Ottavo incontro – La vita sociale: famiglia e lavoro – Relazione di Teresa Di Martino

Quando mi sono apprestata a leggere il capitolo Vita in società pensavo di trovare il racconto e l’analisi delle donne al lavoro. Non ho trovato nessuna delle due, o meglio, non l’ho trovato come me l’aspettavo.

1° dato da segnalare

In questa scrittura fluida, da romanzo, anche divertente e irriverente a tratti, c’è il racconto (in situazione appunto) della vita della donna in società, c’è la denuncia delle vite delle donne – mogli e madri – in società. Sono donne al lavoro, un lavoro che nulla ha a che fare con la produzione, sia nel senso del sistema-lavoro appannaggio del mondo maschile, sia nel senso del lavoro riproduttivo che SdB afferma ormai essere paragonato ad un lavoro produttore “perché in molti casi il periodo di riposo imposto dalla gravidanza deve essere pagato alla madre dallo Stato o dal datore di lavoro” (p. 487).

Il lavoro delle donne che scopriamo in queste pagine è un lavoro di posizionamento nel mondo e di relazione.

SdB mette immediatamente a fuoco una differenza: il diverso legame che unisce l’uomo e la donna alla società. L’uomo è unito alla società in quanto soggetto indipendente, la donna è unita alla società in quanto parte della coppia.

L’uomo è unito alla collettività in quanto produttore e cittadino, da una solidarietà ORGANICA fondata sulla divisione del lavoro.

SdB passa dall’affermazione del soggetto “uomo”, alla coppia. La donna non è soggetto indipendente, la donna che non lavora non produce e quindi – aggiungo io – non è cittadina, quindi dipende dalla coppia. Cos’è la coppia? E’ una persona sociale definita dalla famiglia, dalla classe, dall’ambiente, dalla razza a cui appartiene, è quindi legata da vincoli di una solidarietà MECCANICA ai gruppi socialmente analoghi. La donna non è un individuo sociale, bensì incarna, in società, i valori della coppia.

L’uomo si afferma nella sua professione. La donna può affermarsi solo frequentando i suoi pari. E in questo consiste il suo lavoro.

Qui, nelle primissime righe del capitolo, l’opera di rilettura sul presente mi rimanda allo stato sociale patriarcale teorizzato da Carole Pateman 40 anni dopo (siamo nel 1989): la cittadinanza basata sull’indipendenza e sul lavoro, con un cittadino maschio, bianco e operaio portatore sano dei diritti di cittadinanza che esclude quindi le donne, e che è ancora oggi la chiave di lettura sul vuoto generato dalla rottura del legame tra cittadinanza e lavoro. Nel libro “Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro” Anna Simone mette in luce le distorsioni e le contraddizioni del nesso che intercorre tra cittadinanza e lavoro: “se oggi non lavori, tendenzialmente non sei cittadino/a perché non accedi ad alcuna garanzia; se invece lavori, ma il tuo lavoro è precario oppure se sei un’immigrata costretta a fare il lavoro di cura, quasi automaticamente sei fuori dalle garanzie della cittadinanza, una sorta di apolide di fatto” (p. 91).

Questa condizione di apolide, denunciata in altri termini e in un contesto diverso da SdB, viene elusa attraverso un lavoro, quello che descrive in queste pagine, che è un lavoro che io ho letto come lavoro di appropriazione di sé, degli spazi e delle relazioni nel mondo. Ma non voglio fare forzature, vorrei che facessimo uno sforzo per leggere il racconto della vita di società senza cadere nella trappola della liberazione da un passato che non mi/ci parla, ma apre dei varchi sull’oggi.

Il lavoro della donna

L’abbigliamento (corpo)

Tramite il lavoro domestico la donna si appropria della casa (vedi relazione di Sandra Burchi). La donna si appropria della propria persona tramite un altro lavoro che è, dice SdB, il lavoro dell’abbigliarsi, l’abbigliamento.  Con l’abbigliamento la donna da un lato manifesta la propria dignità sociale, dall’altro concretizza il narcisismo femminile. Qui SdB rafforza l’idea espressa nei capitoli della formazione, in cui afferma che le ragazze aspettano i ragazzi come una conferma della propria bellezza, come glorificazione del proprio corpo, in un movimento di affermazione di sé a partire da uno sguardo etero diretto, quello maschile (La donna che non distingue il desiderio per l’uomo e l’amore per se stessa, p. 328).

Nell’abbigliamento c’è una differenza forte con l’uomo. I vestiti dell’uomo, così come il suo corpo, devono indicare la sua trascendenza e non fermare lo sguardo. Alla donna invece, la società richiede di farsi “oggetto erotico”, offrirsi al desiderio maschile.

Lo scopo della moda di cui è schiava non è di rivelarla come individuo autonomo, ma invece di toglierla alla sua trascendenza per offrirla come una preda ai desideri del maschio: non si cerca di assecondare i suoi progetti ma al contrario di ostacolarli. La gonna è meno comoda dei pantaloni, le scarpe coi tacchi alti impediscono il passo; i vestiti e le scarpette meno pratiche, i cappelli e le calze più fragili sono i più eleganti; sia che il vestito nasconda il corpo, lo deformi o lo metta in rilievo, in ogni caso lo espone agli sguardi (p. 622).

Qui c’è un passaggio importante, che apre in due direzioni – autodeterminazione e sessualità – e che vi lancio come spunto per la discussione.

1-      Sdb dice che la donna, seguendo la moda crede di creare il proprio io, di scegliere, in realtà SI ALIENA NELLA SUA IMMAGINE (p. 621).

2-      SdB dice anche  che la donna assegna tanto più valore all’abbigliamento quanto più la propria sensualità è insoddisfatta (p. 622). “Se molte lesbiche si vestono virilmente, non è soltanto per imitare gli uomini e sfidare la società: non hanno bisogno delle carezze del velluto e del raso perché ne coglieranno su un corpo di donna le qualità passive”.

La società regola inoltre il compromesso tra decenza e pudore attraverso usanze e costumi che, se disattesi, vengono letti come “ribellione all’ordine stabilito”.

Solo la prostituta la cui funzione è esclusivamente quella di oggetto erotico deve presentarsi sotto questo unico aspetto; come un tempo la chioma color zafferano e i fiori sparsi sul vestito, oggi i tacchi alti, il raso aderente, il trucco violento, i profumi densi denunciano la sua professione. Si rimprovera ad ogni altra donna di vestirsi “come una di quelle”. Le sue virtù erotiche sono integrate alla vita sociale e devono apparire solo sotto questo saggio aspetto. Ma bisogna sottolineare che la decenza non consiste nel vestirsi con un rigoroso pudore. Una donna che sollecita troppo chiaramente il desiderio maschile manca di stile; ma quella che ha l’aria di rifiutarlo non è più raccomandabile: si pensa che voglia mascolinizzarsi, è una lesbica; o distinguersi, è un’eccentrica; rifiutando la sua parte di oggetto, sfida la società: è un’anarchica. Se vuole soltanto non farsi notare, bisogna che conservi il suo carattere femminile (p. 624).

E questo carattere femminile va non solo conservato ma anche alimentato, perché ne va dell’appartenenza ad un rango e di un posizionamento sulla scala sociale. Essendo la donna un oggetto, il modo in cui è vestita modifica il suo valore intrinseco: la donna è tanto più rispettata quanto più si presenta meglio, più ha bisogno di trovare lavoro più le è utile avere un’aria elegante (p. 626). E’ l’immagine di una donna completamente subordinata al progetto della società patriarcale che fonda sull’immagine le basi del “successo” sociale, che destina alle donne una cittadinanza di dipendenza. E’ qualcosa di non molto lontano da ciò che la nostra società mediatica ci propone quotidianamente. SdB dice di più:

Oggi più di un tempo la donna conosce la gioia di modellare il suo corpo con lo sport, la ginnastica, i bagni, i massaggi, le diete (dovremmo aggiungere la chirurgia estetica); decide del suo peso, della sua linea, del colore della sua pelle; l’estetica moderna le permette di integrare alla sua bellezza delle qualità attive: ha diritto a dei muscoli addestrati, si ribella all’invasione del grasso; nella cultura fisica si afferma come soggetto; c’è in questo una specie di liberazione nei confronti della carne contingente; ma questa liberazione torna facilmente alla dipendenza. La stella di Hollywood trionfa sulla natura: ma si ritrova oggetto passivo tra le mani del produttore (p. 627).

Voglio leggere qui “produttore” come sistema maschile che utilizza il corpo delle donne: per fare audience, per vendere, per conquistare, per far passare una legge. Il corpo come terreno politico di conquista. In queste pagine c’è questo, non c’è l’analisi di questo.

Al centro del racconto delle donne in società che fa SdB c’è il corpo, non come luogo di autodeterminazione, ma come terreno di lotta contro tutto ciò che corrisponde all’uscita dalla messa in scena dell’oggetto desiderabile.

C’è la lotta contro l’invecchiamento: “Cercano [le donne] di conservarsi come altre conservano i mobili e le marmellate; questa ostinazione negativa le rende nemiche della propria esistenza e ostili agli altri: i buoni pranzi rovinano la linea, il vino sciupa il colorito, sorridere fa venire le rughe, il sole rovina la pelle, il sonno ingrassa, il lavoro sciupa, l’amore mette un cerchio intorno agli occhi, i baci infiammano le guance, le carezze deformano il seno, gli amplessi avvizziscono la carne, la maternità imbruttisce il viso e il corpo” e via così (p. 628).

C’è la lotta per la conquista dello sguardo altrui, che è uno sguardo maschile: “benchè alcune donne affermino: ‘mi vesto solo per me’, abbiamo visto che anche nel narcisismo è implicito lo sguardo degli altri” (p. 629). Questi altri, ci dice SdB, sono spesso i mariti.

Potremmo dire banalmente che tale rappresentazione corrisponde ancora oggi al nostro Hollywood televisivo, ma non mi basta. Alla reazione spontanea di rifiuto verso la presentazione del corpo di una donna subordinato all’ordine maschile, mi sono chiesta quanto ci sia in tutto questo del nostro presente, del mio corpo, del mio posizionamento nel mondo attraverso il mio corpo.

Le femministe nove scrivono che il nostro è un corpo fatto a pezzi, che non si ritrova mai intero nelle sue differenti dimensioni di vita e perciò resta sempre inadeguato, incompleto, in difetto.  Parlano di corpo rimosso: rimosso nel lavoro come ansia da prestazione quanto nella politica come ansia di trasformazione.

La donna di SdB è un oggetto nelle mani dell’uomo: padre, marito, società maschile. Il suo corpo è lo strumento per la propria affermazione nella società, lo veste e lo allestisce come fa un’attrice di teatro, per recitare una parte, la tragedia della subordinazione o la commedia della ribellione. Con un salto temporale che ci porta al femminismo degli anni Settanta e Ottanta, il corpo diventa protagonista della presa di coscienza su di sé e il proprio desiderio, agendo uno scarto, una separazione dall’ordine dominante. Oggi l’ordine dato mette in campo una tensione tra la sovraesposizione del corpo femminile, da una parte ancora “oggetto erotico”  del desiderio maschile, dall’altra “corpo vittima” (pensiamo alla campagna mediatica sul femminicidio che ha portato all’approvazione lampo del pacchetto sicurezza) e la sussunzione dei desideri e dei bisogni al sistema produttivo del biocapitale. In un modo o nell’altro mette a tacere la voce del corpo come terreno autodeterminato. Qui mi chiedo se la rimozione del corpo che denunciamo su di noi, per sottrarsi all’immagine del corpo oggetto o del corpo vittima e per non cedere il corpo intero alle regole del capitalismo, sia così distante da un allestimento ad arte come quello descritto dalla nostra autrice.

 

I ricevimenti (spazi)

L’abbigliamento – lavoro delle donne – è propedeutico ad un ulteriore lavoro: organizzare ricevimenti.

SdB mette l’accento sulle trasformazioni che gli usi e i costumi – le costruzioni della società – mettono in atto sull’agire delle donne. Qui cita la Mrs Dalloway di Virginia Woolf per dare conto del senso di generosità e festosità che risiede nella pratica dell’accoglienza in casa. Ricevere non è soltanto accogliere gli altri nella propria abitazione, ma significa trasformare questa in un regno incantato. Se c’è della pura generosità in questo omaggio reso agli altri la festa è veramente una festa. Ma, la società interviene anche qui per trasformare la pratica in un’istituzione, che piega il dono sull’obbligo e la festa sul rito. In tali circostanze la festa perde il suo carattere generoso e magnifico, è una fatica come tante altre. Il ricevimento si trasforma in quello che SdB nomina come MULTIPLA DIPENDENZA DELLA MASSAIA: “dipende dal soufflet, dall’arrosto, dal macellaio, dalla cuoca, dall’extra; dipende dal marito che aggrotta le sopracciglia se qualcosa non va bene; dipende dagli invitati che vagliano i mobili, i vini e che decidono se la serata è riuscita o no” (p. 633). E non solo: si tratta di incontri vuoti, di vana apparenza, della stessa consistenza dell’abbigliamento femminile che indica il rango sociale.

Lo spazio sociale occupato dalle donne è uno spazio vuoto. Non c’è pienezza, non c’è autenticità.

Questa pienezza e autenticità SdB sembra rintracciarle, almeno inizialmente, nelle relazioni tra donne, che lei chiama amicizie femminili.

Le amicizie femminili (relazioni)

Gli uomini comunicano tra loro attraverso idee, progetti, ecc

Le donne sono unite tra loro da una complicità immanente e cercano insieme l’affermazione del loro universo comune. Si uniscono per creare un CONTROUNIVERSO

Non discutono delle opinioni: scambiano delle confidenze e delle ricette; si uniscono per creare una sorta di contro-universo i cui valori prevalgano sui valori maschili; riunite, esse trovano la forza di liberarsi dalle loro catene; negano il dominio sessuale dell’uomo confidandosi reciprocamente la loro frigidità, beffandosi cinicamente dei desideri del maschio, o della sua goffaggine; contestano ironicamente la superiorità morale e intellettuale del marito e degli uomini in generale. Confrontano le loro esperienze; gravidanza, parti, malattie dei bambini, malattie personali, faccende domestiche diventano gli avvenimenti essenziali della storia umana. Il loro lavoro non è una tecnica: scambiandosi ricette per la cucina, per la casa, gli danno la dignità di una scienza segreta fondata su delle tradizioni orali (pp. 634-635).

SdB afferma, dandoci un po’ di respiro, che davanti all’uomo la donna recita sempre: essa mente fingendo di accettarsi inessenziale, questa commedia esige una costante tensione: vicino al marito, all’amante, ogni donna pensa più o meno “non sono me stessa”.

C’è traccia, in questa intimità frivola e calda, come lei la definisce, di un’anteprima di AUTOCOSCIENZA? Di ciò che è parso come imprescindibile a quelle donne che hanno scelto il separatismo come pratica per avviare il percorso di liberazione e l’autocoscienza come pratica di trasformazione?

Non so rispondere, perché SdB si sconfessa poche righe dopo, tornando alla donna come soggetto/oggetto votata allo sguardo altrui. Lei afferma infatti che la complicità tra donne non diventa mai amicizia perché le donne sono costantemente volte verso il mondo maschile.  L’ombra del maschio pesa su di loro. Le donne sono compagne di prigione, si aiutano a sopportare la loro prigione, anche a preparare la loro evasione, ma il liberatore verrà dal mondo maschile.

Perché l’uomo è sempre una figura guida (la sua infanzia le ha lasciato il bisogno imperioso di una guida). Dopo il matrimonio il mondo maschile conserva il suo prestigio agli occhi delle donne, è solo il marito che lo perde. Le donne allora si rivolgono ad altri uomini. Chi sono questi uomini? Iniziano qui pagine tragicomiche che vi consiglio di leggere.

SdB individua questi uomini guida in tre figure.

IL PRETE, padre spirituale (p. 639) e IL MEDICO (pp. 640-641)

SdB individua in queste due figure delle autorità morali a cui le donne si votano. Ma, dice, ce ne sono alcune che hanno anche bisogno di un’esaltazione romantica. E allora entra in scena un’altra figura:

L’AMANTE. I sentimenti che spingono le donne al tradimento sono il rancore e la vendetta oppure la delusione. Nel matrimonio la donna non trova l’amore e le si nega ogni soddisfazione erotica. La figura del marito è descritta come odiosa, per due tratti essenziali: egli è l’iniziatore e il tiranno. E’ un iniziatore condannato alla sconfitta perché si scontra con le esigenze contraddittorie della vergine che si sogna nello stesso tempo violentata e rispettata e che quindi sarà sempre frigida tra le sue braccia; è tiranno perché – accettato per rassegnazione o scelto dalla famiglia di origine – con il matrimonio è diventato il padrone della moglie e i loro rapporti sono diventati un dovere (p. 643).

Le donne trovano nell’adulterio una dimensione di libertà: sposarsi è un obbligo, prendersi un amante è un lusso. Ma commettere adulterio (646) per una donna è molto più grave che per uomo agli occhi della società: pur venendo meno i motivi di tale severità, da ricollegare al rischio di introdurre in famiglia il figlio di un estraneo, venuti meno grazie ai mutamenti sociali e al controllo delle nascite, persiste la volontà di mantenere la donna in una condizione di inferiorità mantenendo i divieti sull’adulterio,divieti che spesso vengono interiorizzati dalle donne stesse che chiudono un occhio di fronte ai tradimenti dei mariti.

In chiusura rintracciamo un’apertura su libertà sessuale e adulterio.

SdB afferma che, seppure le donne hanno raggiunto, nel 1949, una parziale libertà sessuale, è ancora difficile conciliare la vita coniugale con le soddisfazioni erotiche. Riconoscere l’adulterio come pratica di libertà sessuale significherebbe abolire una tara del matrimonio: 

“l’adulterio è reso degradante dai compromessi della prudenza e dell’ipocrisia; un patto reciproco di libertà e di sincerità abolirebbe una delle tare del matrimonio”.

L’autrice smonta, forse un po’ velocemente, la formula irritante  “per la donna non è la stessa cosa” in merito al desiderio sessuale: 

“La differenza non ha nulla di naturale. Si vuole che la donna abbia meno bisogno dell’uomo di un’attività sessuale, ma nulla è meno sicuro; le donne in cui l’attività sessuale fu rimossa sono poi spose lunatiche, madri sadiche, maniache donne di casa, creature infelici o dannose; e in ogni modo, anche se il desiderio sessuale nella donna fosse più sporadico, ciò non autorizza a considerare superfluo il soddisfarlo”.(p. 647)

E’ che l’atto sessuale della donna viene  ancora considerato un servigio che si presta all’uomo. SdB chiude il capitolo in maniera lapidaria: fino a quando la donna si farà schiava e riflesso dell’uomo a cui si dà, bisogna che ammetta che le sue infedeltà la strappano più radicalmente al marito di quanto non facciano le infedeltà di lui. Come a dire, l’adulterio della donna è davvero più grave di quello dell’uomo perché la allontana dall’istituzione e dal dovere, è quindi un pericolo per la società ma può tramutarsi in una occasione di liberazione per la donna. Si tratterebbe però di riproporre la stessa dinamica della prigioniera che attende la libertà, un liberatore del mondo maschile. Infatti, e chiudo proprio con le parole finali di SdB: adulterio, amicizie, vita mondana sono nella vita coniugale unicamente degli svaghi, possono aiutare a sopportare i vincoli eccessivi, ma non giungono a infrangerli. Sono pseudo-evasioni che in nessun modo permettono alla donna di riprendere in mano, autenticamente, il proprio destino.