Pina Nuzzo, Libere di lavorare

Libere di lavorare

Pina Nuzzo

15 ottobre 2011 ANTEPRIMA XV Congresso UDI

 

Se una donna perde il lavoro tutte perdiamo qualcosa, così era scritto in un comunicato nazionale dell’UDI del febbraio scorso. Era un comunicato a sostegno della lotta delle lavoratrici della Omsa, infatti avevamo anche pensato che si potesse tenere il Congresso nella fabbrica occupata. Per diversi motivi non è stato possibile, ma il tema del lavoro ha segnato il nostro dibattito precongressuale.
Donne che perdono il lavoro, donne che devono rinunciarvi se rimangono incinte, donne che lo rincorrono. Donne giovani che fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro a pieno titolo, con dignità e senza scorciatoie.
Come affrontare tutto questo senza apparire pretenziose o inadeguate? Parlare del lavoro significa saper leggere nei meccanismi e nelle scelte che determinano l’economia di un paese e noi non siamo delle economiste, ma l’esperienza politica ci aiuta a nominare quello che ci affligge quando ci troviamo a gestire insieme la nostra vita e un’occupazione. Perché di questo ancora si tratta, di un doppio lavoro che tocca solo a noi ricomporre in una vita che abbia senso. Oggi siamo qui a discutere con donne competenti e preparate e vorremmo chiedere loro di prestare attenzione al nostro pensiero, di scommettere insieme a noi su una visione della politica e dell’economia che ci permetta di avere una strategia comune.
Un ascolto lo chiediamo, ormai da anni, anche alla politica perché vorremmo che avesse la capacità di una visione ampia e aperta sul futuro. La capacità di fare proposte, di governare le conseguenze e che per questo risultasse credibile. Drammaticamente la politica istituzionale oggi non risponde a niente di tutto questo e nello stesso tempo abbiamo la consapevolezza che senza la politica non si realizza una convivenza civile.
Oggi mentre ci apprestiamo ad una Anteprima Congresso tutta dedicata al lavoro nella convinzione che le donne siano cambiate e che sia cambiato il lavoro, la tragedia di Barletta ci restituisce una realtà che opprime, che accomuna donne italiane – del Nord e del Sud – e tante immigrate. Risulta difficile, praticamente impossibile, immaginare un orizzonte altro, quando la politica è miope e vive alla giornata. E il problema non è più di conquistare questa o quella legge, il problema è di avere una classe dirigente responsabile e all’altezza dei suoi compiti.
Le donne che sono morte a Barletta, soffocate schiacciate nel crollo del locale dove lavoravano, percepivano meno di quattro euro l’ora. Ma fa riflettere che l’unica sopravvissuta abbia difeso quell’occupazione e i suoi datori di lavoro e la stessa cosa abbiano fatto i parenti delle vittime e la comunità intera. Lì nessuno vuole chiamare quel lavoro ‘lavoro nero’ perché intanto è lavoro e perché nel nostro paese spesso fare impresa, trovare, dare lavoro significa farlo ai confini della legalità. Tutte/i sappiamo che le condizioni in cui è dato lavorare possono cambiare da città a città, e nello stesso luogo di lavoro, quelle/i che arrivano dopo, sono penalizzati. Dove non ci sono regole – o le regole sono troppe che è quasi la stessa cosa – dove non ci sono controlli, l’illegalità prende il sopravvento.
Oggi sono tante/i quelli che fanno un lavoro diverso da quello per cui hanno studiato, ma forse non sarebbe neanche questo il problema se questo segmento della vita non fosse segnato dalla solitudine. Marianna Sassi, dell’Udi di Pesaro, laureata in scienze politiche, che ha frequentato il corso di documentalista on line, scrive: Alcuni anni fa lo slogan per l’ 8 marzo delle donne dell’UDI era la precarietà rende sterili; la frase mi ha sempre colpito molto, ma solo oggi, dopo avere provato l’esperienza del precariato in fabbrica e soprattutto, avendo avuto la possibilità di osservare le donne che vivono in tale situazione, credo di aver capito fino in fondo il significato della parola sterilità, che si configura non solo come generativa, ma come uno stato di precarietà della coscienza che ci porta a non riuscire a definire un futuro, a vivere in balia delle ansie, delle paure, e non ultimo ad identificare nelle altre non una risorsa, ma delle competitrici, delle nemiche perché la precarietà ci rende sole. Queste parole di Marianna dicono che, prima ancora che un lavoro adeguato agli studi da lei fatti, vorrebbe un rapporto diverso con le altre e ciò, nella mia esperienza, avviene con la politica. La politica è stato il luogo del riscatto per tante donne uscite dalla guerra che non avevano istruzione e nessuna prospettiva; oggi, forse, può avere una funzione analoga per donne istruite e preparate che ambiscono ad una rappresentazione di sé che non sia schiacciata solo sul lavoro che si fa per vivere. Infatti se per una donna è un fatto normale lavorare, allo stesso tempo il lavoro non occupa tutti i suoi pensieri e nemmeno tutta la sua vita, perché la realizzazione di sé va oltre il lavoro e include il bisogno di coltivare passioni e interessi. Anche in coppia i giovani difendono ciascuno i propri spazi le proprie amicizie, per questo sarebbero naturalmente flessibili se nel nostro paese flessibilità non volesse dire precarietà assoluta. La precarietà non permette di programmare il tempo e le energie e in particolare ostacola la partecipazione alla vita sociale e politica di tantissimi giovani, donne e uomini. Anche a questo è dovuto il crescente discredito nei confronti della politica, considerata e usata da tanti come un modo per fare velocemente carriera. Noi crediamo nella politica, crediamo che ci sia spazio per noi donne, organizzate e no, perché vogliamo che le cose cambino. Per questo cerchiamo il confronto e lo scambio con le altre e ci mobilitiamo, tutte le volte che serve, con la sapienza e l’intelligenza che deriva dalla nostra lunga storia, per sollecitare le azioni politiche opportune. Nello stesso tempo non ci sostituiamo ai partiti, ma possiamo ricordare loro che costituiamo più della metà dell’elettorato e che devono fare i conti anche con noi. Ci ritroviamo, dopo decenni, a lottare con il pregiudizio per il quale, di fronte ad una crisi economica, è meno grave licenziare una donna. Siamo ben lontane da paesi come la Norvegia dove l’occupazione femminile è al 75 % circa e dove il welfare esiste per davvero. Potremmo fare altri esempi più vicini a noi, come la Francia o la Spagna, potremmo accennare ai patti di presenze equilibrate di donne nelle aziende e vagliare i tanti distinguo. Mentre in Italia si parla di traguardo storico per le quote rosa nei consigli di amministrazione delle aziende, altrove, anche lì dove da tempo è prevista e/o accettata una forma di gradualità, si è raggiunta la consapevolezza che la democrazia condivisa è un bene per l’intera società, non certo un favore per le donne! Gli ostacoli maggiori per le donne affondano le radici in una cultura maschista ostile alla conciliazione tra la vita familiare e l’impegno nel lavoro, ferma nel mantenere una sostanziale disparità a livello retributivo e nel conservare stereotipi e pregiudizi sessisti. E nel fare una analisi della realtà non possiamo dimenticare gli interessi corporativi e le connivenze che lungo il corso degli anni hanno portato governi ed organizzazioni sindacali ad una politica del lavoro, delle pensioni, del welfare, volta a privilegiare un solo genere – quello maschile – e a caricare quello femminile di pesantissimi oneri di supplenza. Se, come ho detto prima, è sempre più diffusa tra le donne, ma anche tra gli uomini, la percezione che è normale che una donna lavori, questo è indubbiamente un punto d’arrivo dovuto ad una maturazione culturale, ma anche ad un dato materiale: una famiglia si regge con fatica su una sola entrata economica. Quindi non tutto è stato risolto, non solo per questioni legate allo stato sociale, ma per le dinamiche interne al rapporto con l’altro sesso. La famiglia in questo Paese si regge soprattutto sulle spalle delle donne che si occupano e preoccupano di genitori anziani, di figli, di disabili, di malati di mente, di andamento della casa, di rapporti con le assistenti familiari e di problemi delle assistenti familiari…e poi il lavoro e poi anche il tempo libero, perché anche quello si organizza. Di tutto questo si occupano le donne, a volte anche gli uomini, a volte insieme, ma le donne sempre un po’ di più. Oggi però le donne vogliono decidere veramente: nei rapporti co n l’altro sesso, sul lavoro, in politica e soprattutto rispetto al loro corpo fertile. Allora bisogna domandarsi quali responsabilità comporti diventare genitori: quali pesi si assume nella nostra società una donna che decida di fare un figlio. Quale responsabilità si assume lo Stato verso quel bambino e verso quella donna. Poi quale responsabilità si assume un uomo che accetta la paternità. Lo Stato non mette al primo posto i soggetti con le loro differenze ma un nucleo – quello familiare – per cui una donna, se ha un marito, può avere più diritti come madre di quelli che ha una singola. E un uomo, se ha una moglie, può avere dei vantaggi, anche come padre, che non avrebbe fuori dal matrimonio. Le donne più giovani hanno in genere rapporti diversi con i compagni, e diversi non significa automaticamente migliori, significa che le giovani donne hanno un negoziato in corso con i maschi di cui dobbiamo tenere conto. In tutti questi negoziati, sono determinanti la cura delle relazioni e dei corpi, la manutenzione della casa e il tempo. Quello che si svolge fuori dalle mura domestiche viene considerato lavoro ed è retribuito, quello che si svolge fra le pareti domestiche viene definito lavoro di cura. Il primo è prevalentemente considerato maschile, il secondo è una prerogativa femminile. In realtà si opera una confusione quando si mettono sullo stesso piano cura e manutenzione rendendo molto complicata la condivisione dell’una e dell’altra nella gestione della vita quotidiana. Si chiama cura l’insieme dei gesti amorosi e gratuiti di un soggetto verso un altro, la cura può essere maschile o femminile, materna e paterna e non è negoziabile. La cura richiede impegno e un pensiero costante e attento per qualcuno o per qualcosa. Essa non è solo accudimento, ma attraverso la cura si impara/insegna la relazione con le persone con il mondo e si apprendono/insegnano i comportamenti. Si chiama manutenzione quell’insieme di operazioni quotidiane di cui ogni donna ha esperienza, senza le quali una casa piomba nel caos. Questa fatica è invisibile, è gratuita e non è riconosciuta. Una retribuzione è prevista solo se questo lavoro lo fa un’altra, più raramente anche un altro, in genere a ore. La manutenzione si può condividere e negoziare, addirittura contrattualizzare, la cura chiama in causa entrambi i genitori o i soggetti di una relazione. La cura non è lavoro, anche quando è faticosa, essa è la cifra di una relazione, ma allo stato attuale è difficile separarla dalla manutenzione, da tutte quelle azioni che fanno di una casa uno spazio vivibile ed armonioso. Tale confusione è data dal fatto che sono tutte e due a carico nostro, e questo inquina i rapporti di convivenza, dove diventa difficile distinguere cosa si può o cosa non si può negoziare. Fino a quando il genere maschile non comprenderà il valore della cura, a cominciare dalla cura di sé – manutenzione compresa – potrà pensare che i rapporti tra i generi, ma anche con il mondo, possano essere regolati con l’uso del potere o del denaro. Il mancato riconoscimento, che da sempre si perpetua nei confronti del sapere di cui le donne sono portatrici, impoverisce la cultura di tutto un popolo e priva le donne di decisioni autonome e a pari titolo con gli uomini. E, cosa ancora più grave, la politica continuerà a riproporre una convivenza sociale in cui i ruoli sono scalfiti solo sulla superfice, nonostante le leggi, e nei luoghi dove si decide le donne saranno tenute ai margini e ovunque moderate, attraverso la paura della violenza, anche tra le pareti domestiche. Molte delle cose che ho detto avrebbero bisogno di essere dipanate e ragionate perché ognuna di esse ha una ricaduta nel pensare e nel progettare un welfare che corrisponda alle reali necessità di tutti i soggetti coinvolti. Oggi vogliamo metteremo le basi per un costruire un discorso condiviso.
Redazione

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