Monique Wittig. Riflessioni a partire da The Straight Mind and Other Essays (1992)

Monique Wittig. Riflessioni a partire da The Straight Mind and Other Essays (1992)

[Flusso di] pensieri suscitati dall’incontro con l’opera di Monique Wittig, a partire soprattutto dalla raccolta The Straight Mind and Other Essays (1992)

di Elisa Giangreco

Come “l’ordine del dizionario”, così l’ordine sociale “permette di cancellare gli elementi che hanno distorto la nostra storia durante i periodi bui” (lemma: dictionnaire / dizionario, parola e parole estrapolate dal Brouillon pour un Dictionaire des Amantes, del 1976).

L’ordine opera la rimozione, è “lacunare”. Le lacune strategicamente omesse dalla storia, o usate “come litote” (Litote: eufemismo, formulazione attenuata, mediante negazione del contrario), corrispondono alla memoria delle lotte, delle persone, delle classi. È necessario all’Ordine controllare: movi/menti, cambia/menti, linearità e divenire. L’ordine organizza, orchestra separando presente, passato e futuro, perché nella distinzione si perdono le continuità, le storie si immobilizzano e si essenzializzano.

Riportare all’ordine significa, dunque, anche impedire alle persone, alle soggettività, di far valere e/o rintracciare le proprie storie, memorie. Le tracce sono nei corpi, ma “non osano dire il loro nome”. Le anatomie corporee conservano le tracce di abitudini sociali, reiterate e frutto di norme linguistiche ed extra-linguistiche; in esse si cristallizzano dei rapporti di forza.

“Dare ordine” al mondo, ad esempio attraverso le categorie descrittive e la capacità classificatoria del linguaggio, classificare… è anche “dare ordini” (Caleo 2022). Le categorie descrittive sono anche categorie normative.

Le mistificazioni con cui il linguaggio avvolge la materialità la costringerebbero in uno spazio ridotto e angusto, ma la materialità non cessa di sfuggirne. È una materialità sia astratta che concreta; è la materialità della filiazione XX + XX = XX, che non si ha in Natura, ma è astrazione corporea ed esiste in modi e corpi diversi da quelli biologici. È la materialità lesbica, queer, marginalizzata, polisemica dello Slancio Vitale. Materialità viva.

L’ideologia dominante è capillarmente diffusa, insidia la materia, uno dei suoi veicoli essendo il linguaggio. La prospettiva del margine è quella che, in controluce, scorge e mostra, per sovvertirla, questa onnipresenza, onni-esistenza. E allo stesso tempo ne individua i punti di rottura, le crepe, gli attriti.

Tra gli espedienti di dominio, c’è la costruzione di un forte senso di identità ed identitarismo, al cui fascino non sono indifferenti le stesse soggettività oppresse. Ma il forte attaccamento ad un’identità rafforza i presupposti su cui quell’identità si fonda, la rende eterna nel tempo e nello spazio, anziché sottolinearne il carattere sociale e culturale. La costruzione delle identità segue le modalità di un’ideologia dominante che ne fonda schemi, griglie, meccanismi, tra cui spicca il meccanismo di inclusione/esclusione fra Medesimo ed Altro.

Le categorie biologiche/naturali artificialmente delineate, ritagliate dal continuum del reale, sono oggetto di una scienza messa a punto e detenuta da un gruppo dominante, il quale impone piattezza teorica alle vite concrete che fa oggetto delle sue speculazioni.

“Discorsi [che] parlano di noi e pretendono di dire la verità in una modalità apolitica; come se qualcosa di ciò che ha un significato sociale potesse sottrarsi al politico in questo momento della storia, e come se, per quanto ci riguarda, potessero esistere segni politicamente insignificanti” (“Il pensiero straight”, p. 31. Di qui in avanti, le citazioni da Il pensiero straight e altri saggi – Wittig 1992, verranno segnalate indicando tra parentesi il titolo del saggio di riferimento e le pagine). La scienza “oggettiva” è messa in condizione di potere nei confronti delle soggettività passivizzate e, potremmo dire, che è proprio questo squilibrio a condannarla ad una mancanza di oggettività, alla sua fondativa parzialità. Il punto di vista oggettivo rinuncia ad accogliere contenuti che ne contraddicano alcuni presupposti, mai messi in questione. Inoltre, una “forma” esteriore scientista o pseudo-razionalista è usata per nascondere numerosi difetti, non solo di forma, ma anche di contenuto. Uno dei modi è scegliere su basi inique chi, e come e perché, possa parlare, selezionando in base a qualcosa che potremmo generalizzare come “capitale culturale di un tipo specifico”: come scrive Wittig, “ci opprimono nel senso che ci impediscono di parlare se non usando i loro termini. […] Questi discorsi ci negano ogni possibilità di creare le nostre proprie categorie”.

Per molte soggettività, distruggere un sistema sociale basato su oppressione e appropriazione (e che pertanto le naturalizza) è un’arma volta alla sopravvivenza. Sopravvivenza e distruzione, è distruzione. Distruggere gerarchie, distruggere sistemi di pensiero, distruggere le catene. Il lavoro di Wittig è shock culturale per chi si trovi all’interno di un certo orizzonte valoriale, distrugge perché non fa compromessi. Si allontana, e distacca, e fuoriesce in modo completo e più totale dal mondo in cui è immersa, siamo, e restituisce quell’immagine, la sua e la loro immagine, l’immagine dello sguardo di chi si sottrae.

“Ma la loro azione più feroce è l’inesorabile tirannia che essi esercitano su noi stessi, i nostri corpi, le nostre categorie mentali. Quando usiamo il termine generico di “ideologia” per designare i discorsi del gruppo dominante, li releghiamo nell’ambito delle idee “irreali”; dimentichiamo, così, la violenza materiale (fisica) che essi direttamente esercitano sulle persone oppresse, una violenza prodotta dai discorsi astratti e “scientifici”, come pure dai discorsi dei mezzi di comunicazione” (p. 32).

Johanna Hedva (2018):

For some of us, there is a relationship between healing and justice because what oppresses us has also made us suffer trauma and its accompanying symptoms. Oppression, domination, and violence live first and foremost in our bodies. As much as they are ideological systems, their effect is always material; they deal in matter: flesh, bones, blood. They pierce tissue with bullets, crack necks with boots, make stomachs chew on their own acid out of hunger, imprison bodies in small lightless rooms made of concrete. They flood brains and nervous systems with adrenaline and panic. On the less dramatic side, they work insidiously: they instantiate and re-instantiate memories of unhelpful doctors and police who are not figures of help or safety but of violence and terror; they invalidate and dismiss experiences of pain and suffering, especially those experiences that they’ve directly caused. They deny access to medications and therapies, they frighten and alienate with categories that pathologize and discriminate, they construct a world whose very premise insists that suffering, illness, and disability are abnormal and wrong, and that banishes those who experience such stuff. […] And, it should go without saying, bodies are fragile things. That’s what makes them different from ideologies—they are bound to matter, they are flesh that can be touched, held, scarred, that can dance and laugh, that will decay, that will remember.

Hedva ancora…: “Remember how ideologies work: as much as they settle into your bones, they also insidiously structure your world”.

Io credo Wittig aiuti a espellere quei residui di ideologia dominante e di paura, c’è chi direbbe “oppressione interiorizzata” forse, che infiltra ogni frammento di te, rodendoti dall’interno, quella sostanza appiccicosa e tossica… Wittig è una pulizia, una lavanda gastrica dell’interno profondo… è una visione del mondo con nuove coordinate, una rinnovata libertà, nuove vie per il pensiero –  nuovi modi in cui poter pensare si rende agibile.

L’oggettività (un certo tipo) si nutre di credenze, molte delle quali si fondano su un punto di vista esterno rispetto all’oggetto trattato. Immediato, e forse intuitivo, anche perché culturale – quindi diffuso e paradossalmente “popolare”, ma non locale, non dal basso. Immediato, ma mediato da molti strati di fraintendimento e misinterpretazione. Nonché mediato da un peculiare tipo di coercizione, attiva e passiva insieme. Il carattere passivo è una forma di ignoranza, quello attivo di reiter/azione.

“I padroni spiegano e giustificano le divisioni da loro istituite in termini di “differenze naturali”. Gli schiavi, invece, quando si ribellano e cominciano a lottare, interpretano queste “differenze naturali” come opposizioni sociali” (“La categoria di sesso”, p. 15). Alle soggettività oppresse non sfugge quella che potrebbe essere l’unica vera-verità-eterna attinente alle categorie: che esse non riguardano “esseri” ma relazioni, relazioni sociali… l’esito di queste relazioni sono le identità che colleghiamo alle categorie, gli squilibri di potere, le “nature”.

Le categorie sono un “vicolo cieco” che priva delle “ragioni per cui lottare” (“Non si nasce donna”, p. 25).

Il linguaggio (dominante) serve come espediente per de-storicizzare/de-socializzare i concetti, dati così per eterni. Il linguaggio ritaglia la realtà, e poi nasconde le forbici. Nascondere il potere? Nasconde che il potere sia un esito, un esito mai scontato e costantemente in discussione. Obnubila le nostre menti, nel senso che smorza le loro facoltà di creare percorsi, “innovare” e reinventarsi. Ad ogni passo, il linguaggio investe di una nebbia fitta tutto ciò che gli è strano e bizzarro, e gli è estraneo perché mina alle fondamenta della sua forza.

Distruggere le categorie trasforma “fantocci” in opere d’arte. Non solo perché l’opera è de-naturalizzata, ma soprattutto perché ha un potere, anzi potenza, che trae nutrimento dall’esistenza stessa, cioè dal basso, e smette di essere alienata principalmente perché smette di credere, per creare – arte come relazioni, come anarchia e assenza di gerarchie.

Ciò che maggiormente costituisce e rinforza le categorie è la sovra-esposizione di alcuni tratti rispetto ad altri; dunque, portando come esempio il soggetto socialmente percepito “donna”, questo verrà costruito come “essere sessuale” e verrà sistematicamente invisibilizzato per quanto concerne la sua componente sociale, le sue relazioni con il mondo, i mille modi in cui si espande, spazia. È così che un corpo si scarna, sezionandolo, asportandone un pezzo, delle parti e facendole oggetto di un’economia politica eternizzata.

Invisibilità/visibilità: l’arbitrarietà del punto di vista cosiddetto oggettivo potrebbe riassumersi in questa polarità. Ma non scordiamo che le categorie sono “totalitarie” e ai propri fini hanno a disposizione una quantità di mezzi coercitivi e punitivi. Sono totalitarie anche perché operano una riduzione, alla quale violentemente ci obbligano (anche se, per la stessa ragione, non sempre siamo in grado di articolarlo), di una violenza che, una volta ancora, “non dice il suo nome”:

La categoria di sesso è, dunque, una categoria totalitaria che per provare la propria verità ha le sue inquisizioni, le sue corti di giustizia, i suoi tribunali, il suo corpo di leggi, i suoi metodi di terrore, le sue torture, le sue mutilazioni, le sue esecuzioni e la sua polizia. La categoria di sesso forma le menti oltre che i corpi, poiché controlla tutte le forme di produzione mentale. Ha una tale presa sulle nostre menti dall’impedirci di pensare al di fuori di essa. Questa è la ragione per la quale dobbiamo distruggerla e iniziare a pensare al di là di essa, se vogliamo iniziare a pensare veramente. Nello stesso modo dobbiamo distruggere i sessi in quanto realtà sociologica se vogliamo cominciare ad esistere. La categoria di sesso è la categoria che impone alle donne un regime di schiavitù e opera in modo specifico, come già fece nel caso degli schiavi neri, attraverso un’operazione di riduzione, prendendo una parte per il tutto, una parte (il colore della pelle, il sesso) attraverso la quale l’intero gruppo deve passare, come attraverso un filtro. […] La “dichiarazione” del “sesso” [è una] categoria che nemmeno le donne sognano di abolire.

Io dico: è giunto il momento di farlo (“La categoria di sesso”, p. 19).

La categoria, che impone una schiavitù ai corpi e alle menti, agisce “in modo specifico” – e attraverso una riduzione ai termini minimi e “oggettivi”, sottraendo al reale la sua complessità e descrivendola nei termini di finzione, o non-Essere. La loro oggettività è carente e, in definitiva, ignorante. Il loro “realismo” è utopico.

La nostra Utopia è un processo vitale di affermazione, articolazione, rimescolamento, tensione. Le categorie, e le istituzioni, si fondano su promesse non mantenute: e questa è la loro dimensione “utopistica” profonda, il loro segreto sepolto alla luce del sole…

Questa divisione sottraente è emblematica nelle parole, scisse, significante e significato – forma e contenuto. Rimanda alla distinzione dicotomica fra corpo ed anima.

Il filosofo e biologo Peter Godfrey-Smith si dedica principalmente alla ricerca sul mind/body gap, “explainatory gap”, all’insegna di un approccio materialista e gradualista. Investigando l’idea che possano esserci “different physical bases for mental states”, ne conclude che al variare della base materiale la produzione mentale non possa restarne invariata. Diversi supporti fanno (e pensano, e provano, se pensano, se provano, eccetera eccetera eccetera) cose diverse. Perché base materiale e facoltà mentale non sono legate semplicemente da una relazione di supporto, la prima della seconda. Così, in un discorso sull’intelligenza artificiale, scrive: “My claim is not that nonbiological materials that do all the same things might not count because of their physical nature. Rather, the usual candidates offered as a nonbiological basis for mentality will not do the same things. They will be functionally different, not merely different in “hardware” or “make-up”” (Godfrey-Smith 2016).

Data questa enfasi su “the biological basis for subjectivity” diventa impossibile disgiungere la materia dalla sua componente ideale, mentale, non-materiale. (Il ruolo del biologico non ha la stessa valenza che in Wittig).

Wittig: “Attraverso la letteratura, però, le parole tornano intere” (“Il cavallo di Troia”, p. 61).

Allora ci rivolgiamo a quel che dice Clarice Lispector, di parole e scrittura: “scrivere è il modo di chi si serve della parola come esca: la parola pesca quel che non è parola. Quando la non-parola – quello che è fra le righe – abbocca, qualcosa è stato scritto. Una volta che si è pescato quel che è fra le righe, ci si potrebbe sbarazzare con sollievo della parola. Ma lì finisce l’analogia: la non-parola, abboccando, ha incorporato l’esca. L’unica soluzione allora è scrivere distrattamente” (Acqua viva, 1973).

In seno a questo gradualismo, fra ciò che già è parola e ciò che già non lo è, non lo sarà, forse lo sarà…, fra realtà linguistiche ed extra, che senso assume, può assumerne, il dualismo di forma e contenuto? Di anime e corpi?

Lispector fa tornare intere le parole perché significante e significato sfumano l’uno nell’altro e svaniscono. Le parole tornano intere perché si travalicano. (E ci travalicano).

È un “io intero, totale, universale, senza genere” che ci parla, un io “assoluto”. Quando “dico ‘io’, riconosco il mondo dal mio punto di vista e attraverso l’astrazione rivendico l’universalità” (“Il marchio del genere”, pp. 65-6).

Quando “scopriamo di subire un sistema di oppressione e di appropriazione, nel momento stesso in cui possiamo pensarlo, diventiamo soggetti, nel senso di soggetti cognitivi, attraverso un’operazione di astrazione” (“Non si nasce donna”, p. 26). Pensare è diventare è agire. Il pensiero è materiale dunque azione. Materiale dunque graduale dunque cambiamento. Se, con Bergson (L’evoluzione creatrice, 1907), non c’è sostanziale distinzione fra stasi e movimento – ennesimo dualismo, allora il movimento in loco del pensiero del soggetto individuale, come un salto, può raggiungere la stessa potenza di un movimento più spiccatamente spaziale e collettivo.

“Essere coscienti dell’oppressione non si riduce a una reazione, ad una lotta contro l’oppressione: è anche una totale rivalutazione concettuale del mondo sociale, una sua totale riorganizzazione concettuale, attraverso nuovi concetti elaborati a partire dal punto di vista dell’oppressione” (p. 26).

I discorsi delle scienze e dei sistemi teorici derivano il loro potere principalmente dall’ambiguità di un rapporto che è al contempo di fredda distanza e di vicinanza prevaricante, rispetto a un oggetto inferiorizzato, agli antipodi dello sguardo “dall’alto” che lo scruta, ma esposto nella sua intima vulnerabilità, toccato fin nelle pieghe della carne, nei traumi, nelle isterie, nella stanchezza…

Non c’è nulla di astratto nel potere che la scienza e la teoria esercitano agendo materialmente e effettivamente sui nostri corpi e sulle nostre menti, anche se il discorso che esse producono prende una forma astratta. È una delle forme in cui si dispiega la dominazione, la sua espressione. Direi, piuttosto, una delle sue forme di esercizio. Tutte le persone oppresse conoscono questa dominazione e devono avere a che fare con questo potere che dice: non avete il diritto di parlare perché il vostro discorso non è scientifico e non è teorico, vi ponete a un livello sbagliato dell’analisi, confondete discorso e realtà, il vostro discorso è ingenuo, avete frainteso questa o quell’altra scienza (“Il pensiero straight”, p. 31).

I movimenti di liberazione “hanno già stravolto le categorie filosofiche e politiche di cui sono fatti questi discorsi, [ma] queste categorie, benché violentemente messe in questione, continuano a essere impiegate” (p. 32). Oltre a chiederci – cosa è violenza, contestare una prevaricazione, oppure agirla?, possiamo provare a delineare, a partire da qui, due punti di contatto coi pensieri di Hannah Arendt, come almeno si presentano a me per suggestione; mi sembra che uno sia il ruolo centrale e il significato generale dello “stravolgimento” delle categorie filosofico-politiche (Arendt 1963). Quando Wittig non fa compromessi, distrugge e pensa fuori dalle categorie, sta come infrangendo un incantesimo. Lo fa mostrandoci che non è affatto un incantesimo: allora ci catapulta in un altro luogo (e tempo) dove il trucco è improvvisamente manifesto, e la normalità ci arriva “deformata”, estranea, straniante/straziante, manifesta, smascherata. La seconda questione rimanda alla concezione di pratiche oppressive ordinate che, proprio in forza di questo ordine, praticano sui corpi una violenza tanto più invadente ed efficace. In un regime di oppressione, l’ordine non ha la funzione “‘to avoid panic,’ ‘to minimize suffering’ or ‘for the larger good’”. Al contrario, scrive Arendt (in riferimento alla dominazione nazista, di Ebrei, ma anche Romanì, queer…), “when nothing else was possible, to do nothing was the last effective form of resistance, disorder was preferable to order, and the practical consequences of a refusal to cooperate were nearly always better than collaboration” (Arendt 1951). In Wittig, si avverte incessantemente una critica a questa complicità sommessa con l’“ordine costituito”… in quei passi che lo rifiutano senza compromesso, senza accettarne le insidie del mito.

Gli schemi dell’oppressione sono straight come sbarre di prigione.

L’Utopia diventa l’esito di una Ragione integrata, potente e collettiva, prospettica… La Ragione “è stata trasformata in una rappresentante dell’Ordine, della Dominazione, del Logocentrismo” da una sorta di ribellismo ingenuo (“Homo sum”, p. 47), ma in realtà è nostra potente alleata. Wittig, di mestiere, distrugge mondi e ne crea, e non c’è nulla, nulla che sia meno violento di questa distruzione. Con un’operazione chirurgica, asporta, polverizzandolo, quel “nucleo di natura” che “permane in seno alla cultura” e, pretenziosamente, ancora “resiste all’analisi”… ma dopo MW, il cuore del problema tra(n)smuta, non è più lo stesso.

Una relazione che vuole esser mantenuta stabile verrà presentata con caratteristiche “inevitabilmente culturali e naturali”: questo è il rapporto eterosessuale, nel pensiero wittighiano. Oggi, questa descrizione potrebbe rimandare, ancor più, sembrerebbe ritrarre il rapporto fra umani ed altri animali. Ovvero il rapporto di assoggettamento, di sottomissione dei secondi ai primi, la supremazia umana sul non-Umano. L’umano, bianco, occidentale, preferibilmente maschio, che concede umanità come se fosse di sua stessa emanazione. Umano è ciò che è speculare, è immobile, fisso in dei caratteri. L’umanità non è costituita per comprensione di una fondamentale, ed ontologica, mêmeté. Ma attraverso una proiezione nell’Alterità di pezzi di Sé, un assorbimento dell’Altro nell’Uno. I tratti che consentono l’accesso a ciò che è umano sono sempre gli stessi – nessun bisogno che li si elenchi. Trovandoli, imponendoli, perquisendoli. Distribuendoli, centellinandoli. Riadattandoli a sua immagine e somiglianza, piegandoli alla sua volontà. È così che l’Uno ingrossa il suo potere senza ingrossare le sue fila.

Piuttosto, concepisce dei parametri estrapolandoli da sé, e la loro validità viene universalizzata.

La conseguenza di questa tendenza all’universalizzazione è che il pensiero straight non può concepire una cultura, una società dove l’eterosessualità non solo non strutturi tutte le relazioni umane, ma anche la produzione stessa dei concetti e di tutti i processi che sfuggono alla coscienza. Inoltre, questi processi inconsci diventano storicamente sempre più impositivi in quello che ci insegnerebbero su di noi grazie all’intermediazione degli specialisti. La retorica che li esprime, avviluppandosi di miti, ricorrendo a enigmi, procedendo per accumulazione di metafore (di cui non sottostimo la capacità di seduzione), ha per funzione di poeticizzare il carattere obbligatorio del “tu-sarai-eterosessuale-o-non-sarai”. […] Sì, la società eterosessuale è fondata sulla necessità della figura dell’“altro/differente” a ogni livello del reale. Essa non può funzionare economicamente, simbolicamente, linguisticamente o politicamente senza questo concetto. Questa necessità della figura dell’“altro/differente” è pensata dall’intero conglomerato di scienze e di discipline che io definisco il pensiero straight come se appartenesse all’ordine ontologico. Ma che cos’è “l’altro/differente” se non la persona oppressa? (“Il pensiero straight”, p. 32).

In una società in cui gli “altri/differenti” sono persone oppresse e inascoltate, Wittig ci ricorda che “alterizzare” serve a sottomettere e controllare. Creare un ordine, è dare ordini. Ci avverte anche del pericolo di poeticizzare, romanticizzare l’oppressione, contro il farci intrappolare dalle lusinghe che ci confinano in un mito. Che ci alienano, e che non dicono nulla di vero, pur dicendo molto, su noi, sul nostro mondo.

All’interno di una società eterosessuale, l’eterosessualità è un sistema complesso. È coercitiva, perché un’eterosessualità libera e contingente, non è straight. Essere eterosessuale non si riduce meramente ad aver rapporti con persone del sesso opposto – è innanzitutto attribuirsi/lasciarsi attribuire un sesso, attribuirlo, concepire il mondo in quest’ordine di fattori, come diviso simmetricamente dalla barriera che elegge i due sessi; ed è leggervi la realtà attraverso. (Simmetria, ordine; asimmetrie, disordini). Ed è essere eterosessuale: soprattutto, è una forma di controllo nella misura in cui ad una differenza arbitraria si concede statuto ontologico, con un atto che è – MW cita La justice et son public. Les représentations sociales du système pénal (1978) di Claude Faugeron e Philippe Robert – “di potere, in quanto è essenzialmente un atto normativo. Ciascuno prova a presentare ‘l’altro’ come ‘differente’. Ma non tutti ci riescono. Bisogna essere socialmente dominanti per riuscirci” (p. 32). Ma chi è differente, se non la persona oppressa?

Gli uomini non sono differenti, i bianchi non sono differenti, né lo sono i padroni. Invece i neri, e gli schiavi, sono differenti. Questa caratteristica ontologica della differenza tra i sessi tocca tutti i concetti che fanno parte dello stesso conglomerato di nozioni. Ma per noi non esiste l’“essere-donna” o l’“essere-uomo”. “Uomo” e “donna” sono concetti politici di opposizione, e la copula che dialetticamente li unisce è, al tempo stesso, quella che li abolisce. È la lotta di classe tra donne e uomini che abolirà gli uomini e le donne. Il concetto di differenza non ha nulla di ontologico, è solo il modo in cui i padroni interpretano una situazione storica di dominazione. La funzione della “differenza” è di nascondere, a ogni livello della realtà, gli antagonismi, inclusi quelli ideologici (pp. 32-3).

La lotta ha una valenza in campo epistemologico; la lotta, l’azione, agire, è scoperta, è sapere – che ovviamente è potere. O meglio, potenza. Nella lotta si riscopre il carattere collettivo della vita sociale, nonché nuovi e antichi modi di essere, di fare, collettività. La liberazione è un fatto storico almeno quanto la dominazione. Dominazione, passato; liberazione, futuro. Il futuro è storico, almeno quanto il passato. La liberazione è una forma di disvelamento e di creazione; e mentre la dominazione si avvale di un universale che particolarizza, la lotta riscopre i saperi locali che universalizza, amplificando la potenza collettiva in un annullamento del potere centralizzato.

La prima mossa per liberarsi è, Wittig riprende una lunga tradizione, sapere di essere in un regime di schiavitù, riconoscere la dominazione. Le classi dominanti negano questa dominazione. La schiavitù è ridotta a differenza. Wittig rievoca le parole di un contadino rumeno (1848, proferite durante una riunione pubblica):

“questi signori dicono che non c’è stata schiavitù, quando noi sappiamo bene che era schiavitù questa sofferenza che abbiamo sofferto”.

“Sì, noi lo sappiamo – dice Wittig con noi in coro –  e questa scienza dell’oppressione non ci può essere tolta. È a partire da questa scienza che dobbiamo…” (pp. 33-4).

Io dico, è proprio essendo fedeli a questa “scienza” che non dobbiamo più fare come il poeta di Pessoa (Autopsicografia, 1932), che…

Finge così completamente

che arriva a fingere che è dolore

il dolore che davvero sente.

Restiamo fedeli a questa sofferenza e a questo dolore nella loro forma più pura e meno mistificata, perché sono l’impronta dell’oppressione e della coercizione sulle nostre vite. La coercizione ci ri/produce come alterità, ma il “perché-noi-lo-sappiamo-che-c’è-stata-la-schiavitù” è quel processo dinamico – studiato dalla scienza wittighiana dell’oppressione – il quale, attraverso “la sofferenza che abbiamo sofferto”, introduce “la diacronia della storia nel discorso immutabile sulle essenze eterne” e ci permette di passare dagli effetti dell’alterità sulle nostre soggettività al lavoro, questo sì eterno, di smantellamento delle strutture che differenziano le persone e l’Essere.

La sofferenza ci indica il luogo della ferita. Lungi dal romanticizzarla, la sofferenza è strumento epistemologico e di lotta politica.

Ricorrendo a questa immagine, proverbio ribaltato dal Brouillon pour un Dictionaire des Amantes – “una capra non deve essere obbligata a brucare attorno a dove è legata” (citato in nota a p. 35 de “Sul contratto sociale”), potremmo domandarci se non sia, dentro e fuor di metafora, proprio la sofferenza prodotta dalla corda, all’altezza del collo, a far risvegliare per prima, nella capra, la consapevolezza della sua prigionia.

A cosa sono legata, cosa mi limita nei movimenti e nella libertà? – mi son sentita chiedermi.

Per ritrovarsi in una dimensione collettiva, bisogna prima evadere le rispettive prigioni; è così che dimensione individuale e collettiva si attivano l’un l’altra – io considero questo processo uno dei pilastri dell’anarchia. “È forse mera utopia?” (Nota, p. 39), mi sembra di sentir riecheggiare la sua voce a ogni passo – “se, in definitiva, ci viene negato un nuovo ordine sociale, che perciò può esistere solo a parole, allora almeno lo troverò in me stessa”. Questa dimensione personale non si risolve in una forma di isolamento, ma è anzi il punto su cui far leva per radicalizzare un punto di vista, per non lasciare ne venga assorbito il barlume.

Questa necessità, per ciascuno, di esistere tanto quanto individuo che come membro di una classe [e di molte classi?] è, forse, la prima condizione perché si realizzi una rivoluzione senza la quale non può esserci lotta o cambiamento. Ma anche l’inverso è vero: senza classe e coscienza di classe non ci sono soggetti reali, solo individui alienati (“Non si nasce donna”, p. 26).

Wittig ci parla dagli “avamposti dell’umano, dell’umanità” e definisce il proprio punto di vista obliquo. Le sue argomentazioni ci parlano di un’animalizzazione delle soggettività femminili/zzate. Solo le caratteristiche di uno sparutissimo gruppo di persone possono dirsi universalmente umane. La classe dominante, i filosofi e i teorici che la rappresentano, hanno conferito universalità alle proprie teorie e al proprio punto di vista, non tanto con un movimento dal locale al generale, dal particolare all’universale, agli universali plurali, quanto presentando la propria visione come unica e insostituibile. Tuttavia, la stessa eterosessualità si fonda sul naturale-biologico ancorato all’animalità, pur rifiutando ogni associazione con quest’ultima. L’eterosessualità proietta la sua genesi sull’alterità.

Così, “metà del genere umano – le donne – viene “eterosessualizzata” (la fabbricazione delle donne è analoga alla fabbricazione degli eunuchi, al trattamento degli schiavi, all’allevamento degli animali)” (“La categoria di sesso”, p. 17).

Il punto di vista più umano proviene, invece, dai margini, da una situazione “a un tempo estremamente vulnerabile e cruciale” (“Homo sum”, p. 41). I margini ci rivelano una universalità unita e molteplice, un’universalità dalle infinite teste.

Wittig fa una genealogia delle “differenze”: queste non esistono se non come graduali passaggi tra diversi stati – quantitativi, perché la qualità è universale, materiali, né ontologici né qualitativi. Insomma, la differenza si è istituita col passaggio “da categorie matematiche e strumentali a categorie normative e metafisiche” (p. 44). Da allora:

“senza queste categorie di opposizione (di differenza) non si può ragionare o pensare”

“al di fuori di esse non vi esiste significato”

“senza di esse vi è un’impossibilità a significare”

“ci si pone fuori dalla società, nell’asocialità”. Transfughe, asociali…

Quanta sofferenza scaturisce, per noi animali sociali, dall’accusa di asocialità, che è condanna all’asocialità? Anche per questa direttrice passa l’animalizzazione delle soggettività femminili, queer, non-conformi… Ma “criticare e modificare il pensiero e, in generale, le strutture della società a partire da un punto di vista estremo” (p. 41) ha il vantaggio di affrancarci da una risposta-presupposta: quella che tale confine/confino veramente non sia un’invenzione. Dagli avamposti, la linea che divide il dentro e il fuori appare solo come una gigantesca, bizzarra e lacunosa e tremenda beffa. Da lì, “[ESSE] dicono che è un mondo nuovo che comincia” (Le guerrigliere, 1969).

Comincia un mondo cominciante, incipiente. Un mondo-che-comincia: non è forse il carattere fondamentale dell’Utopia cominciare, cominciare sempre, cominciare all’infinito? Cominciare: connubio perfetto di pars destruens e pars costruens.

Il punto di vista più umano è quello da cui l’umano ci appare più sfocato, meno umano, si trasforma e accoglie la continuità fondamentale dell’Essere.

Dopo il passaggio dalle categorie matematiche a quelle ontologiche, della differenza, è il conflitto a svolgere una cruciale operazione: con l’avvenire della lotta e della rivolta, si passa dalle categorie di differenza alle categorie di opposizione.

È solo nel momento in cui la lotta divampa che la violenta realtà delle opposizioni e la natura politica delle differenze si manifestano. Finché le opposizioni (differenze) appaiono come già date, come precedenti a qualunque forma di pensiero, come “naturali”, finché non c’è conflitto o lotta, non ci sono né dialettica, né cambiamento, né movimento. Il pensiero dominante rifiuta di prendersi a oggetto di riflessione per capire ciò che lo metterebbe in discussione (“La categoria di sesso”, p. 16).

Chi stava sotto, l’Altro, non prenderà il posto dell’Uno alla vittoria, non si sostituirà all’apice di una nuova gerarchia, con nuovi Altri per questi ex-Altri. Nessun Altro-degli-ex-Altri: “cosa accade realmente alla questione dell’umanità una volta che tutte le categorie di Altri saranno passate dal lato dell’Uno, dell’Essere, del Soggetto[?] Non ci sarà trasformazione?” (“Homo sum”, p. 44).

Si potrà, si riuscirà a de-maschilizzare l’umano? Ad animalizzarlo, queerizzarlo, de-monogamizzarlo, de-sessualizzarlo? Fonderlo? (Conoscerlo). (E disconoscerlo). An-umanizzarlo?

Il limbo fra Uno ed Altro, il Margine, il Margine-del-magine – le classi marginalizzate da lì ci mostrano una via per la liberazione, perché sono/hanno (in) potenza, non “nonostante” ma proprio “perché” da ci parlano.

Mi sembra di leggere Audre Lorde (“The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House”, 1984) nella critica all’impianto marxiano, forse al concetto stesso di egemonia culturale. Non egemonia, ma mutuo appoggio… Anziché trattare la “necessaria trasformazione” che Wittig auspica, Marx ed Engels “sono rimasti a una fase di mera sostituzione (come spesso nelle rivoluzioni)”. Fra le ragioni principali, il fatto che “i portatori dell’Universale, del Generale, dell’Umano, dell’Uno erano membri della classe borghese”, la sola “capace di andare al di là dei confini nazionali”. Invece,

la classe proletaria, sebbene fosse quella in ascesa, era rimasta a uno stadio di limbo, una massa di fantasmi che aveva bisogno di essere diretta dal Partito Comunista (i cui membri erano in gran parte borghesi) per poter sussistere e per potersi battere. È così che si è estinto il più perfetto modello di dialettica, quello della dialettica materialista, perché i dadi erano truccati: sin dall’inizio l’Altro era condannato a restare al posto in cui si trovava dall’inizio della relazione, ovvero come colui/colei che occupa essenzialmente il posto dell’Altro, poiché l’agente che avrebbe dovuto portare a compimento la trasformazione di classe (ovvero distruggere le categorie dell’Uno e dell’Altro, e trasformarle in altro) corrispondeva ai parametri dell’Uno, ovvero, alla borghesia stessa (attraverso i quadri del partito)” (pp. 44-5).

Le “frange rivoluzionarie”, la “frazione intellettuale”, così, non solo avrebbero dovuto privarsi del potere, auto-abolirsi, ma anche risolvere, quasi a cascata, attraverso quest’atto di generosa rivoluzione, anche tutti gli altri problemi la cui matrice veniva rintracciata pur sempre nel capitalismo, gli “anacronismi del capitale”.

Esiste anche una forma di coscienza di classe, ma in quanto tale, una tale coscienza non si riferisce a un soggetto particolare, se non in quanto soggetto che subisce le condizioni dello sfruttamento insieme agli altri soggetti della stessa classe che condividono una stessa forma di coscienza. Quanto ai problemi di classe che si possono dover affrontare – al di là di quelli considerati come strettamente legati alla classe economica (ad esempio, i problemi legati alla sessualità) –, essi erano considerati problemi “borghesi”, che sarebbero scomparsi una volta vinta la lotta di classe. “Individualisti”, “soggettivisti”, “piccolo borghesi”, erano queste le etichette attribuite a coloro che esprimevano problematiche che non potevano essere ricondotte alla sola “lotta di classe”. In tal senso, il marxismo ha tolto ai membri delle classi oppresse lo statuto di soggetti. Di conseguenza, in ragione del potere politico e ideologico che tale “scienza rivoluzionaria” ha immediatamente esercitato sul movimento operaio e sugli altri gruppi politici, il marxismo ha impedito alle diverse categorie di oppressi/e di costituirsi come soggetti (ad esempio, come soggetti delle loro lotte). Ciò significa che le “masse” non hanno lottato per loro stesse, ma per “il partito” e per le sue organizzazioni. E quando si manifesta una trasformazione economica (con l’abolizione della proprietà privata e la costituzione dello Stato socialista), essa non si accompagna a un vero cambiamento rivoluzionario perché le persone, i soggetti, non sono cambiati (“Non si nasce donna”, p. 25).

I corpi e le persone sono la memoria e il veicolo della lotta; sul loro materiale vivo il cambiamento deve innestarsi per non spegnersi. Le istituzioni hanno la qualità materica delle catene.

La classe detentrice del potere, classe/classi, può mai realmente privarsene con le sue sole forze e volontà? Non è questa una forma di conveniente ignoranza – di quanto capillarmente i rapporti di forza agiscano? Anziché investire in alleanza e complicità fatte di relazioni, relazioni al di là e al di fuori delle categorie stesse, si investe proprio sul ruolo di chi detiene il potere – attraverso cui esso circola. Ma non è l’esercizio stesso del potere una sua conferma e rafforzamento? Non è anche, diremmo oggi, essendone state ben articolate le implicazioni, altro che saviorism? La lotta è relazione ed è nella relazione fra complici. Il “capitale” culturale deve contaminarsi e contaminare della/con la relazione fra complici, fra soggettività non subordinate. Altrimenti è e resta capitale, accumulazione tra le mani di oligarchi.

La consapevolezza che lottiamo per un’utopia, per questa sempre imperfetta abolizione, è un promemoria: interrogarci e prospettizzarci costantemente. “Non sono anarchica, sono per l’anarchia”, direbbe Malatesta.

Non potere, con la sua universalità concentrata, ma potenza con la sua universalità vitale e moltiplicata. De-centrata, a-centrica, “come il cerchio di Pascal, il cui centro è ovunque e la cui circonferenza da nessuna parte” (“Il punto di vista: universale o particolare?”, p. 54). In questa universalità, ogni particolarità può espandersi e circolare.

È la distruzione la vera armonia.

L’Utopia è l’unica non-utopia – dove la vera utopia consiste nella pianificazione e nella naturalizzazione della Gerarchia, delle categorie culturali e sociali dominanti, quindi, violente. Utopico è il dominio di classe, di alcune classi su altre.

Ma la nostra “Utopia”, che ha questo nome per volontà di risignificazione – non l’inattuabile ma la scia, la lotta, lo slancio vitale – essa vive in noi. Essa esiste tangibile e strabordante, e si tramanda e si restituisce fra i corpi che l’hanno attraversata.

La rivoluzione non è nelle risposte. L’ordine è una risposta, forse l’unica, la sola. È piuttosto un domandarsi, è nelle domande.

“Quando ripetono, è necessario che questo ordine sia rotto, dicono che non sanno di che ordine si tratti” – e io, che Le guerrigliere l’ho letto solo a pezzi e che non ho deciso quali frasi avrebbero fatto vibrare quali corde, quindi quali avrei voluto ricordare, ho interpretato: che quest’ordine-fantoccio, quest’ordine da abolire, non sia che la rete di violenze su cui ha a lungo pontificato; del, dal suo annullamento, cosa resta? Le sue leggi e il suo apparato teorico si dissolvono con la sua scomparsa. La sua rottura segna la dissoluzione dei parametri stessi che lo avrebbero ancora qualificato come ordinato. Se la sua realtà non si coglie che per i suoi effetti, quando questi cesseranno, di lui cosa sarà rimasto? Cosa sarà stato? Se vivrà ancora in noi, cosa ne faremo? Sapremo rievocarlo, fosse anche solo per guardarcene? Sapremo resistere ai suoi condizionamenti?

L’opera di Wittig è, per evocarla con parole che le appartengono, “a un tempo globale e particolare, universale e singolare, a partire ed entro una prospettiva…” …marginalizzata (“Il marchio del genere”, p. 70). Colette Guillaumin scriverà a commento dell’antologia The Straight Mind and Other Essays che essa ha avuto il merito di “mostrare la produzione dell’universalità nel crogiolo delle specificità” (p. 85).

BIBLIOGRAFIA

M. Wittig, Il pensiero straight e altri saggi, traduzione a cura di collettivo della lacuna.

Reperibile al seguente link: https://pensierostraighthome.files.wordpress.com/2019/04/il-pensiero-straight-e-altri-saggi.pdf (ed. orig. The Straight Mind and Other Essays, Beacon Press, 1992).

M. Wittig, S. Zeig, Brouillon pour un Dictionaire des Amantes, Grasset, Paris 1976.

M. Wittig, Le guerrigliere, Lesbacce incolte, Bologna 1996.

I. Caleo, intervento “Lesbiche, mannare e fuggitive del sesso”, presentato al master Lineamenti teorico-politici di femminismi, genere, differenza, Università Roma Tre, 25 marzo 2022.

J. Hedva, “Letter to a young doctor”, 2018.

Reperibile al link: https://www.canopycanopycanopy.com/contents/letter-to-a-young-doctor/#title-page

P. Godfrey-Smith, “Mind, Matter, and Metabolism”, 2016.

Reperibile al link:

https://petergodfreysmith.com/metazoan.net/Mind_Matter_Metabolism_PGS_2015_preprint.htm

C. Lispector, Acqua viva, Adelphi, 2017.

H. Bergson, L’Évolution créatrice, Félix Alcan, Paris 1907.

H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, 1963.

H. Arendt, “The Eggs Speak up”, 1951.

A. Lorde, “The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House”, 1984.

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