Ottavo incontro – La vita sociale: famiglia e lavoro – Relazione di Sandra Burchi

Il secondo sesso contro il secondo sesso: l’inutile vita della massaia.

Leggendo le pagine dei due capitoli di cui mi sono occupata per tutto il tempo ho pensato che era necessario dire e ridire l’anno in cui sono stati scritti. 1949 dal punto di vista degli avvenimenti che hanno fatto esplodere la libertà femminile – come la intendiamo noi oggi – deve ancora accadere tutto eppure qualcosa è già successo, e infatti De Beauvoir scrive. La seconda guerra mondiale è finita da poco, gli stati europei si stanno ricostruendo, e in questo frangente le donne stanno vivendo il loro difficile accesso alla scena pubblica. Il punto di vista da cui De Beauvoir parla e scrive è quello di una intellettuale che ha conquistato uno stile di vita “emancipato” (da qualsiasi tradizione), e anticonformista (nella vita come nel pensiero). La moglie e la madre di cui parla nel libro sono dunque due figure dell’identità femminile che Simone de Beauvoir guarda da molto lontano e in questi capitoli – più che negli altri – la prospettiva scientifica da cui parla, quella per cui è necessario conquistare distanza, sembra accentuarsi.  I capitoli aprono la seconda parte del libro: “Situazione” e si intitolano “La donna sposata” e “La madre”. Io teso a soffermarmi su questi per il seminario di oggi, salvo poi andare a vedere il capitolo finale “La donna indipendente”, in controluce.

Della donna sposata De Beauvoir non fa molto altro che raccontare “le miserie”, non ha pietà.

La disamina prima dal punto di vista della sessualità e poi dello stile di vita.

Non senza prima aver presentato il matrimonio come istituzione e aver messo bene in rilievo che nonostante i cambiamenti della società “il matrimonio moderno può essere compreso solamente a partire dal passato che esso perpetua”. Dunque il matrimonio è un’istituzione conservatrice, perpetua il passato anche in un’epoca come quella che De Beauvoir è convinta di vivere “un periodo di transizione dal punto di vista femminista” poiché “un numero limitato di donne partecipa alla produzione e anche queste appartengono a una società in cui sopravvivono antiche strutture e antichi valori”. La società, in certi strati sociali, può essere così tradizionale che persino il matrimonio può apparire alle ragazze un modo per diventare libere, le famiglie impongono un tale controllo che andare via di casa – anche tramite matrimonio – può rappresentare una liberazione. Inoltre una donna non-sposata è considerata ancora in molti casi, un essere incompleto. Per questo c’è una gran da fare intorno al destino di una ragazza. Spesso le madri, non dimentica di dire, De Beauvoir sono le più terribili mediatrici, disposte anche a sorvolare sulla mancanza di garbo di possibili mariti e pretendenti. Leggendo queste pagine vengono in mente i romanzi di Jane Austen, il ruolo spesso meschino delle madri molto preoccupate molto preoccupate per il destino (che vuol dire matrimonio) delle loro figlie.

Riguardo alla sessualità De Beauvoir insiste molto sulla scarsa preparazione femminile alla “prima notte di nozze” e anche alle notti che seguiranno. Le ragazze, nella maggior parte dei casi, arrivano impreparate e rischiano di passare una vita senza diventare mai consapevoli del piacere che potrebbero provare andando incontro a quello che De Beauvoir non esita a definire un “lungo stupro”. All’opposto possono esserci  casi in cui le ragazze diventano vecchie soffrendo per un ininterrotto languore “acceso” dai loro insensibili mariti. Felicità erotica e matrimonio corrono su binari separati.  Su questo SdB cita una tradizione di pensatori che da Montaigne a Balzac passando per Aristotele hanno ben chiaro che per motivi diversi è bene tenere una moglie lontana dal proprio desiderio sessuale: un po’ sarebbe incesto, un po’ invogliare all’adulterio, un po’ semplicemente non sarebbe “giusto” (Proudhon). Anche quando il romanticismo che ha chiesto amore per ogni essere umano, l’amore come diritto individuale, il concetto di “amore coniugale” ha rideterminato le caratteristiche di questo particolare legame d’amore. “Amore e matrimonio, dice Balzac, non hanno niente a vedere uno con l’altro”. Ci vorrà Kierkegaard che, per tenere insieme amore e matrimonio, fa intervenire l’amore divino.

Il punto di vista di SdB si intreccia con quello degli autori, alcuni vengono citati come portavoce dello spirito patriarcale (e quindi il loro pensiero presentato come qualcosa che conferma una cultura oppressiva), altri vengono citati a sostegno del suo pensiero.

Questo per esempio sembra essere un suo pensiero:

“L’amore fisico trae ogni dignità e forza dalla gioia che si danno gli amanti nella coscienza reciproca della propria libertà; allora nessuna pratica è infame, perché per l’uno e per l’altra, essa non è subita, ma generosamente voluta. Il principio del matrimonio è osceno perché trasforma in diritti e doveri uno scambio che dovrebbe degradante perché lo costringe a cogliersi nella sua generalità; il marito è spesso reso gelido dall’idea che sta compiendo un dovere e la donna ha orrore di essere consegnata a qualcuno che esercita su di lei un diritto”. 

Il problema del matrimonio, il problema direi “concettuale” del matrimonio è un problema di fondo. Essendo un’ istituzione che regola il rapporto fra due individui sul piano formale, contestualmente ne limita la libertà nella misura in cui non guarda alla loro singolarità ma alla loro generalità di contraenti un patto.  Per resistere nella forma – matrimonio le libertà devono piegarsi variamente, alle convenzioni, alle fantasticherie, alla coniugalità rispettosa ma senza amore.

Il discorso si fa ancora più fitto e più distaccato, se vogliamo, quando SdB passa ad analizzare un altro ideale di cartone: quello della casa e del focolare.

Ripeto, siamo nel 1949, quattordici anni prima del libro di Betty Friedan “La mistica della femminilità” ma già qualche decennio dopo gli scritti di Virginia Woolf di cui, infatti, SdB cita dei passi meravigliosi. L’attaccamento della donna (ricordiamoci che SdB parla sempre al singolare) alla casa come ideale di felicità supera quello dell’uomo. L’uomo è consapevole che la casa ai tempi in cui SdB sta scrivendo “ha perduto il suo splendore patriarcale, per la maggior parte degli uomini è solo una abitazione, su cui pesa più la memoria delle generazioni defunte, che non tiene imprigionati i secoli futuri” ma la donna sembra non volerlo e poterlo accettare. La donna costruisce con cura la sua casa ovunque, perché ha bisogno di conservare “l’interno” per darsi valore. Agli occhi di SdB le donne sono cieche. Non vedono che quello che si sforzano di abbellire in realtà è la loro prigione.

Non siamo abituate a questo atteggiamento nella prospettiva di chi scrive in favore della libertà femminile, un atteggiamento che punta l’indice sulla miseria della vita delle donne. L’atteggiamento di SdB però non è molto lontano da tutta quella tradizione – esistente e ancora viva nel femminismo – che parla di una liberazione per le donne che passa da una presa di coscienza dello stato di oppressione in cui vivono. Per questo forse è così dura nel parlare delle donne in questo modo, continuando a dipingerle come prigioniere, ingenue, ostinate: “Il focolare diviene il centro del mondo e la sua unica verità, una specie di controuniverso o un universo del contro – come dice Bachelard – rifugio, ritiro, grotta, ventre, riparo contro tutte le minacce del mondo esterno che diviene confuso e irreale”.

L’amore della donna per la casa è l’amore per la sua prigionia, è il primo grado di accettazione dell’oppressione. Il mondo è lontano, fuori, irreale, tende a svanire, mentre la donna arreda e decora questo mondo artefatto. “Il focolare rappresenta per lei ciò che le spetta sulla terra, l’espressione del suo valore sociale e della sua più intima verità. Poiché non fa niente, la donna cerca se stessa avidamente in ciò che ha”. Dall’amore e dall’amministrazione della sua casa trae la sua giustificazione sociale, si realizza come attività ma (e questo è il GRANDE limite per De Beauvoir) “è un’attività che non la toglie dalla sua immanenza e che non le permette una particolare affermazione di se stessa”.

La vita quotidiana, la vita di casa, è una vita senza ulteriorità e quindi senza libertà. Per SdB che è alla ricerca di una libertà che è anche libertà dalle cose, dal contingente, dall’immanente, la vita quotidiana così come è, appare una condizione senza riscatto. Da questo punto parte una grande, diffusa, descrizione della ridondanza con cui le donne si dedicano alle pulizie, al fare ordine, al fare la spesa, al cucinare. Ridondanza che è anche delle scrittrici donne che “hanno parlato con amore della biancheria appena stirata, dello splendore turchino dell’acqua insaponata dei lenzuoli candidi, del rame lucente”. SdB smonta uno per uno i piaceri e le gioie della casa, smonta la vita della massaia che “perpetua solo il presente”, e in una lotta maniacale con la polvere e la sporcizia finisce per essere ostile “a ogni espansione vitale, alla vita stessa”.

E continua : “la divisione del lavoro la vota all’inessenziale, al generale: la casa, il cibo sono utili alla vita ma non le danno un senso: gli scopi immediati  della massaia non sono che mezzi, non veri fini e in essi si riflettono solo progetti anonimi”.

Tutto quello che una donna può fare per rendere meno abbrutente questo fare quotidiano è un ulteriore spreco di tempo e di energia. La vita di casa, i lavori domestici sono come la condanna di Sisifo ma senza niente di epico, un’ impresa destinata a essere sconfitta dal passare del tempo: 

“non si può fermare il tempo: le provviste attirano i topi, i vermi le invadono. Le tarme mangiano le coperte, le tende i vestiti: il mondo non è un sogno di pietra, è fatto di una sostanza ambigua, suscettibile di decomposizione; la materia commestibile è equivoca come i mostri di carne di Dalì”.

E così via, un lavoro senza resurrezione, né riscatto.

Per capire questo tono bisogna mettersi nella prospettiva da cui SdB guarda la questione:

–          la vita di casa come destino, la vita di moglie come obiettivo unico per una donna;

–          la voglia di descrivere da intellettuale una condizione da superare;

–          l’ideale di liberazione come ideale di partecipazione alla storia, una storia da cui la donna di casa è tagliata fuori. 

Il contesto da cui Simone de Beauvoir scrive è quello descritto in un film bellissimo e straziante come Revolutionary road, un film che peraltro è tratto da un libro, scritto un bel po’ di anni dopo l’uscita de Il Secondo Sesso. Il contesto è quello, quel mondo borghese di un destino che comincia a stare troppo stretto a donne più libere, più istruite, meno capaci di stare dentro i modelli tradizionali di moglie e madre contro cui SdB si scaglia tanto.

In quegli stessi anni un’artista, Louise Bourgeois, nata più meno negli anni de SdB e dallo stesso contesto sociale, sta lavorando a un ciclo di opere che osservo e studio da tanto tempo, “Femme-maison”. Sono diverse opere, soprattutto dipinti ma anche sculture, in cui un corpo di donna è imprigionato dalla forma di una casa. I volti non si vedono, da queste forme di case emerge il resto del corpo: il bacino, le braccia, le mani, ma non il volto. I temi sono quelli di SdB, la difficoltà ad esprimere la propria singolarità, in più i corpi sono nudi, come ridotti a un tempo che è prima della storia, a un’identità tutta spostata sulla fisicità, sulla sessualità. Le donne sono incastrate, costrette, ridotte. Eppure i corpi, questi corpi così difficili da vedere nella loro interezza, sono grandi, sono enormi. Io ho sempre letto in questo gioco di incastri e sproporzioni il senso di quei lavori, l’inquietudine di  Louise Bourgeoise, quel suo sentirsi stretta fra il  compito di madre  e moglie (compiti che SdB rifiutò) e quello, difficile da realizzare, di artista. Questi corpi grandi fanno immaginare un possibile diverso destino per le donne incastrate in quel quotidiano, danno fiducia alle donne alla loro grandezza rimasta inespressa. E’ un po’ il sentimento con cui Virginia Woolf scrive “Una stanza tutta per sé”, lei che pure – come si legge in diversi passi dei Diari – si  sentiva stretta nel ruolo di “scrittrice”e  di intellettuale impegnata per le donne, sa riconoscere il valore e il potenziale di quel fare femminile, così depotenziato, incastrato. Qui De Beauvoir sembra più dura, più distaccata, più interessata alla sua battaglia, non dimostra ambivalenze. C’entra la sua vita, forse, così dedicata a realizzare sul piano esistenziale i contenuti del suo pensiero e della sua politica, c’entra il suo percorso, il ruolo che ha avuto in Francia, ma non riesce mai a fare quello che un certo femminismo ha fatto, valorizzare il portato storico delle donne, riconoscere il ruolo delle donne nella storia. Su questo nelle ultime pagine del libro avrà parole di pietra “è nell’uomo,  non nella donna che finora ha potuto incarnarsi l’Uomo”. La donna, lo ripete più volte, è rimasta sempre imprigionata nell’immanenza. Per raccontarci di questa immanenza, di questo tempo che non diventa storia ma che resta il tempo che scorre nella prigionia, Simone de Beauvoir in questo cita un passo bellissimo di Virginia Woolf sul rapporto fra donne e tempo, sul rapporto fra donne e storia. E’ l’eroina di un romanzo, Le onde, che sta parlando:

“Non distinguo più l’inverno dall’estate dallo stato dell’erba o dell’erica delle lande, ma dal vapore o dal gelo che si formano sui vetri. Io che un tempo camminavo nei boschi di faggi ammirando il colore azzurro che prendono le penne della gazza quando cadono, io che incontravo sul mio cammino il vagabondo e il pastore… vado di stanza in stanza, con il piumino in mano” 

E’ un pezzo straordinario. Ha la forza delle immagini di Virginia Woolf.

Ma è molto diverso, concettualmente, da un brano di “Una stanza tutta per sé” in cui facendosi domande anche lei intorno alla miseria delle donne costrette a studiare in collegi scadenti, materie noiose con docenti meno brave, costrette a mangiare una minestra così liquida e incolore “che si poteva vedere i disegni sul fondo delle scodelle in porcellana” si chiede “ma in cosa perdevano tempo le nostre madri, queste madri che non ci hanno lasciato un soldo?“, e senza allontanare il discorso dal suo centro, la miseria delle donne, ci parla di una fotografia sulla mensola del camino e dei ricordi: “Se Mrs Seton fosse stata occupata a far soldi, le dicevo, che ricordo avresti dei giochi e dei litigi? Che cosa avresti imparato della Scozia, della sua aria pulita, dei suoi dolci e tutto il resto?”.  Diversamente da SdB, Virginia Woolf fa un grande riconoscimento alle donne e recupera tutto quel tempo che a SdB sembra cadere fuori dalla storia. Il suo discorso che pure non smette di interrogarsi sull’effetto di quella stessa miseria sulla mente delle donne, né di vagheggiare sulle condizioni di libertà che “l’arte di far soldi” garantisce, recupera il fare femminile e con questo tutta la storia delle donne comuni, prospettando un superamento che non la neghi.

Ci vorranno degli anni perché SdB raggiunga un femminismo diverso, gli anni ’70 in cui saprà misurarsi con i movimenti femministi, ci vorrà il grosso lavoro autobiografico, la scrittura dei tre grandi volumi in cui ripercorre la sua vita. Nel 1949 in piena esplosione del suo engagement di scrittrice e filosofa la sua idea di libertà la porta a questo pensiero compatto, a questa idea di liberazione che non riconosce niente all’identità della donna tradizionale, se non l’essere il risultato di mistificazioni e ideologie. Distruggere la donna tradizionale – che poi in realtà è la donna borghese, quella che non “fa” niente – è il suo contributo all’avvenire della donna indipendente.

“La donna che è confinata nell’immanenza cerca di trattenere anche l’uomo in questa prigione; così questa si confonderà con moldo ed ella non soffrirà più di esservi rinchiusa: la madre, la moglie, l’amante sono delle carceriere. (…) Non è né una immutabile essenza né una colpevole scelta a votarla all’immanenza, all’inferiorità. L’una e l’altra sono state imposte. Ogni oppressione crea uno stato di guerra. Questo caso non fa eccezione. Oggi la lotta assume un altro aspetto: invece di voler rinchiudere l’uomo in un carcere, la donna cerca di evaderne; non cerca più di trascinarlo nelle regioni dell’immanenza ma di emergere alla luce della trascendenza.”
Sandra Burchi
Sandra Burchi

Sandra Burchi, dopo la laurea in filosofia ha proseguito i suoi studi con un dottorato in scienze sociali e sviluppato percorsi di ricerca e riflessione ispirati ad un approccio multidisciplinare. Da sempre interessata agli studi femministi, ha scrit (...) Maggiori informazioni