Riflessioni sull’8 marzo e sull’azione politica femminista

di Piergiorgio Ferrari e Andrea Venturini 

 

Introduzione                                                                                                                                                                                   

Il tema delle differenze di genere rientra ormai nell’agenda del dibattito pubblico da diversi decenni. Tuttavia le azioni che hanno portato ad un segno tangibile nell’assottigliamento di tali differenze sono state quanto meno insufficienti fino ai giorni odierni. Per Azione possiamo innanzitutto intendere tutto ciò che possa aumentare lo spettro della consapevolezza all’interno della società in riferimento al tema in questione. In questo senso il Laboratorio di Lineamenti di Genere è apparso immediatamente ai nostri occhi come una concreta possibilità di praticare l’Azione intesa nei termini di cui sopra.

La scelta di produrre il nostro elaborato sulla giornata dell’8 marzo è maturata in quanto la portata simbolica e partecipativa che evoca ogni anno risulta essere decisiva in termini di aggregazione e condivisione di idee e sentimenti. Tuttavia la consapevolezza non può fermarsi ad un atto dimostrativo unico all’interno di un anno solare ma deve invece essere esercitato all’interno di tutte le sfaccettature della società quotidianamente. Per arrivare a tale obbiettivo sono tuttavia necessari ulteriori sforzi in termini di Azione. Il primo può essere assolutamente inteso nei termini della necessità di portare il tema delle differenze di genere ad un più alto livello all’interno dei luoghi della formazione – non solo nelle aule Universitarie – ma soprattutto all’interno delle mura scolastiche di primo e secondo grado.

Probabilmente – infatti – ciò che più è mancato negli anni passati è stata proprio la divulgazione scientifico-informativa. Importante sottolineare come il concetto di differenza non debba essere inteso come una frammentazione delle dimensioni sessuali categorizzate, bensì un lavoro di integrazione sociale e culturale che possa abbattere le differenze culturali raggiungendo una parità di genere che faccia emergere le caratterizzazioni specifiche e eviti l’appiattimento come forma di soppressione della soggettività e dell’individualità. Il nostro lavoro – dunque – si propone di attuare un’analisi diacronica dei movimenti femministi all’interno della società dalla seconda metà del XIX secolo fino ai giorni nostri. Cercando dunque di tracciare un file rouge che possa evidenziare le conquiste fondamentali ottenute e far emergere le ampie lacune culturali che hanno posto le fondamenta degli attuali stereotipi concettuali. Ci soffermeremo – oltre che sui movimenti femministi tout court – in particolare sul movimento “Non Una di Meno”, oggetto della lezione dello scorso 8 marzo svoltasi “in piazza” attraverso la Manifestazione che rappresenta l’attuazione pratica del concetto di Azione. 

In questo senso proporremo una ricostruzione delle modalità di espressione conquistate dal popolo, a partire dai primi scioperi di metà Ottocento per i diritti dei lavoratori.

 

Cenni storici e origini dell’8 marzo (#lottomarzo)

Per avere un quadro completo del tema che andremo ad affrontare è necessario interrogarsi sulle radici storiche dei movimenti che hanno portato alla giornata internazionale della Donna. Ispirata dai movimenti dei lavoratori di matrice Nordamericana ed Europea, la prima giornata internazionale delle donne è stata celebrata il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti d’America. 

La portata di questo evento non ha tardato a farsi sentire nel mondo. Infatti, l’anno seguente la proposta venne raccolta da Clara Zetkin a Copenaghen, durante la Conferenza internazionale delle donne socialiste. Nell’ordine del giorno della Conferenza non risulta che le donne presenti abbiano istituito una giornata dedicata ai diritti delle donne. Tuttavia – nel manifesto redatto da Clara Zetkin – risultava la chiara intenzione di fissare una giornata internazionale per i diritti delle donne. Nonostante ciò, nel decennio successivo ogni paese celebrava la giornata ancora in date differenti. Fondamentale ai fini del nostro discorso è il ruolo che ha svolto l’Associazione delle Donne Comuniste agli inizi del Novecento. Durante la seconda Conferenza dell’Associazione – tenutasi nel 1921 a Mosca – si decise di scegliere una data precisa che potesse essere riconosciuta universalmente come la giornata della Donna. La scelta ricadde dunque sull’8 marzo. 

Facendo un passo indietro, andiamo ad analizzare i fatti che portarono a tale decisione. A San Pietroburgo l’8 marzo 1917 del calendario Gregoriano, le donne della capitale organizzarono una grande manifestazione per rivendicare la fine della guerra e del patriarcato. Tale manifestazione diede una ulteriore accelerata alla progressiva perdita di potere da parte dell’impero zarista. Per questa ragione, l’8 marzo 1917 venne simbolicamente ricordato come l’inizio della rivoluzione russa. 

Al termine della rivoluzione e con la presa del potere da parte dei bolscevichi, il 14 giugno 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste – tenutasi a Mosca una settimana prima dell’apertura del III congresso dell’internazionale comunista – fissò all’8 marzo la Giornata internazionale dell’operaia. 

In Italia la Giornata internazionale della donna fu tenuta per la prima volta nel 1922 per iniziativa del Partito comunista d’Italia, che la celebrò la prima domenica successiva all’ormai consolidato 8 marzo. Dovremo però aspettare addirittura fino al 1977 per la promulgazione ufficiale della giornata. Infatti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite – riunitasi il 16 dicembre dello stesso anno – propose a ogni paese di scegliere un giorno da dedicare alla “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale”. Un grande contributo al raggiungimento di tale risultato, lo diede sicuramente la “seconda ondata” del movimento femminista negli anni Settanta – originato dalla spinta rivoluzionaria dei moti studenteschi del Sessantotto – che rappresentava l’urgenza di riconoscere alle donne la piena partecipazione alla vita civile e di porre fine ad ogni discriminazione. L’8 marzo – che già veniva festeggiato in diversi paesi – fu scelta come la data ufficiale da molte nazioni. La decisione di utilizzare un unico giorno ha avuto e continua ad avere un chiaro obbiettivo simbolico. Infatti, ogni anno tutti partecipanti possono riconoscersi e identificarsi nei principi fondamentali evocati dalla giornata in questione.

 

Uso storico della manifestazione come forma di protesta 

Cosa intendiamo utilizzando il termine manifestazione? In tempi odierni tale termine potrebbe sembrare ai più scontato, come una pratica talmente comune da essere ormai entrata all’interno dell’agenda quotidiana. Tuttavia, la storia delle modalità attraverso cui il popolo è riuscito a guadagnare potere nel corso degli ultimi secoli è lunga e travagliata. 

I primi segni di protesta a livello globale, si rintracciano durante gli anni a cavallo tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento. La comparsa della conflittualità tra padroni e operai fu accolta dagli stati ottocenteschi con un allarme che andò crescendo lungo tutto il secolo. La manifestazione – o sciopero – va intesa soprattutto considerandone il contesto storico dalla quale è originato e deve essere concepita come una vera e propria “arma sociale e politica” a disposizione delle masse. 

Verso fine Ottocento prese piede in Francia l’idea dello sciopero generale sotto forma di sindacalismo rivoluzionario e venne adottato come strumento di lotta dalle classi meno abbienti della società industriale. Tale pratica venne adottata quindi dal movimento operaio in diversi paesi con l’idea di poter esprimere tutto il suo potenziale persuasivo e avrebbe dovuto avere la sua completa applicazione di fronte allo scoppio del conflitto mondiale, ma abortì nella crisi della seconda Internazionale. L’entrata dell’Italia nel processo di industrializzazione fu accompagnata da una mobilitazione proletaria che si sviluppò nei centri manifatturieri e nelle campagne dagli anni Ottanta dell’Ottocento. Dal 1889 il codice Zanardelli affermò la non punibilità dello sciopero pacifico quale strumento normale delle lotte nel mondo del lavoro.

Particolare significato assunse in questo contesto la ricorrenza del 1 maggio – festa dei

lavoratori proclamata per la prima volta nel 1890 – in cui l’astensione generalizzata dal lavoro ebbe dimensione internazionale e che continua ad essere celebrata fino ai nostri giorni. Con il nuovo secolo la dinamica degli scioperi si intensificò, culminando nello sciopero generale del 1904 delle lotte bracciantili. Nel 1911 lo sciopero generale politico fu adottato dal Partito Socialista come estremo mezzo di lotta contro la guerra italo-turca. Nel corso del conflitto prevalse l’atteggiamento repressivo delle autorità come in tutti gli stati europei. Alla fine della prima guerra mondiale la spinta rivoluzionaria proveniente sia dalle tensioni accumulate sia dalla rivoluzione d’ottobre in Russia esplose in una ripresa acutissima della conflittualità sociale. In Italia dal 1925 lo sciopero fu messo fuori legge dai regimi fascisti sino alla fine della guerra. Gli scioperi in seguito alla Seconda guerra mondiale si diversificarono in primis nelle agitazioni promosse dalle organizzazioni sindacali riconosciute sui temi dei diritti del lavoratore e anche su quelli nascenti da esigenze di gruppi sul posto di lavoro. Tra gli scioperi organizzati dai sindacati assunsero maggiore peso – poiché rivendicavano una funzione riconosciuta – quelli indirizzati ai poteri pubblici perché intervenissero con decisioni favorevoli ai lavoratori. Gli scioperi promossi nel periodo della guerra fredda in Italia dalle organizzazioni di ispirazione socialcomunista unirono esigenze politiche a quelle di stampo economico-normativo. A ciò corrispondeva però l’atteggiamento tenuto dai sindacati per frenare le rivendicazioni dei lavoratori al fine di sostenere un governo amico. 

Una faglia importante fu costituita dal ciclo di lotte Sessanttottine che coinvolse tutti i paesi industrializzati e che fece emergere necessità e richieste di componenti spesso accantonate dalle politiche dei sindacati stessi. Proprio sugli umori di quegli anni emersero – accanto agli operai – nuovi soggetti del conflitto di lavoro: gli addetti del terziario, della pubblica amministrazione e dei servizi. Questa nuova realtà portava con sé numerosi problemi legati alla regolamentazione e alla gestione dello sciopero. In quel periodo tornava rinvigorito il movimento femminista della “seconda ondata” che da lì in poi ha iniziato a giocare un ruolo fondamentale per quanto riguarda la tutela e l’esercizio dei diritti delle donne. In questo senso si collocano conquiste quali la legge Fortuna-Baslini del 1970 (legge sul divorzio) e la successiva legge sull’aborto (1978). 

Allo stato attuale delle cose, sono chiaramente cambiati i temi per i quali lottare ma le modalità che la democrazia fornisce ai cittadini sono sicuramente le stesse se paragonate agli ultimi casi trattati. Per approcciare ai temi per i quali spendersi oggi, non possiamo non considerare le disparità di genere in campo economico-lavorativo – tema estremamente attuale – poiché in tempi di crisi economica e sociale riaffiora la logica patriarcale che impone lo stereotipato schema che vede le donne relegate alla sfera domestica. Come è valutato però il ruolo domestico nella società attuale? Questa è solo una delle domande che è necessario porsi nell’attuale panorama sociale. 

 

Otto marzo in Italia – storia ed evoluzione dei movimenti femministi in Italia e introduzione della giornata nel paese.                                                                                                                 

La “seconda ondata” del femminismo si diffuse in Italia a partire dal 1968 e per tutti gli anni Settanta del secolo scorso. Si parla di “seconda ondata” poiché l’attenzione non verteva più sulla richiesta di uguaglianza e assimilazione al mondo maschile – come avveniva per le prime rivendicazioni femministe durante l’Ottocento – ma proprio sulle differenze di genere. L’intenzione – dunque – era quella di costruire una società che tenesse conto delle peculiarità femminili, garantendo allo stesso tempo l’uguaglianza dei diritti.

Il nuovo pensiero femminista identifica le differenze sessuali e biologiche come base della discriminazione – che si traducono poi in differenze sociali e culturali – relegando la donna a un ruolo subalterno. Per porre fine a tali discriminazioni vennero quindi rifiutate le teorie di Freud secondo le quali le caratteristiche anatomiche femminili definiscono e determinano prima la psiche e di conseguenza il futuro della donna. La volontà era quella di dimostrare come l’anatomia non fosse decisiva nel ruolo della persona. Questo nuovo movimento non si presentò come unico e organizzato a livello centrale. La studiosa Anna Rossi-Doria – ad esempio – periodizza il femminismo italiano degli anni Settanta in quattro fasi: la nascita dei primi gruppi (1968-1972), la formazione dei collettivi (1972-1974), il movimento di massa (1975-1976) e infine la crisi (1977-1979). La fase di genesi è da collocarsi durante il Sessantotto, anno simbolico in cui le idee di uguaglianza rappresentano il principale motivo di lotta. Tuttavia l’impegno degli studenti e dei partiti di sinistra, non trovarono poi un riscontro reale nel cambiamento del rapporto tra uomo e donna. Le studentesse si resero conto di essere relegate a ruoli marginali e subalterni all’interno degli stessi movimenti decidendo così di creare spazi solo femminili, optando quindi per una politica separatista. Il taglio netto è avvenuto nella presa di coscienza femminile che portò all’idea per la quale la sfera personale diveniva quella da discutere. 

È nel privato di ciascuna donna, nella relazione di coppia, nel rapporto sessuale e nella famiglia che si perpetua il dominio e il controllo sul sesso femminile. La critica politica delle donne partì quindi da un ambito quotidiano – come la sfera domestica – per mostrarne gli effetti pubblici e oppressivi. In questo fatidico passaggio la casa si trasformò da simbolo dell’isolamento a spazio politico.

Così i temi affrontati dal femminismo della seconda ondata diventarono argomenti estranei alla concezione tradizionale della politica: le esperienze di vita quotidiana, le relazioni, i sentimenti. Si iniziò a porre l’attenzione su temi assolutamente nuovi, come ad esempio il proprio corpo e la propria sessualità. 

Donne d’ogni età e di ogni condizioni sociale si raccolsero in “collettivi”, uscendo così dall’isolamento familiare e iniziando ad interrogarsi sulla vita delle donne di ieri e di oggi, ponendo soprattutto le basi che costituiranno le prospettive dell’emancipazione femminile. I gruppi nati in Italia sono tantissimi e diversi tra loro. Il primo movimento femminile organizzato nel nostro paese è stato il Movimento di liberazione della donna, nato nel 1969. Nella sua agenda figuravano la legalizzazione dell’aborto e la creazione di asili-nido. Il movimento in questione è stato fin da subito aperto sia alle donne che agli uomini.

Nel 1970 – invece – nacque Rivolta Femminile. In particolare, il movimento cercò di andare a colpire immediatamente il differente rapporto di forza tra gli uomini e le donne, ripudiando la figura maschile come quella dominante all’interno della società. Quasi nello stesso periodo – sotto la spinta del vento di rivolta che permeava l’Italia e non solo – in quegli anni nacquero i collettivi femminili del Movimento studentesco romano, che avevano come obiettivo primario quello di scardinare l’ordine patriarcale che vedeva la donna in un ruolo secondario nei processi produttivi. La spinta derivante dai movimenti femministi riuscì ad entrare anche nelle aule istituzionali. 

Nell’ambito della nuova sinistra nacque il Collettivo Femminista Comunista, che per prima cosa rivendicava l’autonomia. 

Vennero poi istituite organizzazioni particolari, come il Cisa (Centro italiano sterilizzazione e aborto) che mise in piedi a Firenze – grazie all’opera di Emma Bonino e Adele Faccio – una clinica per aborti. I collettivi si diffusero in tutte le grandi città d’Italia – e quella che inizialmente era una lotta portata avanti da pochi gruppi femministi – divenne un fenomeno al centro del dibattito dell’opinione pubblica.

Ne è un esempio l’impegno portato avanti nel sostenere le battaglie referendarie, che si esplicò raccogliendo le firme per la depenalizzazione dell’aborto e per la legge d’iniziativa popolare sulla violenza sessuale (introdotta solo nel 1996), da configurarsi come reato contro la persona, la donna, e non più contro la “moralità pubblica” e il “buon costume” come accadeva invece nel codice civile fascista.

Gli anni Settanta sono da considerare gli anni delle grandi conquiste femminili in diversi ambiti. 

In campo lavorativo, già il decennio precedente aveva visto l’approvazione di alcune importanti leggi. Nel 1961veniva sancito il diritto alla parità di stipendio nel settore industriale cosicché l’ingiusta sperequazione salariale su base sessuale venne vietata anche nel campo commerciale e in agricoltura. Nel 1963 abbiamo invece l’istituzione della pensione alle casalinghe, il divieto di licenziamento per matrimonio e il riconoscimento del diritto della donna ad accedere a tutte le cariche, compresa la Magistratura. Leggi come quella che tutela le lavoratrici madri o quella che prevede l’istituzione degli asili nido (1971), sono da considerarsi modifiche concrete apportate dal neofemminismo per il progresso sociale e civile. 

In tal modo vennero riconosciuti il valore sociale della maternità e l’importanza del lavoro extradomestico della donna, il cui posto era tradizionalmente tra le mura di casa. La maternità e la cura dei figli restavano però una prerogativa femminile, mentre per il padre non era prevista la possibilità di assentarsi e usufruire dei permessi in caso di malattia del bambino. Tale diritto venne esteso anche all’uomo solo dopo l’approvazione della legge di “Parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro”: si tratta della legge presentata dal Ministro del lavoro Tina Anselmi (prima donna a essere nominata Ministro in Italia), approvata dal Senato nel dicembre del 1977. La legge n. 903 introdusse infatti il divieto di discriminazione su base sessuale per quanto riguarda l’accesso al lavoro, l’avanzamento di carriera e il trattamento economico. Fino ad allora l’età pensionabile per le donne era di 55 anni – cioè prima di aver raggiunto il massimo pensionabile – e per gli uomini a 60, mentre la nuova legge offriva la possibilità di scegliere (era prevista la reversibilità della pensione della moglie al marito, anche se non invalido). 

Importante fu anche la fiscalizzazione del periodo di allattamento (non più a carico della singola azienda, ma delle mutue). L’affermazione dell’uguaglianza venne accompagnata da una notevole limitazione della tutela del lavoro femminile, grazie alla caduta dei divieti riguardanti i lavori ritenuti insani e pericolosi o moralmente nocivi (come la vendita di alcolici). Inoltre il divieto di lavoro notturno restò in vigore ma a partire dalle 24 (e non più dalle 22) con la possibilità di essere rimosso dalla contrattazione collettiva.

Di assoluta e critica rilevanza è stata la campagna referendaria per la legalizzazione dell’aborto, che ad oggi rimane probabilmente la più grande conquista sociale ottenuta dai movimenti femministi. Alla base della volontà di legalizzare l’aborto vi era un principio fondamentale e attuale anche oggi: la libertà di scelta (liberi corpi in libero spazio, “Non Una di Meno”).  

Nonostante il codice in vigore dai tempi del fascismo lo punisse come “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”, venivano praticati aborti clandestini. Erano soprattutto le donne di estrazione sociale più umile ad essere maggiormente esposte a rischi medico-sanitari poiché – non avendo la possibilità di sostenere spese elevate – erano costrette a sottoporsi a tale pratica in ambienti poco sicuri.

Nel 1973 il deputato socialista Loris Fortuna presentò un progetto per l’abrogazione della legislazione fascista.

Un primo risultato si ebbe nel luglio del 1975 con l’istituzione dei consultori di maternità: tale servizio aveva la funzione di prevenire l’aborto, diffondendo la conoscenza dei metodi contraccettivi, per i quali fino al 1971 era vietata persino la propaganda. 

Fu soprattutto l’Udi (Unione donne italiane) ad impegnarsi in questa battaglia, proponendo un referendum nazionale per la depenalizzazione dell’aborto. Nel frattempo la Corte Costituzionale dichiarò parzialmente illegittime le norme del Codice Civile. Dopo un primo dibattito con relativa elaborazione di un testo unico, che comunque non coniugò del tutto le posizioni in campo, nell’aprile 1976 ebbe inizio la discussione vera e propria. 

La Democrazia Cristiana – nel mentre – presentò un emendamento per riconoscere di nuovo l’aborto come reato punibile. Anche a causa di tale decisione, la legge per la legalizzazione dell’aborto non passò e venne approvata solo nel 1978.

Il divorzio è invece precedente.  Fu approvato con la legge Fortuna-Baslini del 1970 e resistette a un referendum abrogativo nel 1974 voluto dalla DC. Nonostante le forti pressioni esercitate soprattutto sulle donne dalla propaganda democristiana, il NO vinse col 59% e la legge restò in vigore. Questi due passi rappresentarono due importanti conquiste in materia di emancipazione.

Tuttavia, lo snodo principale riguardo la differenza dei rapporti di forza tra uomini e donne non era ancora superato. Infatti, fino al 1981, era ancora in vigore il Delitto d’Onore che permetteva all’uomo (padre, marito, fratello) di uccidere per difendere la propria dignità. Solo con il diritto di famiglia del 1975 la situazione cambiò radicalmente. Infatti con quest’ultimo venne finalmente riconosciuta la parità di genere all’interno del nucleo familiare e dei coniugi nel matrimonio. 

La parità formalmente raggiunta grazie alle lotte femministe degli anni Settanta – però – non riesce tutt’ora a trovare un riscontro nelle pratiche sociali, economiche e lavorative. La strada da fare è per questo ancora lunga, e nel prossimo capitolo analizzeremo nel dettaglio quali sono le problematiche attuali.

 

Giornata dell’8 marzo 2019: viaggio nel Movimento “Non Una di Meno” e problematiche attuali                             

Lo scorso 8 marzo, per la ricorrenza della giornata internazionale per i diritti delle donne, si è tenuta una manifestazione organizzata dal movimento femminista “Non Una di Meno”, al quale abbiamo partecipato da studenti del Laboratorio di lineamenti di genere perfettamente consapevoli di quanto potesse essere chiarificatrice non solo ai fini del corso accademico. 

Le modalità della manifestazione – un corteo partito da Piazza Vittorio a Roma e concluso a Piazza Venezia – sono state assolutamente pacifiche e volte a mettere in luce alcuni temi fondamentali riguardanti la stretta attualità. Infatti il tema principale della violenza di genere – su cui si sono battuti tutti i movimenti femministi nel corso degli ultimi decenni – è stato relativizzato ai tempi odierni e sono stati messi al centro della discussione temi economici legati al lavoro e al welfare, considerati centrali dal movimento “Non Una di Meno” per contrastare la violenza nel suo carattere sistemico.

Esiste infatti uno stretto nesso tra la ristrutturazione capitalistica e neoliberale in atto e la violenza di genere che – in questo ambito – viene perpetuata attraverso i dispositivi di nuova segmentazione e frammentazione del lavoro, di esclusione, disoccupazione forzata, sfruttamento e impoverimento, attraverso la crescente dismissione del welfare in nome del risanamento del debito. 

I fenomeni sopra descritti riguardano tutta la popolazione, ma si abbattono in particolar modo sulle donne. Infatti – in tempi di crisi – riemerge l’antico schema patriarcale che vede le donne costrette al lavoro domestico, o peggio ancora assegnandole il doppio carico di lavoro, sia dentro che fuori casa.

La manifestazione – infatti – ha avuto il preciso scopo di portare avanti l’iniziativa dello sciopero globale delle donne iniziato l’8 marzo del 2017, al fine di dar voce a tutte quelle donne che – per ragioni strettamente lavorative e imperniate nella logica produttiva del capitale – non hanno potuto essere fisicamente in piazza a manifestare.

Combattere la violenza a partire dalla specificità di questi temi vuol dire quindi porsi il problema in termini di prevenzione ed individuare ex ante strumenti e misure capaci di garantire materialmente l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, sottraendole in forma preliminare alla potenziale spirale di violenza data dalla dipendenza economica, dallo sfruttamento, dalla precarietà e dall’assenza di welfare e servizi. È il femminismo – del resto – ad aver mostrato come nel capitalismo la sfera della riproduzione sociale e della cura sia divenuta immediatamente produttiva. 

Se il lavoro produttivo viene quantificato e scambiato con un salario (seppur oggi sempre più basso), quello riproduttivo – che da tempo ormai eccede le sole attività domestiche qualificando la produzione stessa – ancora non viene riconosciuto né economicamente né socialmente. 

In altri termini, la ricchezza che le donne producono quotidianamente viene sottratta e non è in alcun modo ridistribuita. A questo si aggiunge il tema della disparità salariale, della disoccupazione femminile, di molestie e violenze nei luoghi di lavoro. In Italia, per portare qualche dato, il differenziale salariale di genere complessivo è pari al 43,7% (Eurostat 2014), la disoccupazione femminile è al 12,5% e il tasso di inattività è pari al 44% (Istat 2017). Sono 1 milione e 403 mila le donne fra i 15 e i 65 anni che hanno subito molestie e ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa (Istat 2016). 

La giornata dell’8 marzo ha avuto e continuerà ad avere il preciso scopo di opporsi alle logiche dilaganti dettate da una società pregna ormai solo dalle logiche del mercato e del capitale che – come descritto – hanno ricadute preoccupanti sul tema trattato in questa sede. 

Come è possibile allora combattere quotidianamente? Per rispondere a questa domanda è necessario prima rintracciare le cause che hanno portato ai dogmi concettuali creatisi nella società del capitale rispetto al tema della parità di genere. In questo senso, la convinzione è che ci siano state diverse lacune nella formazione accademica e soprattutto scolastica a cui è necessario porre rimedio quanto prima.

 

Lacuna nella formazione accademica e discontinuità nella memoria e nei saperi prodotti dalle donne

Una delle principali cause che ha portato alla problematica delle differenze di genere è rintracciabile in un deficit costante nella formazione accademica e scolastica, che ha posto le basi per veri e propri stereotipi concettuali che oggi rappresentano un muro invalicabile. 

L’idea di fondo è dunque quella che differenze e prevenzione nei confronti delle donne debbano passare attraverso un ripensamento strutturale del sistema educativo e formativo in quanto tale. Questo poiché la violenza è un fenomeno sistemico che innerva la società nella sua interezza e interessa tutti i contesti educativi e formativi, dal nido all’università fino alle scuole di alta formazione. È dunque necessaria una lente che consenta di guardare l’insieme delle differenze che compongono le soggettività, riconoscendone l’azione combinata che opera sulla vita delle persone. Per questo parliamo di educazione a una pluralità – potenzialmente infinita – di differenze.  

Presupposto necessario dell’educazione alle differenze in ottica femminista è il superamento del binarismo di genere come categoria obbligata nella lettura e nell’interpretazione delle identità. Secondo la logica imperante prodotta dalla cultura patriarcale, gli esseri umani si distinguerebbero sulla base di un mero dato biologico in due categorie differenti e complementari: ai maschi si lega l’attività, alle femmine la passività, ai maschi la ragione, alle femmine l’emozione, ai maschi la cultura, alle femmine la natura, e così via. Il binarismo di genere è direttamente legato all’eterosessualità e porta a considerare anormali e innaturali tutte le variazioni da questa classificazione. 

Il ripensamento toltale del sistema di istruzione necessita innanzitutto di un linguaggio che per primo si trovi ad abbattere le differenze, la logica binaria e che per primo comprenda quanto sia necessario iniziare a comunicare in modo da non dover annullare tutte le differenze di genere categorizzandole all’interno di una sola.

Per far sì che questo accada, è dunque necessario un programma di sensibilizzazione all’interno dei luoghi di formazione, con l’introduzione di corsi di genere ordinari all’interno delle Università e una formazione pedagogica che sia realmente consapevole di dover formare le future generazioni con una struttura concettuale che dovrà essere totalmente diversa da quella con cui sono cresciute quelle attuali.

È però fondamentale tenere a mente che le scuole superiori (di primo e secondo grado) e l’università possono realmente adempiere al duplice compito di prevenire e contrastare la violenza di genere solo a patto che insegnanti, educatori ed educatrici, possano lavorare alla decostruzione degli stereotipi interiorizzati che spesso – ed inconsapevolmente – transitano nella relazione educativa. È evidente che tale obiettivo sia raggiungibile solo attraverso la creazione di nuovi corsi di formazione per le/i docenti, così come le educatrici e gli educatori.

È però fondamentale che tali percorsi formativi siano fruibili anche dal personale precario e che soprattutto siano presenti nei corsi di abilitazione all’insegnamento.

A tal proposito riteniamo che la formazione – obbligatoria e non retribuita prevista dal Piano Nazionale Formazione Docenti – sia assolutamente inefficace poiché incentrata su temi rigidamente stabiliti dal Ministero, esternalizzando il servizio a Enti formatori accreditati. Questo non permette dunque una libera scelta della propria formazione per gli insegnanti, cosa invece assolutamente necessaria per rivedere dal basso il sistema formativo. Inoltre è doveroso che la formazione venga retribuita equamente in relazione alla quantità di ore svolte.

Il concetto di riqualificazione del sistema dell’istruzione parte dal presupposto che – una volta superate le barriere concettuali favorite dall’attuale formazione scolastica – si possano una volta per tutte superare le differenze di generi negli ambiti lavorativi. Se da un lato l’80% della forza lavoro nei primi due cicli d’istruzione della scuola è donna, dall’altro – ai livelli più alti (secondo ciclo e università) – si nota una netta diminuzione della presenza di insegnanti e docenti donne. A questo si aggiunge – in ambito universitario – una segregazione occupazionale legata al genere strettamente connessa al ciclo formativo, che vede una maggiore presenza di donne nelle facoltà umanistiche rispetto a quelle di carattere tecnico-scientifico che generalmente offrono sbocchi di carattere professionale meglio retribuiti. È assolutamente doveroso pretendere, quindi, che gli scatti salariali debbano avvenire solamente in relazione all’anzianità di servizio, non solo in ambito accademico, ma in qualsiasi campo lavorativo.

La consapevolezza, dunque, è che un investimento importante sul sistema di formazione scolastico ancora prima che universitario sia assolutamente doveroso per una revisione totale dei rapporti di forza che hanno determinato le differenze di genere sino ai nostri giorni.

 

Conclusione

In questo elaborato abbiamo voluto prendere in esame il tema delle differenze di genere nella sua sfaccettatura più generale. Per fare ciò, è stato necessario tracciare una linea dei rapporti di forza da un punto di vista storico, rintracciando di conseguenza anche la nascita dei primi movimenti femministi nel panorama mondiale e analizzando nello specifico il panorama Italiano.

Questi Movimenti hanno incarnato – e continuano ad incarnare come nel caso di “Non Una di Meno” – il concetto di Azione, intesa nell’accezione pragmatica: lasciare un segno nel mondo in cui ci troviamo, lottando per una causa in cui crediamo fermamente. Deriva da tale prospettiva la scelta di approfondire la giornata dell’8 marzo, non solo per il fatto che la manifestazione tenutasi in occasione della Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne ha coinciso con una lezione del Laboratorio di Lineamenti di Genere, bensì è frutto della consapevolezza di quanto tale giornata incarni nella sua pienezza il concetto di Azione. 

Nel corso degli ultimi decenni – in particolar modo dalla nascita dello Stato di Diritto come lo conosciamo oggi – è stata fatta molta strada in termini di conquiste in ambito sociale grazie alla spinta dei movimenti femministi che hanno portato alla luce istanze inderogabili per un mondo in continuo divenire. In tal senso sono rappresentative le battaglie portate avanti negli anni Settanta che – per quanto concerne il nostro paese – hanno portato a cambiamenti tanto radicali quanto necessari, come la legalizzazione dell’aborto in termini di libertà di scelta, la legalizzazione del divorzio e l’abolizione del Delitto d’Onore. Quelle sopracitate sono conquiste che sul piano formale hanno profondamente modificato i rapporti di forza vigenti tra donne e uomini. 

Tuttavia – allo stato attuale dei fatti – siamo fermamente convinti di quanto il piano formale non sia bastato per abbattere delle vere e proprie barriere concettuali nelle quali sembra essere trincerata la società capitalista del XXI secolo. 

Le stesse barriere che oggi stanno permettendo – sotto diversi punti di vista – un passo indietro come il ritorno ad uno schema che quantomeno si sperava fosse superato: quello su base gerarchica di stampo patriarcale, che vede la costrizione delle donne all’interno delle mura domestiche, oppure – ancora peggio – il carico del “doppio lavoro” che grava sulle proprie spalle. 

Il tutto – come se non fosse già abbastanza paradossale -senza considerare che in una società capitalista – nella quale il tempo di produzione viene retribuito – il tempo speso dalle donne all’interno delle mura domestiche non è ancora stato né quantificato né tantomeno qualificato. 

Per tutte queste ragioni e per molte altre ancora, crediamo sia assolutamente necessaria una riforma dal basso, che instauri le sue fondamenta nel sistema scolastico di primo e secondo grado ancora prima che in quello accademico-universitario. Proprio in quei luoghi della formazione dove fino ad ora sono rintracciabili le maggiori mancanze e le più grandi lacune, in quanto responsabili di aver formato delle generazioni che sul tema dei gender studies sono assolutamente impreparate e inadeguate ad affrontare le battaglie di cui questi ultimi necessitano sul terreno sociale. 

Una riforma che dovrà partire proprio dal linguaggio, proponendo un modo di comunicare che possa finalmente non sottomettere né estromettere nessun genere sessuale. Una riforma che avrà dunque l’arduo compito di coltivare culturalmente le prossime generazioni su delle solide basi, che non prevedano più una caratterizzazione strettamente biologico-binaria dei generi. 

A partire da una formazione adeguata per le educatrici e gli educatori nelle scuole di primo grado e proseguendo con un’intensificazione degli insegnamenti attraverso tutto l’arco formativo sul tema dei gender studies fino ad arrivare alle classi universitarie. 

Infine vogliamo sostenere che siamo assolutamente consapevoli di quanta strada sia stata fatta, ma siamo altrettanto coscienti di quanta ancora bisognerà farne per arrivare quanto meno a livellare il piano formale con quello concettuale.

 

Bibliografia

Giomi E. (2015), Quaderno di Appunti di Gender e Media, Roma, Pigreco Edizioni.

Mafai M. (2008), La storia non scritta del femminismo, Roma, LaRepubblica.it 

Enciclopedia Multimediale

https://archiviomarini.sp.unipi.it/589/1/decla.pdf

https://www.internazionale.it/notizie/2017/03/08/manifesto-di-rivolta-femminile

https://nonunadimeno.files.wordpress.com/2017/11/abbiamo_un_piano.pdf

Redazione

Del comitato di redazione fanno parte le responsabili dei contenuti del sito, che ricercano, selezionano e compongono i materiali. Sono anche quelle da contattare, insieme alle coordinatrici, per segnalazioni e proposte negli ambiti di loro competenz (...) Maggiori informazioni