Roberta De Giovanni – Un abito nuovo

Roberta De Giovanni – Un abito nuovo

Il caso che tratteremo si situa all’interno di una più ampia dimensione culturale e politica nella quale era collocato il nostro Paese tra la fine anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento.
Una considerazione generale dei rapporti Censis recita così:
«Il sistema produttivo italiano è stato modificato alla radice, non solo per quanto riguarda la composizione settoriale, ma anche per quanto concerne l’organizzazione della produzione, il mercato del lavoro, lo sviluppo territoriale. I processi di ristrutturazione degli ultimi vent’anni (dal 1971 al 1991) hanno determinato una netta inversione nelle tendenze di fondo degli anni Cinquanta e Sessanta. […] Ci si muove ora sempre più speditamente verso un modello di precarietà diffusa, caratterizzata dalla riduzione della scala dimensionale delle imprese, dalla riduzione delle occupazioni stabili, dal moltiplicarsi dei modelli occupazionali diversi e “atipici”, di lavoro autonomo e di lavoro sommerso. […] E ritorna anche il dibattito classico degli anni Settanta: la politica delle riforme. Una politica economica che non si muova solo in funzione di compatibilità finanziarie, ma che provveda a una politica di più lungo respiro, assicurando coesione sociale e stabilità politica».
In questo quadro di crescente precarietà le donne arrivano a toccare una percentuale di disoccupazione nel Centro-Sud Italia pari al 67% della popolazione totale.
Nella zona nord della provincia di Roma, in un paese di 15.000 abitanti, vive il gruppo di donne senza occupazione che animerà la nostra storia. Il 90% di costoro è in possesso di un diploma di scuola media superiore, il 10 % di una laurea, la loro età è compresa in una fascia che oscilla tra i ventisei ed i trentacinque anni, sono tutte coniugate, il 90% con figli, di cui il 20% con disabilità.
Queste donne decidono di fronteggiare la crisi occupazionale che le ha coinvolte, costituendo una Cooperativa che ha per oggetto l’apertura sul territorio di un asilo nido.
Le donne si conoscono già, molte di loro condividono la vita scolastica dei propri figli, altre la vita delle organizzazioni o movimenti in cui militano da tempo, altre la vita affettiva iniziata durante il periodo dell’adolescenza e proseguita poi negli anni.
Nella loro vita quotidiana hanno occasione di incontrarsi spesso, alcune volte occupano lo stesso campo di esperienza, all’interno del quale accolgono le diverse conoscenze, si misurano sulle rispettive esperienze, si arricchiscono delle altrui competenze, si sfidano anche. Altre volte i rispettivi mondi personali si scontrano, i confini lambiscono, si smagliano, si lacerano, tanto da scoprirsi, in molte occasioni sconosciute, straniere. Sono quei momenti in cui le donne devono districarsi nella distribuzione di appartenenze, che, in alcune occasioni, sono complementari in altre competitive, e dosare in quali circostanze occorre essere più genitore e meno soggetto impegnato politicamente, quando più lavoratore e meno intellettuale, ed imparare, quindi, ad affinare la propria specificità all’interno di una società. Sono quei momenti in cui le persone sentono tuonare dentro se stesse la loro caratteristica appartenenza, che all’inizio sfugge al loro impacciato agire, ma che poi, con il tempo, imparano a maneggiare. Ѐ in gioco il perfezionamento della propria pratica politica.
«Per importanza e riconoscibilità, viene al primo posto la pratica del partire da sé. Significa che la parola si usa, e la politica si fa, non per rappresentare le cose, né per cambiarle, ma per stabilire o per manifestare o per cambiare un rapporto tra sé e l’altro da sé. O anche tra sé e sé, nella misura in cui l’alterità attraversa l’essere umano nella sua singolarità. In altre parole, la pratica del partire da sé presuppone che ogni dire o fare sia una mediazione, e impone di mettere bene in chiaro quello che lì si gioca dalla parte del soggetto. Per smascherarlo? Sì, in caso, ma anche e soprattutto per liberare le sue energie, spesso frenate da rappresentazioni fasulle e progetti sforzati. In questo modo, secondo noi, è possibile stare disponibili alla realtà che cambia».
Così, queste 10 donne partono da se stesse, dai propri background variegati, dalle diverse esperienze lavorative, dai propri specifici vissuti per riconsiderare il futuro possibile, dall’ontologico al teleologico, attraverso la pratica, quello spazio intermedio in cui si usa tutto ciò che si ha, se si ha.
«Il termine “avere” viene usato in molte accezioni:
In un senso vuol dire “ridurre sotto la propria natura” o “sotto il proprio impulso”, e perciò si dice che la febbre “ha” in suo possesso l’uomo, e i tiranni “hanno” in loro possesso le città, e quelli che indossano un vestito “hanno” il possesso di quel vestito […].
Infine, l’espressione “essere in una data cosa” viene usata in somiglianza e in corrispondenza col termine “avere”».
«Pertanto, se un medesimo oggetto è materia ed entelecheia, esso sarà, presso a poco, come una parte in relazione con il tutto […] c’è invece comunanza di natura, qualora entrambe diventino una medesima cosa in atto».
Impiegando tutto ciò di cui dispongono, dal simbolico al concreto, esse cercano di bloccare questo continuo peregrinare, dalle supplenze in scuole pubbliche, alle aziende di servizi, dalle attività commerciali, agli studi professionali, dalla cura alle persone anziane presso famiglie, ai servizi dopo-scolastici ai bambini, dai soggiorni estivi per ragazzi, al mestiere di commercio ambulante, quindi da una qualifica all’altra, da un trattamento economico all’altro, da un tipo di precariato all’altro, cercando di diventare una realtà economica che sappia resistere ai colpi del presente.
Si incontrano più volte con il commercialista, l’avvocato, il proprietario dello stabile, il responsabile dell’ufficio commercio del Comune, il responsabile di distretto del servizio sanitario, per ottenere informazioni, approfondire questioni, e seguire i giusti parametri nel definire gli accordi, quest’ultimi accompagnati da una quantità infinita di firme, documenti, fotocopie, marche da bollo, certificati, a cui potranno seguire, finalmente, i contratti.
Altrettante riunioni occorreranno per compilare il progetto pedagogico ed il programma didattico dell’asilo nido. Ore ed ore verranno dedicate alla cura delle finalità, alla definizione delle priorità formative e culturali che dovranno accompagnare le attività delle insegnanti e di tutto il personale della struttura.
Furono occasioni di entusiasmo e di tremore, di acquisizioni e di abbandono, di progressivo orientamento e di sconsolato smarrimento. Si trattava di praticare tutte quelle svariate e bizzarre esperienze legate ad una crisi da affrontare.
Nel settembre del 1990 le donne imprenditrici aprono i battenti e presentano questo particolare microcosmo economico alla città.
La nozione di campo, utilizzata per la prima volta da Bourdieu nel 1966, ci permette di comprendere ed analizzare gli aspetti simbolici di questo caso sociologico. «Pensare in termini di campo – spiega subito Bourdieu – significa pensare in maniera relazionale. […] In termini analitici, un campo può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni. Queste posizioni sono definite oggettivamente nella loro esistenza e nei condizionamenti che impongono a chi le occupa, agenti o istituzioni, dalla loro situazione (situs) attuale e potenziale all’interno della struttura distributiva delle diverse specie di potere (o di capitale) il cui possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo, e contemporaneamente dalle posizioni oggettive che hanno con altre posizioni (dominio, subordinazione, omologia). Nelle società fortemente differenziate, il cosmo sociale è costituito dall’insieme di questi microcosmi sociali relativamente autonomi, spazi di relazioni oggettive in cui funzionano una logica e una necessità specifiche, non riconducibili a quelle che regolano altri campi».
Questa piccola impresa costituì un fatto specifico per le socie stesse e per la città.
Cominciamo dal primo punto.
Tutte le donne avevano conosciuto solo il lavoro di tipo dipendente, quindi i tempi, il linguaggio, i riti, la retribuzione, le qualifiche, erano stati scanditi da un accordo lavorativo precedente ben definito, delineato e specificato dal particolare rapporto che legava il lavoratore al datore di lavoro, un patto economico subordinato, cristallizzato all’interno di parametri e criteri generali, che ora dovevano abbandonare.
La nuova occupazione imprenditoriale richiedeva la riconsiderazione di tutti quegli elementi già conosciuti, ed in più di praticare un agire personale e collettivo diverso, di riesaminare la propria cultura in una nuova prospettiva organizzativa che non parlava più di assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro, né di istruzioni esecutive da seguire nell’attività lavorativa, ora tutto ciò che si sceglieva e si metteva in atto dipendeva da scelte proprie, autonome, libere.
La rottura e la ricostruzione accompagneranno tutto il percorso economico, culturale e sociale di questo microcosmo che tenta di guidare il passaggio dalla condizione di disoccupazione subìta ad una occupazione agìta.
La condizione economica generale le aveva costrette a riconsiderarsi più e più volte. Un’altra nuova le obbligava a rinominarsi, e malgrado la situazione precedente le facesse vivere in uno stato di perenne ansia, quella attuale le stava gettando in uno ancora più terrifico. Ma fu necessario fare il salto.
Il primo a dare un’esauriente analisi di “Necessario” è stato Aristotele. Egli ha distinto: «a) Necessario si dice ciò senza di cui, come concausa, non è possibile vivere: per esempio, la respirazione e il nutrimento sono necessari per l’animale. […] Necessarie si dicono le cose senza le quali non è possibile che vi sia o si produca ciò che è buono, per esempio, bere il farmaco […], navigare […] per assumere i beni materiali; […] b) inoltre, ciò che è costretto e la costrizione, e questo costituisce un impedimento all’inclinazione e alla scelta deliberata ed è atto ad ostacolarle; […] c) inoltre ciò che non può essere in modo diverso diciamo che è necessario che sia così».
Lo fecero.
Ma da considerazioni nacquero altre considerazioni.
Tra la condizione di dipendenti di altri e quello di imprenditrici di se stesse, c’era stato un tempo intermedio, uno spazio vuoto, il più difficile da nominare, in cui si saggia lo sgomento di esser appartenuti ad una parte e poi dover appartenere all’altra, in cui si osserva l’abbandono di una condizione senza intravedere la composizione dell’altra, quello spazio entro il quale l’essere umano entra dentro se stesso e comincia a dialogare con la propria natura:
«Solo la tendenza è l’unità del concetto e del suo oggetto, e in questo modo l’oggetto non è più contingente né il concetto generale. Sembra però che tutte queste precisazioni sul metodo non riescano ad evitare l’impasse cui sembra destinato. Infatti il misto deve essere diviso in due tendenze: ma le differenze di proporzione interne al misto stesso non ci dicono come potremo trovare queste tendenze, quale sia la regola di divisione. E inoltre, quale delle due tendenze sarà quella giusta?».

Si trattava di capire cosa prendere dentro di sé e cosa lasciare fuori, cosa già c’era e cosa occorreva mettere, si trattava di riordinare la propria dimora e nello stesso tempo riconoscersi. Si trattava di lacerazione o di ricostruzione? Quelle donne avevano bisogno di un’occupazione stabile, dovevano riempire un campo anagrafico nei loro documenti identificativi: la professione. Quello spazio vuoto doveva essere animato da un nome. Era una necessità ontologica ma anche sociale. Le persone hanno l’esigenza di occupare spazi per nominarsi: nominare le proprie azioni, le proprie conoscenze e competenze, le proprie regole e gusti, la propria cultura e politica, il proprio linguaggio e le proprie parole. Hanno bisogno di nominarsi per stabilire relazioni con i mondi che le circondano, per abitare campi che loro appartengono.
In queste occasioni il “traslocare” deve essere esperito delicatamente, il vasellame deve essere incartato con solerzia, le carte da portare con sé protette ben bene, gli abiti démodé à l’abandon, il mobilio adatto alla nuova casa rivestito con premura, insomma sono quelle occasioni in cui i passaggi tra il passato ed il futuro devono essere interagiti con delicata cura. Nella vecchia casa rimbomba l’ultimo “abbiamo preso tutto?” e nella nuova “dove mettiamo questo?”, e l’intervallo, apparentemente solo teorico, che prende vita tra un’esperienza e l’altra, che sembra non avere significato, in realtà è ricco di azioni che aggiustano il passato e modellano il futuro, uno iato attivo che entra in modo preponderante nel gioco temporale della pratica vissuta.

«L’effetto di reificazione della teoria, che produce la conversione del politetico in monotetico, non si esercita mai così intensamente come quando è applicato a pratiche che si definiscono in base al fatto che la loro struttura temporale, cioè il loro orientamento e il loro ritmo, è costitutiva del loro senso: qualsiasi manipolazione di tale struttura, inversione, accelerazione o rallentamento, fa loro subire una destrutturazione, irriducibile all’effetto di un semplice cambiamento di asse di riferimento».
Queste donne cominciarono così a rendere pratico quell’intervallo, che chiamarono Asilo nido Raggio Verde.
In un caldo agosto del 1990, tra pareti color pastello, porte imbiancate a nuovo, cartoni carichi di giocattoli, amici volenterosi che tagliano le erbacce fuori nel giardino, cominciano ad occupare quella nuova abitazione, iniziano ad abituarsi a quello sconosciuto stabile in cui ripongono tanta sperata stabilità e così, piano piano, «l’action devient plus libre et plus prompte, elle devient davantage une tendance qui n’attende plus le commandement».
Antonia, una delle socie della Cooperativa, risponde così in un’intervista apparsa su L’arcobaleno, un periodico locale: «Sono diversi anni che presto servizio nelle scuole materne pubbliche…certo lo stipendio è sicuro, ma sono stanca di stare ad aspettare e cambiare continuamente scuola, spero con le colleghe della Cooperativa di costruire un’attività che duri, mi piace tanto il mio lavoro, vorrei poterlo fare».
A settembre cominciarono la loro avventura di imprenditrici senza saper bene neanche di cosa realmente si trattasse, cominciarono e basta. Forse le avrebbe aiutate il loro buon senso, oppure la loro passata esperienza come lavoratrici, o quella di madri, forse quella politica, oppure le avrebbe aiutate la fiducia che avevano riposto in loro le persone che le conoscevano, le relazioni affettive, la loro cultura, il loro carattere, la loro forza, o forse il loro essere stanche di avere un datore di lavoro da cui dipendere, il loro stile di vita, il loro habitus, la loro paura e la loro voglia di vivere, le loro regole…
Forse, di tutto quest’insieme di osservazioni che noi facciamo esternamente, loro faticarono a razionalizzarle, a rendersene coscienti, poiché l’unica coscienza che possedevano era il bisogno di avere un lavoro, questa tendenza forte e preminente che si faceva spazio tra le altre.
«Quando non ho denaro per viaggiare, non ho nessun bisogno, cioè nessun bisogno reale e realizzantesi di viaggiare. Se ho una certa vocazione per lo studio, ma non ho denaro per realizzarla, non ho nessuna vocazione per lo studio, cioè nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera».
Ma Bourdieu ci aiuta a capire che pur non essendoci una possibilità vera di soddisfare questo bisogno, cioè di realizzare la riuscita, per queste donne, di una occupazione stabile, duratura, «le pratiche possono risultare oggettivamente aggiustate alle possibilità oggettive – poiché tutto avviene come se la probabilità a posteriori o ex post di un avvenimento, che è conosciuta a partire dall’esperienza passata, comandasse la probabilità a priori o ex ante che le è soggettivamente attribuita – senza che gli agenti procedano al minimo calcolo e persino a una stima più o meno cosciente delle possibilità di riuscita».
I giorni passavano e l’attività dell’asilo Raggio Verde si intensificava, erano tutti al lavoro, le insegnanti, il personale ausiliario, la cuoca e la segretaria, ognuno operava all’interno di quel microcosmo come se l’avesse sempre fatto. La segretaria telefonava alla tipografia affinché preparasse le locandine per la pubblicità, la cuoca spuntava la lista dei prodotti da acquistare necessari per preparare il pranzo ai bambini, il personale ausiliario si preoccupava di fare gli ultimi acquisti che riguardavano gli arredi, il materiale didattico e la cancelleria, le insegnanti accoglievano i genitori ed i loro bambini che venivano a visitare l’asilo in vista di future iscrizioni. Il tutto iniziava alle 07.00 del mattino e finiva alle 19.00.
Erano previsti due turni lavorativi di 6 ore per le insegnanti mentre il resto del personale aveva un orario ridotto. Un aspetto estremamente importante risultò essere lo scambio di informazioni sull’andamento della giornata tra un gruppo di lavoro e l’altro. Tutti coloro che facevano parte dell’asilo dovevano possedere complete ed esaustive notizie sullo sviluppo degli avvenimenti che coinvolgevano il personale e la vita scolastica dei bambini, soprattutto quelle che riguardavano nello specifico l’attività dei piccoli ospiti. I genitori li lasciavano la mattina e li rivedevano nel tardo pomeriggio, una lontananza di otto, nove ore al giorno, e quindi quando tornavano a prenderli erano assaliti dall’ingordigia di conoscere tutto ciò che i loro piccoli avevano vissuto senza di loro.
Stabilire un clima affettivo e di fiducia fu essenziale. Accogliere i bambini al mattino ed insieme a loro percorrere le tappe di una possibile, serena giornata, che racchiudeva la pappa e il gioco, il cambio del pannolino e il litigio per un carillon, i primi passi ed i primi morsi scambiati tra compagni, i traguardi raggiunti e le sconsolate sconfitte, richiedeva capacità, conoscenze, attitudine e disposizioni particolari.
Si trattava di un mestiere molto delicato che maneggiava materiale estremamente fragile.
Accanto a questo c’era anche tutto un sofisticato operare che riguardava la gestione dei rapporti all’interno del gruppo, che andava garantito al fine di permettere il buon andamento di tutte quelle attività che erano necessarie alla particolare organizzazione del lavoro. Un’organizzazione fondata sul lavoro di gruppo, non solo nella fase progettuale, ma anche in quella operativa. In realtà la particolarità del nido, rispetto alle altre istituzioni educative e alla scuola, è determinata dalla totale e permanente vita in gruppo degli adulti, oltre che dei bambini. Nel nido non vi erano porte chiuse, tutti i compiti, gli interventi, i comportamenti erano “controllati” da tutte le colleghe, quindi era richiesta capacità di mediazione, il “sapersi rapportare a”, di coordinare il movimento del proprio corpo con quello dell’altra insegnante, come dire, di seguire lo stesso tempo e lo stesso ritmo, di “ballare la stessa musica” durante le attività. Per questo le insegnanti ruotavano all’interno dei turni. Questa duttilità permetteva uno scambio circolare di conoscenze pedagogiche, psicologiche, emotive, culturali in grado di fornire strumenti per vivere in un asilo nido.
Viene da chiedersi come e dove quel gruppo imparò la τέχνη di quella attività, sino ad allora ad esso sconosciuta?
E quella inusitata πρα̃ξις…?
Certo le scuole frequentate ed i titoli statali ottenuti rappresentavano il sostegno epistemico, teorico di un operare, ma di quale inesplorato uso si trattava?
«L’uso è l’attività basilare da cui scaturiscono tanto la produzione (poiesis) che l’azione politica (praxis). Poiché è la radice di entrambi esso non può essere equiparato all’uno o all’altra. Suo tratto peculiare è l’indistinzione di poiesis e praxis, o anche, ma è lo stesso, la loro inestricabile mescolanza. […] Ebbene, nell’uso di un terreno o di una informazione, la techne è sempre intrisa di saggezza e la phronesis di tecnica».
Tutto l’agire di quel microcosmo procedeva come se ogni atto fosse scandito da un uso consueto dei propri corpi e dei propri linguaggi, e dalla mescolanza degli uni con gli altri.
L’interagire quotidiano, il costruire strategie aziendali possibili, il proliferare di riti, gesti, mansioni, il far fronte agli imprevisti, gli inciampi, i dialoghi, appartenevano ad una rappresentazione in cui l’allestimento scenico, la regia e l’interpretazione potevano apparire ad uno spettatore imberbe come il frutto di una pièce messa in scena da una navigata compagnia, di un habitus costruito dall’esperienza.
Era così?
«Nei suoi primi scritti, Bourdieu paragona l’habitus alla grammatica generativa di Noam Chomsky […] per sottolineare “le capacità attive, inventive e ‘creatrici ’”. […] Il confronto tra la grammatica generativa e l’habitus risulta del tutto inadeguato se si considera la premessa di Chomsky, che Bourdieu critica, secondo cui ogni soggetto parlante produce la grammatica specifica della propria lingua sulla base di una grammatica universale innata. Bourdieu, considerando l’habitus non come congenito, ma come costruzione dipendente dall’esperienza, assume la posizione opposta al postulato di Chomsky. Evidentemente è un altro aspetto della grammatica generativa che interessa a Bourdieu e che si può in effetti estrapolare dalla costruzione di Chomsky: i soggetti agenti dispongono di un sistema di strutture generative in grado di creare infiniti enunciati. Grazie a tali sistemi di produzione, le strutture generative sono in grado di reagire ad ogni possibile situazione e di creare sempre nuovi enunciati doppiamente adeguati: alla situazione e al soggetto parlante. […] Nell’ambito dell’habitus fondato sull’esperienza, del senso pratico, e dell’agire sociale, Bourdieu, rifacendosi ad Aristotele, rifiuta la separazione netta tra psichico e fisico. Il corpo, così come la lingua, funziona come una cosa attiva nella creazione di tutti quegli atti individuali, sempre vari e rinnovabili, che costituiscono la prassi sociale».
Quindi queste dieci donne erano riuscite a passare da una situazione sociale, economica, culturale ad un’altra grazie al loro sistema di disposizioni acquisite con la pratica e orientate verso le pratiche; grazie al loro habitus creativo ed ingegnoso incorporato, che ha funzionato come operatore di produzione della loro storia, sono potute entrare in un ‘gioco’ adeguando la propria vita al gioco, in accordo con gli altri giocatori dello stesso campo sociale, senza neanche conoscere bene le particolari regole di quel gioco, le mosse, gli spostamenti, le direzioni, ma solo guidate da un agire partecipato, solidale e da un sapere dinamico.
Ora estremamente interessante è comprendere le reazioni che suscitò questo particolare microcosmo nella città.
Come abbiamo già detto, sino al 1990 non esisteva nessuna struttura, pubblica o privata, per l’infanzia 0-3 anni, l’Asilo nido Raggio Verde fu il primo nido privato della città, gestito da sole donne. Da pochi anni l’amministrazione comunale aveva attivato delle sezioni di scuola materna, da decine di anni i vari istituti religiosi gestivano le proprie, entrambi non erano riusciti, nel tempo, ad avviare un servizio rivolto a bambini più piccoli.
Nel caso in cui i genitori lavoravano entrambi nasceva il problema di dove lasciare i propri figli, e cercavano di risolverlo affidandoli ai nonni, alle babysitter, oppure, qualora si trattasse di lavoratori pendolari, agli asili nido della città dove andavano a lavorare.
Pochi cittadini, quindi, sapevano come fosse organizzato un asilo nido, che tipo di attività lo caratterizzasse, che tipo di didattica lo regolasse e quali obiettivi cognitivi, affettivi, sociali si prefiggesse. Per molti era un mondo sconosciuto, ignorato, che ritenevano forse non necessario né alla famiglia, né alle donne, né ai bambini; per altri era un’opzione politica da trascurare, poiché il modello asilo nido non rispondeva a traguardi scientifici/pedagogici, vista la “discriminazione” in cui si trovava lo sviluppo etico, sociale, affettivo e la padronanza cognitiva del bambino zero-tre anni. Ciò di conseguenza faceva precipitare la figura dell’educatore in quel groviglio di interpretazioni approssimative che lo spogliavano di qualsiasi professionalità educativa. Era un assistente, un animatore culturale, una tata, una nuova mamma, una giovane nonna, insomma tutto fuorché una persona capace di pratica formativa.
In un contesto culturale di questo tipo le nuove imprenditrici impiegarono molte energie e tempo a far conoscere la propria attività nella città e nel comprensorio.
Partirono prima con il sistema più semplice ed immediato, quello della pubblicità via radio e carta stampata, poi con inviti rivolti agli amministratori comunali, ai funzionari delle unità sanitarie locali, ai giornalisti locali, ai presidenti di organizzazioni economiche che offrivano servizi alle famiglie, ai minori ed ai disabili, al fine di far “praticare” gli spazi dell’asilo nido, dotati di particolari qualità quali piccolo, basso, colorato, morbido, aperto, di permettere loro di fare esperienza di figure professionali come gli operatori di asilo nido, “attrezzati” di quello specifico linguaggio educativo, affettivo e corporeo che doveva sostenere, modulare, accompagnare la loro pratica.
Questo agire fu seguito da feste, incontri, tavole rotonde con le famiglie che avevano bambini neonati. Era importante per gli operatori comprendere i loro pensieri sul concetto di asilo nido, scoprire quali fossero le loro ansie, le loro esigenze, le loro reticenze. A tale scopo fu redatto e somministrato un questionario in forma anonima, le cui risposte avrebbero potuto diventare fonti di idee e riflessioni da poter utilizzare in futuro all’interno del loro modo di operare.
Dall’analisi delle risposte l’esigenza che maggiormente spiccò, tra le altre, fu quella di poter lasciare i propri bambini in “mani sicure”, un’esigenza apparentemente banale, ma che, forse, poteva essere tradotta come una richiesta, da parte dei genitori, di maggiore cura, attenzione e preparazione del gruppo educativo che avrebbe dovuto occuparsi della gestione pedagogica e didattica delle giornate dei loro bimbi all’interno dell’asilo.
Come fornire loro maggior sicurezza e affidabilità? E come potevano gli operatori acquisirne abbastanza da potergliela offrire?
L’équipe della Cooperativa, pensò che, forse, il modo migliore sarebbe stato quello di farsi aiutare, per gli aspetti legati al campo affettivo ed emotivo, da figure professionali quali psicologi e pedagogisti, che avrebbero potuto sostenere e guidare la loro acerba pratica professionale. Decisero così di contattare scuole di formazione per adulti in convenzione con la Provincia di Roma, che possedevano all’interno del loro ventaglio di proposte formative quelle giuste per loro. Riuscirono ad ottenere la possibilità da parte dell’Ente provinciale di seguire diversi corsi di aggiornamento per operatori di asilo nido. Queste esperienze formative permisero a tutte, insegnanti, cuoca, segretaria, assistenti pedagogiche, di acquisire maggiori conoscenze legate al fare ed agire nell’ambito delle relazioni tra adulti e tra questi ed i bambini.
«Termini come positività delle relazioni interpersonali, superamento di conflitti, fiducia, disponibilità, liberazione da stati di angoscia, coinvolgimento, empatia, disponibilità, collaborazione, linguaggio verbale e non verbale, complesso di Edipo, diversità, amore, e tante altre, divennero quegli utili attrezzi da utilizzare per saperci meglio orientare nell’universo educativo e pedagogico in cui il nostro nuovo lavoro ci stava conducendo», mi racconta Olga, un’insegnante della Cooperativa Raggio Verde, in uno dei tanti colloqui che hanno accompagnato e permesso la conoscenza di questa particolare storia lavorativa.
E continua: «Abbiamo pensato che sarebbe stato utile conoscere anche altre realtà che gestivano asili nido, così contattammo una Cooperativa di Frascati e stabilimmo con il presidente di poterci recare nella loro sede una volta alla settimana, per vedere come era organizzata la loro attività. Fu un’esperienza che durò diversi mesi, imparammo molto da quel gruppo di lavoro, erano insieme da molti anni, il loro presidente era un pedagogista, una persona molto disponibile e generosa che ci permise di osservare, proporre ed interagire, all’interno delle attività che si svolgevano nell’asilo nido. Lo scopo che ci prefiggemmo fu quello di stabilire un nesso di continuità tra fra i temi affrontati nelle lezioni teoriche dei corsi e la situazione vissuta in questo collettivo, fu un proficuo corso di aggiornamento che ci fornì validi esempi da seguire e pratiche da imitare».
Furono occasioni di scambio culturale e di crescita all’interno del gruppo, un capitale simbolico che arricchì chi lo acquisì e avrebbe potuto arricchire l’ambiente che lo circondava.
Ma quest’ultimo lo valutò come una risorsa da utilizzare come bene della comunità cittadina o lo considerò un microcosmo da marginalizzare? E perché? Problemi di forza di campo e anche di generazione di un modus operandi che non fu compreso subito.
«Così a causa dell’effetto di hysteresis che è necessariamente implicato nella logica di costituzione dell’habitus, le pratiche sono sempre esposte alla possibilità di ricevere delle sanzioni negative […] quando l’ambiente cui si confrontano realmente sia troppo distante da quello a cui sono oggettivamente adattate».
La città faticò a comprendere il prodotto di quel gruppo sociale, ci volle del tempo perché riuscisse ad avvicinare e praticare quella comunità che si era costituita liberamente e in modo del tutto originale.
Il tempo passò e si stabilì una relazione positiva tra la Cooperativa Raggio Verde e la città. Le famiglie si affidarono alla sua pratica, e il suo agire, inizialmente colto come inconsueto, fu riconosciuto e incorporato come capitale del campo sociale di quel piccolo paese di provincia e il suo racconto, irrompente ed imprevedibile, alla fine fu compreso.
Fu necessario quel tempo in cui «tutto avviene come se la ritualizzazione delle interazioni avesse l’effetto di dare tutta la sua efficacia sociale al tempo, che non agisce mai così fortemente come nei momenti in cui non succede niente se non il passare del tempo: il tempo, si dice, lavora per lui».

Elaborato d’esame per il corso di Filosofia politica tenuto dalla Professoressa Federica Giardini, Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2014-2015

Elaborato completo di note: Un abito nuovo