è spontanea ed estorta, si capisce solo se si prende atto degli effetti durevoli che l’ordine sociale esercita sulle donne (e gli uomini), cioè delle disposizioni spontaneamente adattate a quell’ordine che essa impone loro.[xv]

La forza simbolica è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente, e come per magia, in assenza di ogni costrizione fisica; ma questa magia opera solo poggiandosi su disposizioni depositate, vere e proprie molle, nel più profondo dei corpi. Essa trova le sue condizioni di possibilità e la sua contropartita economica nell’immenso lavoro preliminare necessario per operare una trasformazione durevole dei corpi e produrre le disposizioni permanenti che essa scatena e risveglia; azione trasformatrice tanto più potente in quanto si esercita, essenzialmente, in modo invisibile e insidioso, attraverso la familiarizzazione insensibile con un mondo fisico simbolicamente strutturato e un’esperienza precoce e prolungata di interazioni abitate dalle strutture di dominio.[xvi]

Gli atti di conoscenza e di riconoscimento pratici della frontiera magica tra dominanti e dominati che la magia del potere simbolico innesca e attraverso i quali i dominati contribuiscono, spesso a loro insaputa, a volte contro la loro volontà, al loro stesso dominio accettando tacitamente i limiti imposti, assumono spesso la forma di emozioni corporee[xvii], vergogna[xviii], umiliazione, timidezza, ansia, senso di colpa, o di passioni e sentimenti, amore, ammirazione, rispetto; emozioni tanto più dolorose, a volte, in quanto si esprimono in manifestazioni visibili, come il rossore, il balbettio, la goffaggine, il tremito, la collera o la rabbia impotente, tutti modi di sottomettersi, vincendo la resistenza del proprio corpo, al giudizio dominante, tutte maniere di provare, a volte nel conflitto interiore e nella scissione dell’Io, la complicità sotterranea che un corpo riluttante alle direttive della coscienza e della volontà instaura con le censure inerenti alle strutture sociali.[xix]

Questo rapporto tra dominanti e dominati e la stratificazione che si viene a formare con la violenza simbolica fa riflettere sulla tematica del gusto[xx]. Bourdieu dimostra come la capacità distintiva del gusto  – concetto assunto dal celebre filosofo illuminista Immanuel Kant  – possa essere messa in gioco per accumulare profitti simbolici; dimostra cioè come la società funzioni in gran parte sulla base di giudizi di gusto, nella misura in cui la complicità o la competizione tra gruppi sociali avviene per mezzo di un consenso o di un rifiuto sul piano sensitivo. L’ineguaglianza sociale e il dominio sono tematiche centrali nella sociologia bourdieusiana. Dai suoi primi scritti e dal testo La distinzione, risulta evidente che la forma di potere che interessa a Bourdieu è quella che definisce dominio simbolico o violenza simbolica.

Il fondamento della violenza simbolica risiede non in coscienze mistificate che sarebbe sufficiente illuminare, bensì in disposizioni adattate alle strutture di dominio di cui sono il prodotto, ci si può attendere una rottura del rapporto di complicità che le vittime del dominio simbolico stabiliscono con i dominanti solo da una trasformazione radicale delle condizioni sociali di produzione delle disposizioni che portano i dominati ad assumere sui dominanti e su se stessi il punto di vista dei dominanti. La violenza simbolica si compie solo attraverso un atto di conoscenza pratica che si effettua al di qua della coscienza e della volontà e che conferisce la loro efficacia a tutte le manifestazioni, ingiunzioni, suggestioni, seduzioni, minacce, rimproveri, ordini o richiami all’ordine che la caratterizzano. Ma un rapporto di dominio che funziona solo attraverso la complicità delle disposizioni dipende largamente, per la sua perpetuazione o la sua trasformazione, dalla perpetuazione o dalla trasformazione delle strutture di cui queste disposizioni sono il prodotto.[xxi]

La violenza simbolica, inoltre, si fonda sull’accordo tra le strutture costitutive dell’habitus dei dominati e la struttura della relazione di dominio al quale essi (o esse) si applicano: il dominato percepisce il dominante attraverso categorie prodotte dalla relazione di dominio e quindi conformi agli interessi del dominante.

 L’economia dei beni simbolici

Bourdieu nel testo Ragioni Pratiche vuole tentare d’individuare i principi generali di un’economia dei beni simbolici. L’autore si rende conto che affrontando l’economia cabila, si era servito dell’esperienza pratica dell’economia domestica, per comprendere quell’economia spesso in contraddizione con la nostra esperienza dell’economia del calcolo.

Il principio dello scambio di doni viene descritto da Mauss come una serie discontinua di atti generosi, mentre Lévi-Strauss lo definiva una struttura di reciprocità trascendente rispetto agli atti di scambio in cui il dono rimanda al contraccambio. Secondo Bourdieu mancava il ruolo determinante dell’intervallo di tempo che divide il dono dal contraccambio, ossia il fatto che non si restituisce subito quanto si è ricevuto poiché sarebbe l’equivalente di un rifiuto.[xxii] Il do ut des rappresenta l’annullamento dello scambio di doni. Il problema è arduo: se la sociologia si limita a una descrizione oggettiva, riduce lo scambio di doni al do ut des e non sa più su che fondare la differenza fra uno scambio di doni e un atto di credito. Quello che conta nello scambio di doni, dunque, è il fatto che, attraverso l’intervallo di tempo interposto, i due donatori, senza saperlo e senza essersi accordati, si adoperano a mascherare o a rimuovere la verità oggettiva di quello che fanno.

Una prima proprietà dell’economia degli scambi simbolici si tratta di pratiche che presentano sempre delle doppie verità, difficili da conciliare. Bisogna prendere atto di questo dualismo. Si comprende l’economia dei beni simbolici solo se si accetta senza riserve di prendere sul serio questa ambiguità che non dipende dallo studioso ma è presente nella realtà stessa, questa specie di contraddizione fra la verità soggettiva e la realtà oggettiva. Dualismo reso possibile e praticabile grazie a una sorta di self-deception, di automistificazione. Ma la self-deception individuale è sostenuta da una self-deception collettiva, un autentico disconoscimento collettivo il cui fondamento è inscritto nelle strutture oggettive e nelle strutture mentali che escludono la possibilità di pensare e di agire altrimenti.[xxiii]

Che gli agenti possano essere mistificatori di se stessi e degli altri e nello stesso tempo mistificati si spiega col fatto che, fin dall’infanzia, vivono immersi in un universo in cui lo scambio di doni è socialmente istituito nelle disposizioni e nelle credenze, e quindi sfugge ai paradossi artificiosamente suscitati da chi, come Jacques Derrida nel libro Passions, si colloca nella logica della coscienza e della libera decisione di un individuo isolato. Se si dimentica  che chi dà, come chi riceve, è incline e preparato da tutta l’opera di socializzazione a entrare senza intenzioni o calcolo di profitto in quello scambio generoso la cui logica gli si impone oggettivamente, si può concludere che il dono gratuito non esiste o che è impossibile, perché si può pensare ai due agenti solo come a dei calcolatori che progettino soggettivamente di fare ciò che oggettivamente fanno, secondo il modello di Lévi Strauss, ossia uno scambio regolato dalla logica della reciprocità.[xxiv]

A questo punto ci si imbatte in un’altra proprietà dell’economia degli scambi simbolici: il tabù dell’esplicitazione (di cui il prezzo è la forma per eccellenza). Dire come stanno le cose, dichiarare la verità dello scambio o, come a volte si dice, la verità dei prezzi equivale ad annullare lo scambio. Si vede tra l’altro che i comportamenti il cui paradigma è lo scambio di doni pongono un arduo problema alla sociologia che, per definizione, ha il compito di esplicitare.

Nella descrizione degli effetti prodotti dall’introduzione del prezzo si può trovare una verifica di queste analisi e una testimonianza di quella sorta di tabù dell’esplicitazione che si cela nell’economia degli scambi simbolici: se quest’ultima può servire da analizzatore dell’economia dello scambio economico, è anche possibile, inversamente chiedere all’economia dello scambio economico di fungere da analizzatore dell’economia degli scambi simbolici. Così il prezzo che caratterizza in proprio l’economia degli scambi economici in opposizione a quella dei beni simbolici, funge da espressione simbolica del consenso sul tasso di scambio implicito in ogni scambio economico. Il consenso sul tasso di scambio è presente anche in un’economia degli scambi simbolici, ma i termini e le condizioni rimangono allo stato implicito. Nello scambio di doni, il prezzo deve restare implicito (non voglio sapere la verità dei prezzi né voglio sapere che l’altro lo sappia). Gli economisti parlano di common knowledge: so che tu sai che, quando ti faccio un dono, so che restituirai. Parlare nell’ambito di common knowledge (o di self-deception), significa restare nell’ambito di una filosofia della coscienza facendo come se in ogni agente vivesse una doppia coscienza, una coscienza sdoppiata, divisa contro se stessa, che reprime una verità peraltro nota. Si può dare conto di tutti i comportamenti duplici, senza duplicità, dell’economia degli scambi simbolici, solo a condizione di abbandonare la teoria dell’azione come prodotto di una coscienza intenzionale, di un progetto esplicito, di una intenzione esplicita e orientata verso un fine esplicitamente posto.[xxv] Così lo scambio di doni (di donne, di favori,…) concepito come paradigma dell’economia dei beni simbolici si oppone al do ut des dell’economia economica perché al suo principio non c’è un soggetto calcolatore, ma un agente socialmente predisposto ad entrare, senza intenzioni né calcolo, nel gioco dello scambio.[xxvi]

Un altro fattore determinante del perpetuarsi delle differenze è la permanenza che l’economia dei beni simbolici deve alla sua autonomia relativa, permanenza che permette al dominio maschile di persistere al di là delle trasformazioni dei modi di produzione economica, e questo con il sostegno costante ed esplicito che la famiglia, principale custode del capitale simbolico, riceve dalla chiesa e dal diritto.

Essendo escluse dall’universo delle cose serie, degli affari pubblici, soprattutto economici, le donne sono rimaste a lungo confinate nell’universo domestico e nelle attività associative alla riproduzione biologica e sociale della stirpe. Queste attività, in particolare quelle materne, che, pur essendo apparentemente valorizzate e a volte celebrate ritualmente, lo sono nella misura in cui restano subordinate alle attività di produzione, le uniche suscettibili di una vera sanzione economica e sociale, e ordinate in rapporto agli interessi materiali e simbolici della stirpe, cioè degli uomini. Per questo una parte importante di lavoro domestico della donna è dedicata ancora oggi, in molti ambienti, a mantenere la solidarietà e l’integrazione della famiglia, curando i rapporti di parentela e il capitale sociale attraverso l’organizzazione di tutta una serie di attività sociali e ordinarie, come il pasto che riunisce tutta la famiglia.

Questo lavoro domestico per lo più passa inosservato, o viene frainteso. Il fatto che il lavoro della donna non abbia un equivalente monetario contribuisce a svalutarlo agli occhi della donna stessa, come se questo tempo privo di un valore mercantile non avesse importanza e potesse essere dato senza contropartita, e senza limiti, innanzitutto ai membri della famiglia, soprattutto ai figli, ma anche all’esterno, in attività benefiche, in iniziative di volontariato o sempre di più in associazioni e partiti. Spesso costrette a non abbandonare il terreno delle attività non remunerative e poco portate quindi a pensare il lavoro in termini di equivalenza monetaria, le donne, assai più spesso degli uomini, sono inclini alle attività di beneficienza, religiose o caritatevoli in particolare.

Se nelle società meno differenziate, erano trattate come mezzi di scambio che dovevano permettere agli uomini di accumulare capitale sociale e capitale simbolico attraverso il matrimonio, vero e proprio investimento finalizzato all’instaurazione di legami di parentela più o meno estesi e prestigiosi, oggi le donne danno un contributo decisivo alla produzione e alla riproduzione del capitale simbolico della famiglia.

Il mondo sociale funziona come un mercato dei beni simbolici dominato dalla visione maschile: come si è detto, esse, quando si tratta delle donne, significa percipi, essere percepite, e percepite dall’occhio maschile o da un occhio abitato dalle categorie maschili quelle cui si ricorre, senza essere in grado di enunciarle esplicitamente.

La posizione particolare delle donne sul mercato dei beni simbolici spiega buona parte delle disposizioni femminili: se ogni rapporto sociale è, sotto un certo aspetto, il luogo di uno scambio in cui ciascuno offre alla valutazione il suo apparire sensibile, il peso che, in questo essere-percepiti, ricade sul corpo ridotto a quello che a volte viene detto il “fisico”, rispetto a proprietà meno direttamente sensibili, come il linguaggio, è maggiore per la donna che per l’uomo.[xxvii] Nella donna vi è un investimento di tempo, denaro, energie nel lavoro cosmetico, mentre nell’uomo abito, decorazioni, uniforme tendono a cancellare il corpo a vantaggio dei segni sociali della posizione sociale.

Essendo socialmente portate a trattare se stesse come oggetti estetici e, di conseguenza, a dedicare un’attenzione costante a tutto ciò che riguarda la bellezza, l’eleganza del corpo, dell’abbigliamento, del portamento, le donne si vedono nel modo del tutto naturale affidare, nella divisione del lavoro domestico, la responsabilità di tutto ciò che ha a che fare con l’estetica e con la gestione dell’immagine pubblica e delle apparenze sociali dei membri dell’unità domestica. Sono le donne che si assumono il compito e la cura dell’ambiente in cui si svolge la vita quotidiana della casa e del suo arredamento.

Preposte alla gestione del capitale simbolico delle famiglie, le donne sono logicamente invitate ad assumere questo ruolo anche all’interno dell’impresa, che diede loro quasi sempre di farsi carico delle attività di presentazione e di rappresentanza, di ricevimento e di accoglienza.[xxviii]

Si capisce che, a livello generale, si possono affidare alle donne, per una semplice estensione del loro ruolo tradizionale, funzioni nella produzione o nel consumo dei beni e dei servizi simbolici, sino alla grande sartoria o all’alta cultura. Responsabili all’interno dell’unità domestica della conversione del capitale economico in capitale simbolico, le donne sono predisposte a entrare nella dialettica permanente dell’ostensione e della distinzione cui la moda offre uno dei terreni dell’elezione e che rappresenta il motore della vita culturale intesa come movimento perpetuo di superamento e di rincaro simbolici.

È come se il mercato dei beni simbolici, cui le donne devono le migliori attestazioni della loro emancipazione professionale, concedesse a queste libere lavoratrici della produzione simbolica le apparenze della libertà, solo per meglio ottenere la loro fervida sottomissione e il loro contributo al dominio simbolico che si esercita attraverso i meccanismi dell’economia dei beni simbolici di cui esse sono anche le vittime privilegiate.[xxix]

Conclusioni

Vorrei concludere questo piccolo abstract con una celebre frase del nostro protagonista. “Una delle proprietà generali dei campi è l’esistenza al loro interno di lotte per imporre al campo stesso la visione dominante.”

Penso che questa frase racchiuda in parte ciò che abbiamo analizzato dal concetto di campo al concetto dominante-dominato nella violenza simbolica.

È interessante fare un parallelo col sociologo Anthony Giddens ossia – in contrapposizione al sentimento di insicurezza ontologica analizzato da Ronald David Laing – Giddens sostiene un sentimento di sicurezza ontologica ossia «un senso di continuità e ordine negli eventi». Quello che intende Giddens[xxx] è questa emergenza di un’identità soggettiva, e di un self come qualcosa che l’individuo deve continuamente costruire. [xxxi]

Note

[i] Il concetto di habitus viene esplorato da altri autori prima di Bourdieu: Émile Durkheim, Max Weber, Marcel Mauss e Norbert Elias. La peculiarità di Bourdieu è aver attribuito al termine habitus un significato in campo sociologico, dove il termine rappresenta il nucleo fondamentale della sua teoria. L’habitus è un principio generativo, un operatore o modus operandi (un modo d’agire o di comportarsi) che produce improvvisazioni regolari o pratiche sociali. L’habitus è creativo e ingegnoso. È in grado di produrre comportamenti nuovi in situazioni sconosciute, ha il potenziale di un’ars inveniendi, un’arte dell’invenzione. Questo operatore è il prodotto della storia di un individuo, è esperienza accumulata e quindi non solo modus operandi, ma anche opus operatum, è storia incorporata ed interiorizzata. Beate, K. Gunter, G. (2002). Habitus. Armando Editore, p. 9-10.

L’insieme di disposizioni che fanno sì che un individuo sia più incline a comportarsi in un determinato modo ed avere determinati gusti è ciò che Bourdieu chiama habitus. L’habitus occupa un posto centrale perché è un concetto double face, perché è il prodotto di condizioni che a sua volta condiziona, per dirla con Bourdieu, «struttura strutturante che organizza le pratiche e la percezione delle pratiche, l’habitus è anche struttura strutturata: il principio di divisioni in classi logiche che organizza la percezione del mondo sociale è esso stesso il prodotto dell’incorporazione della divisione in classi sociali». Bourdieu, P. (2002). Campo del potere e campo intellettuale. Manifestolibri, p.18

[ii] Nelle scienze sociali con il concetto di violenza simbolica, introdotto all’inizio degli anni 1970 dal sociologo francese Pierre Bourdieu, ci si riferisce alle forme di violenza esercitate non con la diretta azione fisica, ma con l’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli sociali, delle categorie cognitive, delle strutture  mentali attraverso cui viene percepito e pensato il mondo, da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati.
Costituisce quindi una violenza “dolce”, invisibile, che viene esercitata con il consenso inconsapevole di chi la subisce e che nasconde i rapporti di forza sottostanti alla relazione nella quale si configura.

Tale concetto, divenuto poi centrale nelle sue opere teoriche chiave, venne formulato da Bourdieu attraverso gli studi sulla società cabila e sul sistema scolastico francese. Queste due ricerche forniscono i due esempi più classici di violenza simbolica che il sociologo propone: l’imposizione di un arbitrio culturale nell’azione pedagogica e la replicazione del dominio maschile sulle donne tramite la “naturalizzazione” della differenziazione tra i generi.
Strettamente connessi alla violenza simbolica sono quindi i concetti di habitus, il processo attraverso il quale avviene la riproduzione culturale e la naturalizzazione di determinati comportamenti e valori, e di incorporazione, il processo attraverso il quale le relazioni simboliche si ripercuotono in effetti diretti sul corpo dei soggetti sociali.

[iii] Bourdieu, P. (2002). Campo del potere e campo intellettuale. Manifestolibri, p.11.

[iv] Bourdieu, P. Ivi, p.13-18.

[v] Si può istituire un parallelismo tra la figura di Bourdieu e quella del celebre filosofo Ludwig Wittgenstein. Bourdieu aggiunge all’analisi di Wittgenstein il fatto che la lingua è un fatto sociale e ci permette di capire che l’uso dei significati ce lo dà in un quadro collettivo condiviso in una gamma di possibilità. Per Bourdieu è lo stesso interagire che produce regole, per Wittgenstein è lo stesso parlare che contiene regole.

[vi] Bourdieu, P. (2002). Campo del potere e campo intellettuale. Manifestolibri, p.13-18.

[vii] Beate, K. Gunter, G. (2002). Habitus. Armando Editore, p. 49- 52.

[viii] Beate, K. Gunter, G. Ivi, p. 53.

[ix]  Beate, K. Gunter, G. Ivi, p. 53.

[x] Bourdieu, P. (2009). Ragioni Pratiche. Il mulino, p. 169.

[xi] Beate, K. Gunter, G. (2002). Habitus. Armando Editore, p. 65.

[xii] Beate, K. Gunter, G. Ibidem

[xiii] Bourdieu, P. (2014). Il dominio maschile. Feltrinelli Editore, p. 45.

[xiv] Bourdieu, P. Ivi, p. 46.

[xv] Bourdieu, P. Ivi, p. 48.

[xvi] Bourdieu, P. Ivi, p. 48-49.

[xvii] Il dibattito sulle emozioni è molto vasto in filosofia della mente, la controversia primaria che si viene a creare negli anni ‘80 è tra gli psicologi Richard Lazarus e Robert Zajonc. Il primo sostiene che l’attivazione di uno stato emozionale è sempre simile ai processi cognitivi paradigmatici, mentre il secondo che le emozioni hanno talvolta un carattere modulare, nel senso di essere rapide risposte stereotipate, simili a riflessi. Le emozioni primarie sono risposte complesse, coordinate e automatiche a eventi ambientali. Complesse in quanto coinvolgono elementi di vario genere tra cui variazione della mimica facciale, risposte scheletrico e muscolari, variazioni del timbro di voce ecc, coordinate in quanto tali elementi ricorrono secondo schemi o sequenze riconoscibili, automatiche in quanto hanno luogo in modo coordinato senza richiedere il controllo cosciente.  Le emozioni primarie sono sei: tristezza, paura, rabbia, disgusto, sorpresa e gioia.

[xviii] Vergogna, invidia, gelosia sessuale fedeltà sono emozioni complesse. Le emozioni complesse rispetto alle emozioni primarie sono sensibili a una gamma molto più ampia di informazioni, inclusi i pensieri, non esibiscono il repertorio stereotipato di effetti fisiologici che caratterizza le emozioni primarie, sono risposte di maggiore durata, sono ben integrate in attività cognitive come la pianificazione delle azioni.

[xix] Bourdieu, P. (2014). Il dominio maschile. Feltrinelli Editore, p. 49.

[xx]A partire dal Settecento, s’intende con gusto la disposizione a giudicare correttamente gli oggetti del sentimento. Ora il principio di una tale facoltà viene generalmente individuato, sulla scorta di tutta la precedente tradizione filosofica, nel senso comune. Infatti scrive Kant «soltanto nell’ipotesi che ci sia un senso comune, può essere pronunciato il giudizio di gusto». Nella nozione di gusto, che è quanto dire nella nozione di un giudizio estetico dotato di un’universalità soggettiva e sentimentale, vengono così a confluire due istanze: l’una gnoseologica, l’altra morale, presenti entrambe nella preistoria della nozione di gusto, vale a dire nell’idea di sensus communis. D’Angelo, P. Dizionario di Estetica.

Il giudizio di gusto emerge nella Critica del Giudizio di Immanuel Kant a proposito della seconda e quarta tesi definizione del concetto di bello in ordine “bello è ciò piace universalmente senza concetto” e “bello è ciò che suscita un piacere necessario”.  La seconda e quarta tesi, che asseriscono il carattere universale e necessario del piacere provato in concomitanza con il giudizio sul bello, contengono una delle affermazioni più importanti della Critica del Giudizio: i giudizi di gusto devono poter ambire a una validità universale, ossia devono poter essere condivisi intersoggetivamente pur senza essere fondati su concetti. La ragione di questa pretesa è trascendentale, e risiede nella natura del piacere provato in concomitanza con il giudizio estetico, un piacere derivante da quello che Kant chiama “libero gioco” delle facoltà conoscitive coinvolte nel giudizio sul bello: l’immaginazione e l’intelletto. Questo armonico accordarsi delle facoltà soggettive produce infatti uno stato d’animo soggettivo, non vincolato ad alcun concetto o regola e tuttavia condivisibile intersoggettivamente, una sorta di senso comune fondato sul sentimento che Kant chiama sensus communis aestheticus. Il giudizio di gusto diventa dunque in Kant il fondamento trascendentale della possibilità di condividere intersoggetivamente il sentimento, luogo in cui l’esperienza del gusto può essere comunicata e assumere una valenza sociale. D’angelo, P. Franzini, E. Scaramuzza, G. (2002). Estetica. Raffaello Cortina Editore, p. 160-161.

[xxi] Bourdieu, P. (2014). Il dominio maschile. Feltrinelli Editore, p. 53.

[xxii] Bourdieu, P. (2009). Ragioni Pratiche. Il mulino, p. 159.

[xxiii] Bourdieu, P. Ivi, p. 160.

[xxiv] Bourdieu, P. Ivi, p. 160.

[xxv] Bourdieu, P. Ivi, p. 163.

[xxvi] Bourdieu, P. (2009). Ragioni Pratiche. Il mulino, p. 164.

[xxvii] Bourdieu, P. (2014). Il dominio maschile. Feltrinelli, p.113-117.

[xxviii] Bourdieu, P. Ivi, p.113-117.

[xxix] Bourdieu, P. Ivi, p.118-119.

[xxx] Giddens ci descrive il senso di sicurezza ontologica intendendo che gli agenti mirano a mantenere un grado elevato di sicurezza ontologica seguendo le convenzioni quotidiane e le routines accettate, oltre che evitando azioni che possono determinare mutamenti radicali

[xxxi] Giddens, A. (1991). Identità e società moderna. Ipermedium libri, p.243.

 

Livia Monardo è laureanda del corso di Laurea Magistrale di Scienze Filosofiche della facoltà di Roma Tre. Ho conseguito la Laurea Triennale in Filosofia presso lo stesso Ateneo. E’ interessata a vari campi di lavoro, come direbbe il sociologo Pierre Bourdieu, tra cui il tema delle Human Resources. Proprio a marzo ho conseguito uno Strategic Human Resources Management Certificate alla Pace University di New York

Federica Giardini
Federica Giardini

Federica Giardini insegna Filosofia politica all'Università Roma Tre. Ha lavorato sulla relazione corporea tra filosofia e psicoanalisi, sulle genealogie femministe, a partire dal pensiero della differenza, sui beni comuni. Attualmente lavora, insie (...) Maggiori informazioni