Rossana De Angelis – Una lingua “non sessista”. Sugli usi linguistici non-ragionevoli e sul tentativo di correggerli

Rossana De Angelis – Una lingua “non sessista”. Sugli usi linguistici non-ragionevoli e sul tentativo di correggerli

Rossana De Angelis 

 

Introduzione

Il modo in cui le istituzioni parlano delle persone che comprendono spesso restituisce l’immagine di un uso irragionevole della lingua. Ma può una lingua essere «ragionevole»? Affronteremo questo problema osservando la relazione fra la lingua considerata un’istituzione senza analoghi, così come viene definita da Ferdinand de Saussure in un manoscritto conosciuto come «Note Whitney»[1], e le altre istituzioni che strutturano, insieme alla lingua, l’ambiente culturale in cui vive il soggetto parlante. Ci interrogheremo, quindi, sulla (non) ragionevolezza degli usi linguistici e ci soffermeremo, in particolare, sul tentativo di sostituire a quelli correnti, considerati sessisti, usi linguistici «non sessisti». La domanda iniziale si trasforma, quindi, nelle formulazioni che seguono: è possibile passare da un «uso sessista» a un «uso non sessista» della lingua? E cosa vuol dire «correggere» l’uso linguistico? Vedremo, allora, se questa possibilità sia contemplata dalla lingua ed eventualmente quale sia il margine di «correzione» tollerato dal sistema linguistico.

1. La lingua, un’istituzione «senza analoghi»
Per comprendere il posto che la lingua occupa rispetto alle altre istituzioni quali, ad esempio, il diritto, la politica, la religione, la moda, le tradizioni, ecc., Saussure parte dall’argomentazione di W. Whitney:

l’ensemble du langage est une institution, une œuvre collective à laquelle ont mis la main des milliers de générations et des milliards d’ouvriers (Whitney 1875: 254).

Whitney a dit : le langage est une Institution humaine. Cela a changé l’axe de la linguistique. La suite dira croyons-nous: c’est une institution humaine, mais de telle nature que toutes les autres institutions humaines, sauf celle de l’écriture[2], ne peuvent que nous tromper sur sa véritable essence, si nous nous fions par malheur à leur analogie (Saussure 2002: 211).

Pour bien faire sentir que la langue est une institution, Whitney a fort justement insisté sur le caractère arbitraire des signes […] Mais il n’est pas allé jusqu’au bout et n’a pas vue que le caractère arbitraire sépare radicalement la langue de toutes les autres institutions (Saussure [1916] 1922: 110).

Il principio di arbitrarietà del segno linguistico separa radicalmente la lingua dalle altre istituzioni (Saussure [1916] 1922: 97 ss.). Questo è uno dei principi fondamentali della teoria della lingua e del linguaggio proposta da Saussure: il legame che unisce il significante (la forma in cui si identifica la classe delle occorrenze foniche, concernente quindi la dimensione percettibile del segno) al significato (la forma in cui si identifica la classe delle occorrenze semantiche, concernente quindi la dimensione intellegibile del segno) è arbitrario, cioè non motivato; poiché si intende il segno linguisitico come l’associazione fra un significante e un significato, il segno linguistico stesso è arbitrario (Saussure [1916] 1922: 100). In virtù del principio di arbitrarietà del segno linguistico, nessuna ragione impone un certo uso linguistico piuttosto che un altro; nessuna motivazione si presuppone all’associazione tra un significante e un significato la cui relazione reciproca, e rispetto alle altre entità che formano il sistema, costituisce il segno linguistico.

Il n’y a aucun rapport, à aucun moment, entre un certain son sifflant et la forme de la lettre S, et de même il n’est pas plus difficile au mot cow qu’au mot vacca de désigner une vache. C’est ce que Whitney ne s’est jamais lassé de répéter, pour mieux faire sentir que le langage est une institution pure. Seulement cela prouve beaucoup plus : à savoir que le langage est une institution sans analogue (si l’on y joint l’écriture) et qu’il serait vraiment présomptueux de croire que l’histoire du langage doive ressembler même de loin, après cela, à celle d’une autre institution. (Saussure 2002: 211).

C’est la raison qui dicte les autres […] L’institution du mariage selon la forme monogame est probablement plus raisonnable que selon la forme polygame. Cela peut philosophiquement se discuter. Mais l’institution d’un signe quelconque par exemple s ou s, pour désigner le son s, ou bien de cow ou de vacca pour désigner l’idée de vache est fondée sur l’irraison même ; c’est-à-dire qu’il n’y a ici aucune raison fondée sur la nature des choses et leur convenance qui intervienne à aucun moment, soit pour maintenir soit pour supprimer une […] (Saussure 2002: 214).

La differenza fondamentale fra la lingua e le altre istituzioni consiste, dunque, nella (non) ragionevolezza degli usi considerati appartenenti all’istituzione considerata. Nell’ambito dell’istituzione linguistica, ad esempio, non vi è alcuna ragione per designare un cane dog piuttosto che chien. Gli usi linguistici non rispondono ad alcuna ragione, ad alcuna motivazione. Diversamente, nelle istituzioni non linguistiche, accade che alcuni usi possano essere più ragionevoli di altri. È il caso, ad esempio, come scrive Saussure, del matrimonio monogamo: certe culture piuttosto che in altre, esso può sembrare più ragionevole del matrimonio poligamo, o viceversa. Mentre gli usi propri di altre istituzioni rispondono a determinate ragioni sociali, la lingua si fonda, invece, sull’«irragione» stessa.
Per meglio comprendere la differenza fra la lingua e le altre istituzioni, e per addentrarci nel merito del nostro problema che concerne la (non) ragionevolezza degli usi linguistici, bisogna considerare anche un altro aspetto: la trasmissione delle istituzioni, linguistiche e non linguistiche. E, di conseguenza, il processo stesso di istituzionalizzazione.
Le istituzioni si affermano passando attraverso una sorta di «naturalizzazione» dell’uso, permettendo così «un adattamento spontaneo e irriflesso» all’ambiente culturale che ci circonda e in cui ci troviamo già inseriti, compiendo pratiche – linguistiche e non linguistiche – che sono apprese come abituali:

nella prassi verbale si attua un savoir faire, una tendenza all’azione istituzionale (più che alla gestione delle istituzioni pure). Abiti[3] che non sono appresi esplicitamente, e applicati in base a ragionamenti di tipo astratto e intellettualistico, ma che derivano da una sorta di razionalità pratica, da un adattamento spontaneo e irriflesso al mondo che ci circonda, ovvero, alle istituzioni di cui facciamo parte (Gambarara 2006: 228-229).

Le lingue sono i sistemi di attività in cui la componente esterna, data/sociale è più forte e ha la meglio su quella interna, volontaria/individuale […] Sono qui in gioco un sistema di norme (o creduto tale), e la credenza cosciente del portatore del sistema di essere tale, e di rivolgersi a un altro portatore di norme […] Questa condizione fortissima, che sembra costituire il discrimine dell’umano, è già in embrione nell’idea saussuriana dell’acte de parole. E se non fosse in questo, non sapremmo dove ritrovarla (Gambarara 2003: 229).

Soltanto nel momento in cui si compie il processo di istituzionalizzazione degli usi, presentandosi come abitudini linguistiche e non linguistiche, possiamo riconoscere a ciascuna istituzione la propria singolarità. Secondo le proprie specificità, possiamo distinguere, allora, fra istituzioni ragionevoli e istituzioni non ragionevoli[4]. Questa distinzione dipende, fondamentalmente, dal fatto che la lingua, a differenza delle altre istituzioni, è governata dal principio di arbitrarietà (Saussure [1916] 1922: parte I, cap. I) del segno.
Proprio in virtù del principio di arbitrarietà che la governa, la lingua può essere considerata un’istituzione non ragionevole: diciamo uomo e cane non perché ci sia una ragione per chiamare uomo un uomo e caneun cane, bensì soltanto perché prima di noi si è detto uomo e cane[5], vale a dire per l’abitudine imposta dalla trasmissione di certi usi linguistici piuttosto che altri (Saussure [1916] 1922: 108).
Le istituzioni ragionevoli, invece, come la moda, i linguaggi artificiali, il diritto, la politica, ecc. rispondono a ragioni sociali ben precise e sono soggette a determinati condizionamenti.

Les autres institutions, en effet, sont  toutes fondées (à des degrés divers) sur des rapports NATURELS, [sur une convenance entre] des choses, comme principe final. Par exemple, le droit d’une nation, ou le système politique, ou même la mode de son costume, même la capricieuse mode qui fixe notre costume, qui ne peut pas s’écarter un instant de la donnée des [ ] des corps humains. Il en résulte que tous les changements, toutes les innovations… continuent de dépendre du premier principe qui n’est situé nulle part ailleurs que au fond de l’âme humaine, [agissant dans cette même sphère] (Saussure 2002: 211 ; trascrizione rivista rispetto al Ms. fr. 3951/10, pp. 16v, 17r).

L’absence d’affinité depuis le principe entre […] étant une chose RADICALE, non une chose comportant le moins du monde une nuance, c’est par là qu’il arrive subséquemment que le langage n’est pas contenu dans une règle humaine, constamment corrigée ou dirigée, corrigeable ou dirigeable par la raison humaine (Saussure 2002: 214).

Il principio di arbitrarietà, quindi l’irragione che la governa, rende la lingua un’istituzione senza analoghi (Saussure 2002: 211), e questa distinzione diventa evidente nel momento in cui si considerano i processi di trasmissione delle lingue rispetto a quelli di altre istituzioni. La trasmissione della lingua come istituzione avviene per tramite di un’azione collettiva:

La langue est sociale, ou bien n’existe pas. La langue, pour s’imposer à l’esprit de l’individu, doit d’abord avoir la sanction de la collectivité (Saussure 2002: 298-299, corsivo nostro).

La langue est la partie sociale du langage, extérieur à l’individu, qui à lui seul ne peut ni la créer ni la modifier; elle n’existe qu’en vertu d’une sorte de contrat[6] passé entre les membres de la communauté (Saussure [1916] 1922: 31).

La collettività viene intesa sia come pluralità di individui nella forma «1+1+1+1…= I (modello collettivo)» (Saussure [1916] 1922: 38), sia come entità sovraindividuale nella forma della «massa parlante»(Saussure [1916] 1922: 112). La «sanzione della collettività», ossia il fatto che tutti dicano uomo e cane per parlare dell’uomo e del cane, è ciò che consente l’istituzionalizzazione degli usi linguistici e, quindi, il riconoscimento di certi usi linguistici come appartenenti a quella particolare istituzione linguistica. La «sanzione della collettività» sopperisce, infatti, alla mancanza di ragionevolezza degli usi linguistici: mentre le altre istituzioni come, ad esempio, il diritto, la politica, ecc., si reggono sulla ragionevolezza degli usi che, proprio perché ragionevoli rispetto all’ambiente culturale di riferimento, vengono reiterati attraverso azioni individuali conformi alle istituzioni stesse, l’istituzione linguistica si regge, invece, sulla sola abitudine a certi usi linguistici piuttosto che altri.

C’est parce que le signe est arbitraire qu’il ne connaît d’autres lois que celle de la tradition, et c’est parce qu’il se fonde sur la tradition qu’il peut être arbitraire (Saussure [1916] 1922: 108).

Prima che possa riconoscersi nella reciprocità dell’acte de parole, una lingua subisce, quindi, un processo d’istituzionalizzazione che si compie nel momento in cui certi usi linguistici subiscono una «sanzione della collettività»: se tutti dicono uomo e cane, allora questi usi linguistici possono rientrare nella lingua intesa come istituzione. La «sanzione della collettività» permette di riconoscere certi usi linguistici come usi correnti, abituali, e, quindi, propri di quella istituzione linguistica. L’azione istituzionale conforme all’istituzione linguistica corrisponde, perciò, all’«adattamento spontaneo e irriflesso» del soggetto parlante alle pratiche linguistiche già in uso nella propria comunità linguistica.
Possiamo riconoscere, allora, una grande differenza fra ciò che avviene nella lingua, istituzione «senza analoghi» proprio perché non ragionevole, e ciò che accade nella altre istituzioni. Infatti, mentre nelle istituzioni non linguistiche è possibile riconoscere le ragioni e le motivazioni che reggono certi usi, non è possibile trovare alcuna ragione né motivazione negli usi linguistici: ciò implica che, mentre nelleistituzioni ragionevoli ci si può mettere d’accordo in merito a certi usi (ad esempio, si può supportare oppure ostacolare il matrimonio secondo la forma monogama o poligama poiché risponde a ragioni sociali ben precise), non ci si può mettere d’accordo, invece, sulle pratiche linguistiche perché gli usi linguistici non rispondono ad alcuna ragione né motivazione. Da ciò consegue che non è possibile addurre ragioni e motivazioni per supportare oppure ostacolare certi usi linguistici. Infatti, ci si trova già sempre d’accordo[7] sugli usi linguistici, cioè sul fatto che si dica uomo e cane, dal momento in cui i soggetti parlanti si adattano in modo «spontaneo e irriflesso» all’ambiente linguistico nel quale vivono.
Affinché possano entrare a far parte di una certa istituzione linguistica, gli usi linguistici nuovi e/o diversi rispetto a quelli correnti devono subire la «sanzione della collettività» che sola ne garantisce l’istituzionalizzazione. Riconosciuti nell’ambito dell’istituzione linguistica come usi correnti, i nuovi e/o diversi usi linguistici possono, quindi, essere oggetto di trasmissione. La «sanzione della collettività» è, infatti, la sola responsabile della trasmissione delle lingue, tanto nella ripetizione quanto nell’innovazione (Saussure [1916] 1922: parte I, cap. II).
Tuttavia, la reiterazione del processo di istituzionalizzazione non concerne solamente la lingua, ma tutte le istituzioni in generale. L’insieme delle diverse istituzioni, fra loro interrelate, costituisce l’ambiente culturale nel quale si svolge ogni azione umana e attraverso cui si compie l’adattamento alle istituzioni stesse:

la predisposizione alla socialità è ciò che rende prassi l’azione dell’uomo, da subito sempre bisognose di una ratificazione della sua comunità. Qui finalmente quella misura perduta nel rapporto con l’ambiente, la ritroviamo nel costante commisurare la nostra azione individuale a quella degli altri. Tale metro non può essere a priori, né guadagnato una volta per tutte, ma, come uno scandaglio autoconfigurante, esso deve rilevare i continui scarti nello spazio e nel tempo tipici della socialità storica: l’istituirsi di sempre nuove e sempre contingenti forme di accordo collettivo. (Gambarara 2006: 225).

La pratica linguistica individuale non può essere decisa né a priori, né una volta per tutte, ma il soggetto parlante deve continuamente rinegoziarla all’interno della propria comunità linguistica. Questa attività di negoziazione concerne contemporaneamente la relazione del soggetto parlante all’istituzione linguistica, a sua volta in relazione con le altre istituzioni, e la relazione fra l’azione del soggetto parlante e quelle altrui. L’azione linguistica individuale deve passare, allora, la prova della «sanzione della collettività» per essere istituzionalizzata e deve essere negoziata, di volta in volta, rispetto all’istituzione linguistica e all’azione linguistica degli altri soggetti parlanti[8].

Que le langage soit, à chaque moment de son existence, un produit historique, c’est ce qui est évident. Mais qu’à aucun moment du langage, ce produit historique représente autre chose que le compromis (le dernier compromis) qu’accepte l’esprit avec certains symboles, c’est là une vérité plus absolue encore, car sans ce dernier fait il n’y aurait pas de langage (Saussure 2002 : 209 ; trascrizione rivista rispetto al Ms 1951, 14recto).

Considerata la lingua come istituzione «senza analoghi» e presentata nella sua specificità rispetto alle altre istituzioni, collocata la posizione dei soggetti parlanti rispetto all’istituzione linguistica e chiarita la questione della (non) ragionevolezza degli usi linguistici, possiamo ora affrontare il problema posto dal tentativo di corregge gli usi linguistici. Date queste premesse teoriche e assunto che gli usi linguistici non si reggono su alcuna ragione né motivazione, è quindi possibile correggere gli usi linguistici al fine di fare della lingua un uso ragionevole? Un caso particolare illustra bene questo problema: quello delle politiche volte alla «femminizzazione» degli usi linguistici al fine di fare della lingua un «uso non sessista».

2. Correggere l’uso. Politiche per una lingua «non-sessista»
Come sostiene Niedzwiecki nell’introduzione al numero dei Cahiers de Femmes d’Europe[9] dedicato al tema «Donne e linguaggio», in cui sono pubblicati i risultati di un’inchiesta commissionata dal «Comitato europeo per l’uguaglianza fra uomini e donne»[10], l’uso della lingua storico-naturale osservato e analizzato in tredici paesi diversi[11] «è giudicato sessista e discriminatorio verso le donne, per la presenza, o il cumulo, di certi parametri, fra i quali […] la perdita del nome proprio per le donne sposate, l’uso generico del maschile, che si tratti della specie umana, dei gruppi sociali, dei nomi di mestieri, professioni, funzioni, titoli, gradi» (Niedzwiecki 1993 : 73, trad. mia). Parallelamente, come antidoto all’uso sessista della lingua, in questi stessi paesi si cerca di eliminare «ogni sessismo linguistico» attraverso diverse misure parlamentari, governative, amministrative, sindacali, associative, «sottoforma di decreti, leggi, direttive, circolari ministeriali, rapporti di studio, raccomandazioni, politiche da seguire» (Niedzwiecki 1993 : 74, trad. mia).
Una nuova ortografia viene, allora, raccomandata in occasione del Primo simposio internazionale sul sessismo linguistico[12]. Il tentativo è, infatti, quello di tradurre, attraverso una nuova ortografia, la dimensione femminile negli usi linguistici. Come viene mostrato in questa occasione, l’uso del termine «auteure» come femminile di «auteur» è soltanto un esempio dello sforzo compiuto per «fare menzione espressamente del femminile laddove manca, in francese, in forza della “regola di presidenza del maschile”» (Niedzwiecki 1993 : 3, trad. mia). Secondo Niedzwiecki, infatti, «nella lingua come nella realtà sociale, le donne diventano trasparenti, occultate, inesistenti, invisibili, e si intima loro indirettamente di tacere[13]. È due volte il caso dei nomi di mestieri o titoli e funzioni, quando si applicano alle donne dei termini puramente ed esclusivamente maschili» (Niedzwiecki 1993 : 5, trad. mia).
L’8 marzo 1982, con il discorso del Presidente François Mitterand all’Eliseo in occasione la prima celebrazione ufficiale della Giornata internazionale delle donne (Les Femmes en France. Un chemin, deux étapes. 1975-1985), la questione della designazione delle professioni e delle funzioni svolte dalle donne entra nel dibattito politico francese[14]. Il problema posto dal Presidente concerne l’accordo del termine al femminile del termine «ministro».
Come ricorda Baudino (2001: 32), per la promozione della femminizzazione del vocabolario professionale, nel 1984, la denominazione al maschile di una donna-ministro rivela e ricorda l’esclusione simbolica delle donne dal mondo del lavoro. È, quindi, per accordare alle donne un nuovo diritto, cioè quello di sentirsi legittimate in qualsiasi tipo di professione, che il Ministero dei diritti delle donne istituisce una commissione di terminologia ad hoc. Come scrive Niedzwiecki (1993 : 69 ss.), infatti, i nomi di professioni e mestieri sono sovraccaricati, infatti, di un valore simbolico[15] che va oltre il solo valore linguistico e porta la lingua in relazione a ordini di realtà differenti: bilogico, logico, psicologico, morale[16].
L’espressione valore simbolico ricorda la riflessione di P. Bourdieu (1982, 2001) sulla relazione fra la lingua  e le altre istituzioni: gli usi linguistici assumono un loro valore all’interno del mercato simbolicoproprio di quella realtà sociale in cui si riconosce una certa comunità linguistica. Il concetto di mercato simbolico permette di concepire, infatti, una relazione di scambio fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale in cui i soggetti parlanti negoziano il loro ruolo in quella realtà sociale e la loro stessa identità.

Q’une femme exerçant les fonctions de directeur d’école porte depuis plus d’un siècle le titre de directrice alors que la femme directrice d’administration central était encore, il y a un an, appelée “madame le directeur” atteste, s’il en était besoin, que la question de la féminisation des titres est symbolique et non linguistique (Becker et al., 1999).

La possibilità di intervenire sugli usi linguistici per modificarne il valore simbolico era, quindi, una questione da affrontare immediatamente per individuare le possibilità e i limiti di azione e per stabilire nuovi equilibri nella relazione fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale, fra la lingua e le altre istituzioni. Si avviano, perciò, delle politiche volte alla femminizzazione linguistica, al fine di riequilibrare, attraverso gli usi linguistici, la relazione fra la lingua e la realtà sociale[17]. Ma che cosa si intende per «politiche linguistiche» e in che modo vengono realizzate?

La politique linguistique est pour nous l’ensemble des choix conscients effectués dans le domaine des rapports entre langue et vie sociale. […] Quant à la planification linguistique, nous la définirons simplement comme la mise en pratique d’une politique linguistique, et, du même coup, le lieu où doivent être résolus tous les problèmes techniques concrets de cette politique. (Calvet 1986 : 20).

Secondo Calvet (1986), possiamo riconoscere due diversi modi di intendere le politiche linguistiche: l’uno porta sulla lingua; l’altro porta sulle lingue. Per ciò che concerne l’azione sulla lingua, certe politiche linguistiche riposano su un’idea di identificazione fra unità nazionale e unità linguistica, mentre altre sulla relazione fra le lingue e i gruppi sociali. Le politiche linguistiche che intervengono sulla linguapresuppongono la possibilità di agire sulla forma linguistica in due maniere diverse: intervenendo sulla grafia, cioè fornendo un nuovo alfabeto e/o una nuova scrittura, modificando le iscrizioni, ecc.; intervenendo sul lessico, modificando le parole e/o creando neologismi; le politiche incentrate sulle lingue, invece, intervengono sulle forme dialettali, normalizzandole, standardizzandole, unificandole, scegliendo una lingua ufficiale di riferimento. All’azione sulle forme si accompagna in seguito l’azione sulle funzioni linguistiche.
Queste azioni portano, inoltre, sul valore simbolico degli usi linguistici presupposto dalla relazione di scambio fra un certo ordine linguistico e un certo ordine sociale. Questa relazione di scambio è mediata, infatti, dagli usi linguistici e dai discorsi[18]. Certe politiche linguistiche intervengono, allora, sugli usi linguistici e, tramite questi, si prefiggono di ristabilire, secondo nuovi equilibri, la relazione fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale.
Le politiche volte alla «femminizzazione linguistica» vantano sostenitori, ma anche oppositori[19]. Baudino parla di una sorta di «volontarismo linguistico»[20] (Baudino 2001, cap. 6) attraverso cui i sostenitori e gli oppositori del processo di femminizzazione linuistica, rispettivamente, promuovono oppure ostacolano questo processo[21]. Tuttavia, un solo fenomeno è considerato pertinente ed efficace nel processo di femminizzazione linguistica: «l’uso è il suo alleato» (Baudino 2001: 294, trad. mia).
Questo «volontarismo linguistico» si pone, allora, al centro del dibattito epistemologico in merito. In una dichiarazione ufficiale, il 14 giugno 1984, l’Académie Française mostra che l’azione volontaria sulla lingua è possibile e plausibile soltanto se circoscritta agli usi linguistici, avviando così un dibattito in merito alla possibilità di correggere gli usi linguistici. Soltanto nella dimensione dell’uso è concepibile la possibilità di intervenire volontariamente sulla lingua. Tuttavia, è l’uso stesso che ne decide le sorti. Le posizioni in merito sono contrastanti.

Des changements, faits de propos délibéré dans un secteur, peuvent avoir sur les autres des répercussions insoupçonnées. Ils risquent de mettre la confusion et le désordre dans un équilibre subtil né de l’usage, et qu’il paraîtrait mieux avisé de laisser à l’usage le soin de modifier. (Dichiarazione[22] dell’Académie Française del 14 giugno 1984, in Baudino 2001 : 370-371).

Ainsi, bien que l’histoire du français soit celle des décisions institutionnelles qui l’ont façonné, les représentants de ces institutions – ou leurs descendants – font du changement linguistique volontaire un acte contre nature. (Baudino 2001 : 13).

Come si accorda, allora, questa possibilità di azione sulla lingua nella dimensione dell’uso con il principio di arbitrarietà che governa la lingua intesa come istituzione «senza analoghi» e fondata sull’«irragione» che impedisce ogni azione volontaria sulla lingua? Com’è possibile conciliare il principio di arbitrarietà del segno linguistico, che sfugge a qualsiasi «correction de l’esprit» e, quindi, si sottrae per principio alla volontà del soggetto parlante, come mostra Saussure, con le politiche linguistiche intese come politiche di intervento sulla lingua?

3. La femminizzazione della lingua. Una questione aperta
La femminizzazione della lingua[23] è una questione istituzionale e linguistica ancora aperta. I primi lavori sul «sessismo linguistico» sono condotti soprattutto da linguisti anglofoni (americani e canadesi) e francofoni (canadesi del Québec) e risalgono agli anni Settanta. I primi documenti che propongono un «uso non sessista» della lingua compaiono in Gran Bretagna (Equal Opportunities Commission) e Irlanda (Equal Opportunities Commision for Northern Ireland: Advertising Handbook).
Le questioni sollevate dai linguisti concernono aspetti ben precisi degli usi linguistici correnti. I parametri considerati per stabilire la posizione delle donne e degli uomini nell’ordine sociale per come si evince dagli usi linguistici sono pochi, ma significativi: 1) i modi di nominarle, quindi di stabilire nome e identità; 2) i modi di individuare il loro statuto: educazione e formazione, professione, funzione, grado; 3) il prestigio (Niedzwiecki 1993 : 57). Ciò che viene portato in primo piano è, quindi, l’inuguaglianza del trattamento linguistico della relazione fra donne e uomini. Ciò dipende da più fattori interdipendenti, appartenenti cioè a diversi ordini di discorso: psicologico, sociologico, politico, economico.
A partire dagli anni Ottanta, diversi paesi europei[24] ed extra-europei[25] cominciano a pubblicare importanti documenti volti a regolare gli usi linguistici al fine di fare un «uso non sessista» della lingua. La maggior parte di questi documenti propone l’uso di forme neutre (come si osserva, ad esempio, in quelli americani), mentre altri propongono la differenziazione sessuale attraverso forme linguistiche femminili e/o maschili adeguate secondo i casi.
Due diversi processi di «femminizzazione linguistica» si osservano nei diversi paesi[26], e in particolare nei paesi francofoni[27], secondo le diverse situazioni[28].
In Québec, nel 1979, la Commissione di terminologia dell’Ufficio della lingua francese proponeva in un documento (Titres et fonctions au féminin, essai et orientation de l’usage) quattro principi fondamentali per regolamentare un «uso non sessista» della lingua: 1) utilizzare le forme femminili in tutti i casi possibili (ad es., «couturier / couturière», «Montréalais / Montréalaise»; 2) impiegare gli epiceni accompagnati da un determinante femminile («le juge / la juge»); 3) creare delle forme femminili conformi ai modelli morfologici della lingua («député / députée», «chirurgien / chirurgienne», «plombier / plombière»); 4) aggiungere il termine «donna» dopo il termine identificante una funzione («magistrat femme»), principio in seguito abbandonato perché considerato tautologico. Nel 1981 viene pubblicato un secondo documento che porta sui problemi di redazione e, nel 1982, nell’ambito del programma per l’uguaglianza al lavoro, viene pubblicata una lista dei nomi di professioni e mestieri.
In Francia, nel 1986, in seguito ai lavori della prima Commissione di terminologia per la femminizzazione in Europa, creata da Yvette Roudy – all’epoca ministra dei Diritti delle donne – e presieduta dalla scrittrice Benoîte Groult, un decreto per la «femminizzazione linguistica» è volto a regolamentare la femminizzazione dei nomi di mestieri e di funzioni[29].
Nel frattempo, la femminizzazione linguistica raggiunge anche l’Italia[30]. Alma Sabatini, esponente della Commissione Nazionale di Pari Opportunità tra uomo e donna fin dal 1985, mette i suoi studi linguistici – poiché anglista di formazione – al servizio dei movimenti femministi. Nell’ambito di questa Commissione, Sabatini ottiene l’autorizzazione a condurre una ricerca sul sessismo nella lingua italiana, al fine di modificare non soltanto gli usi linguistici «sessisti» in favore di usi linguistici «non sessisti», ma la relazione stessa fra la lingua e la realtà sociale. Analizzando l’«uso sessista» della lingua italiana, Sabatini porta l’attenzione delle istituzioni pubbliche sulla relazione fra ordine linguistico e ordine sociale.

4. La «femminizzazione linguistica» in Francia
L’opera Les mots et les femmes  di Marina Yaguello (1979) mostra con evidenza che il dibattito francese sulla percezione della donna passa attraverso l’analisi dei problemi linguistici, attraverso cui affrontare quelli sociali[31]. Nel dibattito francese sulla «femminizzazione linguistica» una questione viene, allora, immediatamente in primo piano: è possibile sottoporre la lingua a un’azione volontaria dal momento in cui, come abbiamo visto (cf. supra), secondo il principio di arbitrarietà del segno linguistico, essa sfugge alla volontà dei soggetti parlanti?
In un saggio sulla grammatica francese, Brunot e Bruneau ponevano questo stesso problema riflettendo sugli usi linguistici: «Il est probable que l’usage règlera ce que les grammairiens n’osent pas régler» (Brunot & Bruneau 1956: 199). Tuttavia, Dister e Moreau (2009), sostenendo una posizione contraria a quella precedente, sostengono che nei fatti linguistici, specialmente per ciò che concerne la francofonia europea, l’uso non ha mai regolato nulla spontaneamente e i grammatici hanno dovuto, a un certo punto, prendere delle decisioni[32]. Due posizioni teoriche in merito all’uso si delineano, quindi, rispetto alla questione della «femminizzazione linguistica».
Il dibattito francese sulla «femminizzazione linguistica» è complesso. Nella diversità di posizioni teoriche, tuttavia, alcune opere più di altre hanno contribuito ad animarlo. Nel saggio Féminiser ? Vraiment pas sorcier ! La féminisation des noms de métiers, fonctions, grades et titres, Dister e Moreau (2009) offrono una guida per «femminizzare» correttamente i nomi e gli aggettivi, in accordo con le regole grammaticali e gli usi correnti, secondo i casi e le accezioni propri della lingua francese. Le autrici mostrano che la «femminizzazione linguistica» permette di ricostruire gli equilibri all’interno dello stesso sistema linguistico francese, ristabilendo, a dispetto delle asimmetrie esistenti, le simmetrie fra maschile e femminile, utilizzando le risorse proprie del sistema[33].

Dans une structure qui, depuis les origines, désigne les individus masculins par des noms masculins et les féminins par des noms féminins, parler de sénateur ou de conservateur à propos d’une femme constituait une véritable anomalie, un réel écart par rapport au principe directeur de la répartition des genres grammaticaux. […] C’est le premier mérite des recommandations officielles en faveur de la féminisation des termes professionnels : elles ont re-légitimé les pratiques linguistiques normales, cohérentes avec la structure de la langue. (Dister & Moreau 2009 : 91).

Come si delineano, allora, le posizioni favorevoli e contrarie rispetto alla «femminizzazione linguistica»? Dister e Moreau (2009) consacrano un capitolo[34] agli argomenti utilizzati per sostenere e/o ostacolare il processo di «femminizzazione linguistica».
Argomenti sociali: assicurare la visibilità delle donne nella società[35], promuovere l’uguaglianza fra i sessi, rispettare l’identità delle donne, rigettare il sessismo e ogni sorta di discriminazione legata al sesso;
Argomenti linguistici: sostenere che l’accordo di genere è arbitrario[36], che il maschile è generico perché non marcato[37], che i nomi di funzioni designano, appunto, le funzioni e non le persone; a questi argomenti si aggiungono diverse posizioni sull’ambiguità nata dall’omonimia, sulla peggiorazione creata attraverso l’aggiunta di suffissi, sull’eufonia.
Argomenti di politica linguistica: concernono questioni di competenza e autorità sulla lingua (ad esempio, solo l’Académie française e/o solo la Francia possono deliberare sull’uso del francese), ordine ed economia linguistica[38].
Infine, argomenti ideologici; per i sostenitori della «femminizzazione linguistica» questo processo è una questione ideologica[39] e politica[40], quindi anche di opinione pubblica[41].
In merito all’accordo di genere, ad esempio, le posizioni di partenza sono molto diverse fra loro. Quando la differenza sessuale è posta come una cosa «naturale», si presenta innanzitutto un doppio ostacolo epistemologico:

en attribuant à la langue une vision uniquement référentialiste et en érigeant le principe de la différence des sexes comme modèle immuable pour la compréhension du monde. Ainsi, une co-relation entre structures sociales et structures langagières est postulée. De ce fait, c’est en transformant les structures et les formes linguistiques que l’on est supposé entraîner un changement dans la société et les représentations sociales sur le genre (Chetcuti & Greco 2011 : 11).

Le relazioni fra strutture linguistiche e rappresentazioni sociali, generi e rapporti sociali, pongono almeno due problemi: innanzitutto, bisogna considerare la relazione fra una lingua e una visione del mondo che essa porta con sé[42], presupponendo perciò che la lingua assuma un ruolo di mediazione fra rappresentazioni, forme linguistiche e società; poi, bisogna ricordare che la lingua non è riducibile al lessico, perché ciò presupporrebbe una lingua fondata sulle parole, rimettendo in questione la divisione fra sesso e genere (Chetcuti & Greco 2011: 11). Queste due posizioni si articolano, inoltre, sullo sfondo costituito, da un lato, dalle teorie femministe materialiste e, dall’altro, dalle teorie femministe decostruzioniste. È in questo complesso panorama teorico che bisogna considerare, quindi, la questione dell’accordo di genere.
Tuttavia, l’accordo di genere, così come altri esempi di «femminizzazione linguistica», chiama in causa i principi fondamentali della lingua intesa come istituzione «senza analoghi» (cf. supra). Poiché la lingua si trova in relazione alle altre istituzioni quali il diritto, la politica, il costume, ecc.in un certo ambiente culturale, ciò che viene in primo piano è il valore simbolico che gli usi linguistici assumono nel momento in cui si misura la relazione fra la lingua e le altre istituzioni, relazione che determina gli equilibri fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale.
L’accordo di genere che riguarda i nomi di professioni e mestieri, ad esempio, si presenta come uno di quei casi in cui sembra possibile ristabilire gli equilibri fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale costruendo una «normalità» nuova negli usi linguistici correnti, correggendo gli usi linguistici sessisti attraverso usi linguistici non sessisti. Se la lingua prevede l’accordo di genere, come in francese o italiano, la soppressione dell’accordo laddove questo è previsto dal sistema linguistico (ad esempio, il macellaio > la macellaia; il ministro > la ministra, ecc.) risulterebbe un’anomalia rispetto agli equilibri interni del sistema linguistico, dato che la soppressione dell’accordo creerebbe un’evidente asimmetria negli usi linguistici. Il ripristino dell’accordo di genere non è percepito, allora, come una forzatura o un’imposizione rispetto alle regole del sistema linguistico considerato, bensì soltanto una re-integrazione di usi linguistici già previsti dalla lingua, ma non in uso. In questi casi, perciò, mentre disturba la percezione del valore simbolico dell’uso linguistico, destabilizzando l’equilibrio fra ordine linguistico e ordine sociale, l’accordo di genere non contrasta con le regole linguistiche, proprio perché la femminizzazione si compie nel rispetto delle regole di formazione dell’accordo di genere, secondo i casi previsti dal sistema linguistico stesso.

5. La «femminizzazione linguistica» in Italia
A partire dal 1980 si possono citare donne e uomini secondo il proprio patronimico: le donne coniugate non hanno più l’obbligo di adottare il cognome del marito. Dal 1982, riprendendo il modello tedesco[43], l’uso dell’appellativo generico signora abolisce la distinzione fra signora e signorina, mantenendo così l’identità della donna indipendente da quella dell’uomo.
Nel 1987 la Presidenza del Consiglio dei Ministri pubblica il lavoro di Alma Sabatini, facente parte della Commissione Nazionale di Pari Opportunità tra uomo e donna, attraverso cui dare inzio anche in Italia a quel processo di «femminizzazione linguistica» già in atto in altri paesi. Il documento, intitolato Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, pubblicato a cura della suddetta Commissione e con il patrocinio della Presidenza del Consiglio, tuttora presente nel sito ufficiale del Ministero delle Pari Opportunità[44], trova grande eco nella stampa nazionale, ma non ha un’efficacia pari al suo successo nell’uso corrente della lingua italiana.
Proprio al fine di realizzare quel processo di «femminizzazione linguistica» che avrebbe dovuto finalmente affermare e riconoscere la presenza delle donne nella società italiana, le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana hanno un carattere e un impatto diversi rispetto ai documenti pubblicati in altri paesi. Mentre gli altri documenti – soprattutto in ambito francofono – proponevano di differenziare, piuttosto che neutralizzare, i nomi dei titoli, delle professioni, delle funzioni, ecc., il documento proposto da Sabatini si spinge oltre queste misure, proponendo l’uso di forme linguistiche semplici per la «femminizzazione» dei nomi e, di conseguenza, anche la soppressione di quelle forme già in uso in cui la «femminizzazione linguistica» si presenta come un’aggiunta all’accordo maschile, veicolando così una visione accessoria del femminile rispetto al maschile (ad es. dottore > dottora al posto di dottoressa; professore > professora al posto di professoressa). La «femminizzazione linguistica» si realizza, inoltre, ponendo l’articolo davanti ai nomi neutri che terminano in -e (ad es. il giudice > la giudice ; il vigile > la vigile). Gli interventi proposti concernono, quindi, non soltanto il valore degli usi linguistici rispetto al sistema di riferimento, ma soprattutto il loro valore simbolico, il valore che gli usi linguistici assumono in quanto mediatori nella relazione fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale, fra la lingua e le altreistituzioni.
Naturalmente, le diverse forme attraverso cui dovrebbe realizzarsi la «femminizzazione linguistica» nella lingua italiana riaccendono il dibattito sugli interventi volontari nella lingua (cf. supra), cercando di realizzare anche nella lingua ciò che è possibile in altre istituzioni. Le reazioni agli interventi volontari e, quindi, alle politiche linguistiche non sono sempre concilianti e si trovano spesso in netto disaccordo con i tentativi di «femminizzazione linguistica».
Nell’articolo «L’italiano androgino»[45] uscito sul Corriere della Sera all’indomani della pubblicazione delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Citati critica fortemente il tentativo di «femminizzazione linguistica» proposto e inteso come un primo passo verso l’uguaglianza dei diritti fra donne e uomini. La sua critica è severa. «La lingua è l’unico luogo della Terra dove la separazione dei sessi, che secondo i miti verrà abolita alla fine dei tempi, è già cancellata. Non capisco tanta ostilità e tanta furia contro la lingua italiana – l’unica patria della quale non ci dobbiamo vergognare». Ma la lingua è veramente una terra ospitale piuttosto che un terreno di lotta?
Nonostante il ritardo con cui il processo di femminizzazione della lingua si avvia in Italia rispetto ad altri paesi europei ed extra-europei, possiamo osservare ben presto l’emergere di una riflessione critica in merito ai tentativi di correggere gli usi linguistici in seguito a una «presa di coscienza» della stretta relazione fra la lingua e le altre istituzioni di cui si costituisce l’ordine sociale in una particolare comunità linguistica. Come scrive Francesco Sabatini nella prefazione a Il sessismo in Italia di Alma Sabatini[46], la riflessione critica concerne, da un lato, la relazione fra lingua, politica e sociètà; dall’altro, la relazione fra lingua, realtà e pensiero. La lingua porta con sé una certa visione del mondo (Whorf 1956) e assume, quindi, una funzione simbolica (Bourdieu 1982, 2001) all’interno di una certa realtà società che essa, in quanto istituzione, condivide con le altre istituzioni.

È […] difficile separare le pratiche «discorsive» della lingua dalla lingua stessa, cioè le leggi, i rituali, le istituzioni che ne regolano l’uso, dalla lingua vera e propria, dato che vi è tra le due un’interazione costante. Si potrebbe dire che «le condizioni di uso della lingua non sono inscritte nella lingua stessa». Se si vuole sapere come la lingua funziona nei nostri confronti, essa va analizzata sotto i due aspetti, quello più propriamente strutturale e quello dell’uso (Sabatini 1993: 20).

La femminilizzazione dei titoli, ad esempio, mostra come i problemi posti dalla femminizzazione della lingua italiana riguardino, come accade anche altrove (cf. infra), il valore simbolico degli usi linguistici all’interno della complessa rete di relazioni fra la lingua e le altre istituzioni. Come mostra Sabatini (1993), la femminizzazione dei nomi con desinenza in -iera si inserisce benissimo nel sistema della lingua italiana senza destabilizzarla, poiché risulta coerente rispetto alle regole grammaticali e morfologiche. Tuttavia, se la desinenza femminile in -iera non crea alcun problema fino al «livello» di professioni comecameriere / cameriera, infermiere / infermiera, parrucchiere / parrucchiera, cassiere / cassiera, ragioniere / ragioniera, non ci sono «ragioni» valide per cui questa desinenza dovrebbe creare problemi quando si passa alla denominazione di titoli e gradi più elevati (ad es., «banchiere / banchiera»). Evidentemente il problema riguarda il valore simbolico che il termine assume rispetto all’ordine sociale di riferimento: queste denominazioni vanno, infatti, a destabilizzare le relazioni simbolicamente definite fra le diverse parti sociali, creando così nuovi equilibri fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale. Come mostra Bourdieu (1982, 2001), infatti, gli usi linguistici rivelano le relazioni di potere fra le diverse parti sociali e, quindi, il rapporto fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale all’interno di quel mercato simbolico in cui assumono un valore specifico. È, quindi, sul valore simbolico degli usi che le politiche volte alla «femminizzazione linguistica» agiscono. E, nel considerare i problemi posti dal tentativo di correggere gli usi linguistici, bisogna considerare anche questo aspetto.

6. Uso «sessista» e uso «non sessita» della lingua. Alcuni esempi
Per capire quali siano gli effetti degli interventi volontari, consapevoli e/o inconsapevoli, compiuti sugli usi linguistici, dobbiamo soffermarci brevemente sul concetto di valore simbolico. Consideriamo, allora, alcuni esempi tratti dalla stampa quotidiana per comprendere le poste in gioco del dibattito in merito alla «femminizzazione linguistica» in Italia[47] e alla plausibilità di queste politiche linguistiche.

Esempio n. 1. Le « giudichesse comuniste e femministe »

Roma. Silvio Berlusconi si scatena sul far della sera ospite di «Otto e mezzo» trasmissione di La7 condotta da Lilli Gruber. […] Con Lilli Gruber che gli chiede dei soldi che verserà alla moglie Veronica Lario per il divorzio sbotta: «Non sono 100mila euro al giorno ma 200mila. Lo hanno deciso tre giudichesse femministe e comuniste. È una cosa che non sta nella realtà: 36 milioni e un arretrato di 76 milioni. Questi sono i giudici che a Milano mi perseguitano dal 1994» (il Piccolo, 09 gennaio 2013, p. 4).

L’espressione «tre giudichesse femministe e comuniste», citata in questo e in altri quotidiani[48], riporta in primo piano il problema della «femminizzazione linguistica» rispetto al valore simbolico degli usi linguistici. L’uso del termine «giudichesse» contrasta con le regole morfologiche della lingua italiana e rappresenta, quindi, un uso linguistico non coerente rispetto alle aspettative del soggetto parlante che conosce e applica inconsapevolmente le norme in uso nel compiere la propria pratica linguistica, in particolare quelle dell’accordo di genere secondo i casi previsti dalla lingua italiana. In questo caso specifico, infatti, l’attenzione del soggetto parlante si sofferma sulla forma linguistica utilizzata perché percepita come a-normale e, di conseguenza, sovraccaricata di valore simbolico negativo. Infatti, dato l’uso di creare dei peggiorativi attraverso l’aggiunta di alcuni suffissi come -accio, -azzo, -asso, e considerato il contesto d’uso del termine, il soggetto parlante che si trova nel ruolo di interprete attribuisce un valore simbolico negativo alla femminizzazione del termine giudici nella forma giudichesse. Diverse sono, infatti, le possibilità di parlare e identificare le donne giudice: le magistrate e/o le giudici è, ad esempio, la forma linguistica che realizza la femminizzazione rimanendo coerente rispetto alle norme del sistema di riferimento. Le soluzioni adottate, infatti, spesso non sono quelle percepite come normali: «Tutto, pur di non usare la magica parolina magistrata. La giudice. La pm»[49].
L’uso della forma linguistica «giudichesse» è, dunque, un esempio di cattiva «femminizzazione linguistica» che concerne il valore simbolico degli usi linguistici. L’aggiunta del suffisso (giudich)-esse attribuisce un valore simbolico dispregiativo replicando, ad esempio, l’uso ironico con cui il termine dottoresse veniva usato nel XIX secolo.
È attraverso l’espressione «le magistrate» che la Repubblica parla, invece, di questo fatto di cronaca, mentre il Corriere della Sera usava il termine «magistrate» già in un articolo del 2011[50]. Anche sul sito dell’Associazione Nazionale Magistrati troviamo, ad esempio, un articolo che porta nel titolo questa stessa forma di «femminizzazione linguistica» («Magistrate in alta quota. L’Anm volta pagina»), articolo dedicato d’altronde all’introduzione delle quote di genere nell’organo di rappresentanza sindacale dei magistrati italiani[51]. Inoltre, in questo articolo il termine «magistrate», di cui troviamo un’occorrenza nel titolo e due nel corso del testo, viene mantenuto e integrato spesso con altri sintagmi quali «donne magistrato», «colleghi e colleghe magistrato»[52].
Questa specifica forma di «femminizzazione linguistica» si realizza in accordo con le norme che vigono nella lingua italiana. La femminizzazione del termine «magistrato» come «magistrata» si concilia, infatti, con le aspettative del soggetto parlante nella formazione dell’accordo di genere. Per questa ragione, non stridendo rispetto agli usi correnti nella costruzione dell’accordo di genere, la forma linguistica «magistrate» non viene percepita come sovraccaricata di valore simbolico, positivo o negativo che sia, ma ha tutte le possibilità di essere integrata nel sistema linguistico. Ciò che ne consente l’istituzionalizzazione è, però, quella «sanzione della collettività» che gli usi linguistici devono subire per essere integrati nella lingua intesa come istituzione.

Esempio n. 2 : La Presidente, ma il Ministro

Un altro esempio di «femminizzazione linguistica» riguarda il modo in cui viene identificata la carica dell’attuale Presidente della Camera dei deputati, l’Onorevole Laura Boldrini. Sulla sua pagina personale nel sito web della Camera dei deputati[53] possiamo leggere la scheda di presentazione de «La Presidente»[54], la cui femminizzazione del titolo si realizza in perfetto accordo con le regole grammaticali e morfologiche della lingua italiana. L’accordo di genere non viene, invece, utilizzato in maniera sistematcia nella stampa quotidiana che parla spesso della Presidente Boldrini in qualità di Ministro[55]piuttosto che Ministra. Ciò che viene immediatamente in primo piano è, allora, la dissimmetria fra un’identità auto-determinata e un’identità etero-determinata: «la Presidente» della Camera dei deputati viene presentata, nello stesso tempo, come «Ministro» della Repubblica Italiana[56].
Questo esempio mostra, quindi, la difficoltà con cui certe forme di «femminizzazione linguistica», nonostante si trovino in perfetto accordo con le regole grammaticali e morfologiche della lingua italiana, e con le norme in uso, stentino a entrare nell’uso corrente perché non ricevono quella «sanzione della collettività» necessaria affinché gli usi linguistici possano essere istituzionalizzati e possano, quindi, entrare di diritto nella lingua intesa come istituzione.

7. Norme, usi e politiche linguistiche
Nonostante gli usi linguistici introdotti non siano in contrasto con le regole grammaticali e morfologiche del sistema, affinché possano entrare nell’uso corrente e, quindi, essere riconosciuti come propri di una lingua intesa come istituzione, devono subire quella «sanzione della collettività» che, come sostiene Saussure (cf. infra), ne garantisce l’istituzionalizzazione. Ciò produce, infatti, quell’impressione di normalità che il soggetto parlante percepisce nel mentre porta a compimento la propria pratica linguistica.
Questa impressione deriva dal percepire la propria pratica linguistica coerente rispetto alle norme proprie di quel determinato sistema linguistico, della lingua che si sta parlando. Per capire le difficoltà poste dalle politiche volte alla «femminizzazione» degli usi linguistici, facciamo ricorso alla riflessione di L. T. Hjelmslev (1943a) nel saggio intitolato Lingua e “parole”. Qui l’autore sviluppa l’articolazione fra i due concetti saussuriani menzionati, così come emerge nellaìe pagine del Cours de linguistique générale. Hjelmslev considera la lingua in tre modi diversi rispetto alla sua realizzazione sociale:
1)       come forma pura;
2)       come forma materiale, «definita da una certa realzzazione sociale, ma indipendentemente ancora dal dettaglio della manifestazione[57]»;
3)       come un complesso di abitudini che vengono adottate da una certa comunità linguistica e si riconoscono nelle manifestazioni osservate (Hjelmslev 1943a: 94).
Questi tre modi di concepire la lingua corrispondono rispettivamente alle tre nozioni che seguono:
1)       lo schema;
2)       la norma;
3)       l’uso.
Il concetto di schema permette di concepire la lingua libera da ogni carattere materiale (Saussure [1916] 1922: 15, 28, 44, 143), permette di «separare l’essenziale dall’accessorio» (Saussure [1916] 1922: 23), di concepire la lingua come una «forma» e non come una «sostanza», secondo i termini saussuriani (Saussure [1916] 1922: 137, 147). L’aspetto materiale della lingua viene ricordato, invece, dal concetto di norma(Saussure [1916] 1922: 24, 44). La lingua è, però, anche l’insieme delle abitudini linguistiche (Saussure [1916] 1922: 95) che si riconoscono in ciò che viene definito uso (Saussure [1916] 1922: 112, 118).
Intesa come «complesso di abitudini», la lingua si presenta, allora, come «una istituzione attuale ed un prodotto del passato» (Saussure [1916] 1922: 24) . Più precisamente, secondo i termini usati nel Cours de linguistique générale, come un’istituzione sociale (Saussure [1916] 1922: 26, 33, 105) distinta dalla altre. «Essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui» (Saussure [1916] 1922: 25).
Hjelmslev argomenta in merito alla relazione fra langue e parole nelle due dimensioni in cui la parole realizza la langue: quella collettiva e quella individuale. La «lingua-schema», la «lingua-norma» e la «lingua-uso» sono i tre aspetti in cui si articola, quindi, il rapporto fra langue e parole. «La norma determina (presuppone) l’uso e l’atto, e non inversamente» (Hjelmslev 1943a: 99). Detto altrimenti, la norma segue il realizzarsi della parole nel suo uso individuale: «l’atto e l’uso precedono logicamente e praticamente la norma; la norma è nata dall’uso e dall’atto, ma non inversamente» (Hjelmslev 1943a: 99). Ciò che accade nelle politiche volte alla «femminizzazione linguistica» è, invece, il contrario: prima viene definita la norma di riferimento per la realizzazione degli usi, poi dovrebbero seguirne l’uso e l’atto. Come mostra Hjelmslev, questo ordine logico contraddice ciò che accade normalmente nelle lingue. «Tra uso e atto c’è una interdipendenza: si presuppongono reciprocamente» (Hjelmslev 1943a: 99). L’interdipendenza fra l’uso e l’atto determina ciò che si riconosce, infatti, come «abitudini linguistiche» (Saussure [1916] 1922: 29). Le «abitudini linguistiche», infatti, altro non sono se non gli usi correnti (poiché correnti, allora in atto) nella comunità linguistica. Ciò che rimane da definire è, quindi, lo schema. «Lo schema è determinato (presupposto) tanto dall’atto che dall’uso e della norma, e non inversamente» (Hjelmslev 1943a: 99). Detto altrimenti, lo schema è presupposto dal realizzarsi della parole: l’atto e l’uso precedono logicamente e praticamente la norma; lo schema è presupposto logicamente dal realizzarsi della parole. Nelle politiche volte alla «femminizzazione linguistica» accade, però, il contrario: la forma linguistica che l’atto di parole deve assumere è già stabilita e, soprattutto, fornita a priori, in base agli usi possibili nel sistema linguistico. Come spiega Hjelmslev, l’ordine logico fra lo schema, la norma, l’uso e l’atto dipende dal fatto che sono sempre le variabili (gli usi e gli atti) che definiscono le costanti (gli schemi), ma non il contrario. «In ogni sistema semiologico, lo schema costituisce la costante, vale a dire è presupposto, mentre in rapporto allo schema la norma, l’uso e l’atto sono le variabili, vale a dire i presupponenti» (Hjelmslev 1943a: 101). L’uso e l’atto sono due variabili interdipendenti; in quanto variabili, essi determeninano la norma, cioè sono presupposti alla norma; l’uso, l’atto e la norma che li determina, a loro volta,determinano lo schema, cioè sono presupposti allo schema, alla forma linguistica.
Riprendendo ciò che si legge nel Cours de linguistique générale, Hjelmslev (1943a: 101) propone tre distinzioni fra langue e parole: 1) la prima è un’istituzione, mentre la seconda è un’esecuzione (Saussure [1916] 1922: 23); 2) la prima è sociale, la seconda individuale (Saussure [1916] 1922: 18, 23 ss., 30); 3) la prima è fissa, la seconda libera (Saussure [1916] 1922: 151). Tuttavia, queste tre caratteristiche si intersecano fra loro e complicano le cose: «ogni esecuzione non è necessariamente libera; tutto ciò che è individuale non è necessariamente una esecuzione ne è necessariamente libero; tutto ciò che è libero non è necessariamente individuale» (Hjelmslev 1943a: 101-102).
Passando attraverso queste distinzione in cui si articola la relazione fra le nozioni saussuriane di langue e parole, Hjelmslev isola la nozione di lingua come istituzione dalla parte della lingua intesa come schema, forma pura. Tuttavia, se consideriamo la nozione di istituzione non soltanto rispetto al concetto di langue, ma anche rispetto alle altre istituzioni, siamo chiamati a renderla meno rigida: se consideriamoistituzioni, come scrive Saussure nel celebre manoscritto su Whitney (Saussure 2007), anche il costume, la moda, il diritto, ecc., siamo obbligati ad allargare il concetto stesso di istituzione intendendolo come un insieme di abitudini non strettamente linguistiche, ma più generalemente psico-fisiche, che strutturano l’ambiente culturale in cui si trova inserito il soggetto parlante. Come ci spiega Bourdieu (1982, 2001), infatti, sono queste abitudini psico-fische, fra cui anche quelle linguistiche, che permettono di comprendere la relazione fra la lingua e le altre istituzioni, fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale. Questo ampliamento del concetto di istituzione rende permeabile la relazione fra la lingua e le altre istituzioni non linguistiche, mostrando, allora, che la distinzione proposta da Hjelmslev fra langue e parole riguarda soltanto il concetto di lingua come istituzione pura (Saussure [1916] 1922: 110), istituzione «senza analoghi». È così che Saussure identifica, appunto, la lingua, e soltanto la lingua, rispetto alle altre istituzioni. Ciò che scrive Hjelmslev in merito alla distinzione fra langue e parole deve essere ripensato, allora, rispetto al concetto saussuriano di istituzione pura, di istituzione «senza analoghi».

Qui [fra langue e parole] si trova la linea di confine più importante: quella tra la forma pura e la sostanza, tra l’incorporeo e il materiale. Questo conferma che la teoria dell’istituzione [pura, aggiungiamo noi] si riduce a una teoria dello schema, e che la teoria dell’esecuzione comprende tutta la teoria della sostanza, ed ha per oggetto quanto finora abbiamo indicato come la norma, l’uso e l’atto. Norma, uso e atto sono d’altra parte intimamente collegate tra loro e costituiscono naturalmente un unico oggetto concreto: l’uso, in rapporto al quale la norma è un’astrazione e l’atto una concretizzazione. Solo l’uso costituisce l’oggetto della teoria dell’esecuzione, la norma non è in realtà che una costruzione artificiale, e l’atto d’altra parte non è che un documento effimero. (Hjelmslev 1943a: 102-103).

Inoltre, secondo Hjelmslev, «vari usi fonetici e vari usi scritti possono essere coordinati al sistema dell’espressione di uno stesso schema linguistico. Una lingua può subire un mutamento di natura puramente fonetica senza che ciò tocchi il sistema dell’espressione dello schema linguistico, e analogamente essa può subire un mutamento di natura puramente semantica senza che ciò tocchi il sistema del contenuto. Solo così è possibile distinguere fra spostamenti fonetici e semantici da un lato, e spostamenti formali dall’altro» (Hjelmslev 1943b: 113). Nel caso degli usi imposti dalle politiche linguistiche, soltanto nel momento in cui si realizzano come spostamenti formali che interessando lo schema linguistico, questi stessi usi possono essere considerati propri dell’istituzione linguistica.
È intorno al concetto di uso che si dispiega, infine, un’altra articolazione importante fra i concetti saussuriani: quella fra individuale e sociale. L’uso, infatti, può essere tanto un uso individuale, quanto un uso collettivo. Tuttavia, partendo da questa premessa, Hjelmslev considera superflua la distinzione fra individuale e sociale. «Allo stesso modo in cui la parole può essere considerata documento della lingua, l’attopuò essere considerato come documento dell’uso individuale, e l’uso individuale a sua volta documento dell’uso collettivo» (Hjelmslev 1943a: 103). Questo è vero, però, soltanto dal punto di vista del linguista; dal punto di vista del soggetto parlante, invece, l’uso individuale non presuppone già un uso collettivo. Come scrive Hjelmslev (1943a: 103), l’uso predispone l’atto secondo le costrizioni imposte e le possibilità offerte dal sistema linguistico: non può darsi nell’atto niente che non sia già previsto dall’uso. L’uso individuale, più o meno conforme al sistema linguistico, attende però la «sanzione della collettività» per poter diventare, appunto, un uso collettivo. Questo è il passaggio necessario per il realizzarsi delle politiche linguistiche: se non viene oltrepassata la soglia dell’uso individuale attraverso la «sanzione della collettività» le politiche linguistiche rimangono delle mere astrazioni così come sono le norme nella prospettiva di Hjelmslev. «La norma, d’altra parte, è una finzione; la sola finzione che ci si incontra tra le nozioni che ci interessano. L’uso, comprendendo l’atto, non è fittizio. Lo schema neppure. Queste nozioni rappresentano delle realtà. La norma, invece, non è che un’astrazione tratta dall’uso con un artificio del metodo» (Hjelmslev 1943a: 103). Le politiche di femminizzazione linguistica non sono descritte a partire dall’uso, ma si propongono come norme dedotte dalle possibilità di realizzazione offerte dal sistema. Ogni politica linguistica che parte dalla norma per imporre l’uso è un’astrazione, proprio perché concepisce gli usi linguistici a valle, piuttosto che a monte, del funzionamento delle lingue. Le politiche linguistiche così concepite risultano, perciò, fallimentari. La norma, infatti, deriva da un lavoro di astrazione rispetto all’uso. «Essa costituisce, tutt’al più, un corollario adeguato per impostare in maniera corretta la descrizione dell’uso. In breve, essa è superflua; costituisce qualcosa di aggiunto a posteriori ed è una complicazione inutile. Ciò che essa introduce è solo il concetto che sta dietro i fatti che si trovano nell’uso; la logica moderna ci ha reso sufficientemente cauti verso i rischi insiti in un metodo che tende a ipostatizzare concetto per istituirli poi come realtà» (Hjelmslev 1943a: 103-104). Ciò detto, è ora possible comprendere le difficoltà insite nelle politiche di femminizzazione linguistica che partono dalle norme per arrivare agli usi. Le norme provengono, infatti, dalla descrizione degli usi che hanno già oltrepassato la soglia dell’uso individuale subendo quella «sanzione della collettività» necessaria per diventare, appunto, un uso collettivo. Da ciò si comprende, allora, la difficoltà – o forse l’impossibilità – di portare a buon fine quelle politiche linguistiche che partono, appunto, dalle norme per arrivare agli usi senza tener conto della necessaria «sanzione della collettività».

8. Conclusioni
Le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana invitano, innazitutto, a una riflessione critica sulla pratica linguistica affinché il soggetto parlante possa fare della lingua un uso «corretto» e «ragionevole» rispetto alle questioni di genere. Certi usi linguistici, infatti, permetterebbero di riconoscere un’identità femminile altrimenti negata per via della sua dipendenza simbolica dall’identità maschile.
Tuttavia, in Italia, il processo di «femminizzazione linguistica» non ha avuto i risultati sperati. Ciò viene attestato, ad esempio, da una mozione presentata dal Consiglio Universitario Nazionale del Ministero dell’Università e della Ricerca, il 7 marzo 2012, in merito alla linea di intervento sulla relazione fra «Lingua e identità di genere» in cui si auspica che «il linguaggio non sessista sia adottato da tutte le istituzioni pubbliche, a partire dal Ministero e dall’Università».
Un quarto di secolo dopo la pubblicazione delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana si chiede, nuovamente, che quelle «raccomandazioni» si traducano in pratiche linguistiche effettivamente realizzate, innanzitutto da quelle «istituzioni pubbliche» in cui si ritiene siano immediatamente attuabili.
Ma quali sono le ragioni di questo fallimento? La lingua è un’istituzione che, insieme ad altre istituzioni, struttura lo spazio sociale abitato dai soggetti parlanti. E tuttavia essa è un’istituzione «senza analoghi»,diversa dalle altre perché, come scrive G. Devoto alla fine degli anni Sessanta, «nasce esclusivamente attraverso un processo naturale di sedimentazione a ritmo lentissimo». Il processo di «femminizzazione linguistica» deve passare questa prova di «sedimentazione» per poter effettivamente entrare nell’uso comune. Ma, prima di questa, deve subire quella «sanzione della collettività» che permette oltrepassare la soglia dell’uso individuale.
Tuttavia, considerata in un particolare ambiente culturale e rispetto ai problemi posti dalla relazione fra l’ordine linguistico e l’ordine sociale, la differenza fra la lingua e le altre istituzioni viene messa tra parentesi e si pensa, allora, di poter compiere nella lingua un’azione ragionevole come in qualsiasi altra istituzione. Detto altrimenti, nel momento in cui la lingua viene intesa erroneamente al pari delle altreistituzioni, quali la politica, l’educazione, la religione, ecc., i soggetti parlanti credono di poter agire nella lingua così come agiscono in queste istituzioni. Tuttavia, come possiamo osservare nella nostra esperienza linguistica quotidiana, la lingua sfugge a qualsiasi imposizione individuale volontaria e dipende finalmente soltanto da quel processo di sedimentazione lento e continuo che risponde, invece, all’azione collettiva della «massa parlante». Considerando i principi fondamentali che presiedono alle pratiche linguistiche, e considerando le argomentazioni di Saussure in merito alla lingua intesa comeistituzione «senza analoghi» e quelle di Hjelmslev in merito all’uso (cf. infra), possiamo allora comprendere quali siano le difficoltà e gli ostacoli al processo di femminizzazione linguistica che riguardano gli usi linguistici (non) ragionevoli e il tentativo di correggerli.

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Note
[1] Questo manoscritto è stato analizzato da Godel (1957: 43-46), pubblicato da Engler nell’edizione critica del Cours de linguistique générale (Engler 1967-1974: fasc. IV, n. 3297) e ripubblicato negliEcrits de linguistique générale da Bouquet e Engler (Saussure 2002 : 203-222). Classificato come Papiers Ferdinand de Saussure, Ms. fr. 3951/10, con il titolo «Notes pour un article sur Whitney », esso è stato integralmente pubblicato in versione digitale annessa ai Cahiers Ferdinand de Saussure (60/2007). Per un’analisi delle diverse edizioni e una presentazione del manoscritto, cf. Gambarara (2007). Le pagine del manoscritto che abbiamo studiato per isolare il concetto di lingua come istituzione sociale costituiscono un’unità testuale autonoma (Gambarara 2007: 246) che comprende le pagine seguenti: 17r, 16v, 18r, 17v.
[2] Per comprendere in che senso la scrittura possa essere considerata la sola istituzione «analoga» alla lingua, ci permettiamo di rinviare a un articolo in cui abbiamo mostrato la relazione fra oralità e scrittura rispetto alla lingua considerata come istituzione, cf. De Angelis (2012).
[3] «Se è vero che le pratiche prodotte dagli habitus, i modi di camminare, di parlare, di mangiare, i gusti e il disgusto ecc., possiedono tutte le proprietà dei comportamenti istintivi e in particolare l’automatismo, rimane il fatto che una forma di coscienza parziale, lacunosa, discontinua, accompagna sempre le pratiche, sia sotto forma di quel minimo di vigilanza che è indispensabile per controllare il funzionamento degli automatismi o sia sotto forma di discorsi destinati a razionalizzarli (nel duplice senso del termine)» (Bourdieu [1972] 2003: 251).
[4] Questa distinzione è stata menzionata per la prima volta da Daniele Gambarara nel corso di un seminario dal titolo «Dentro e fuori del linguaggio. Sensazione e immagine in Phonétique di Ferdinand de Saussure», tenuto il 19 novembre 2008 all’Università della Calabria. Questa distinzione si inserisce nell’ambito di una riflessione sul concetto di lingua come istituzione che abbiamo sviluppato ampiamente altrove e cui ci permettiamo di rinviare, cf. De Angelis 2012.
[5] «Toutefois il ne suffit pas de dire que la langue est un produit des forces sociales pour qu’on voie clairement qu’elle n’est pas libre; se rappelant qu’elle est toujours l’héritage d’une époque précédente, il faut ajouter que ces forces sociales agissent en fonction du temps. Si la langue a un caractère de fixité, ce n’est pas seulement parce qu’elle est attachée au poids de la collectivité, c’est aussi qu’elle est située dans le temps. Ces deux faits sont inséparables. A tout instant, la solidarité avec le passé met en échec la liberté de choisir. Nous disons homme et chien parce qu’avant nous on a dit homme et chien. Cela n’empeche pas qu’il n’y ait dans le phénomène total un lien entre ces deux facteurs antinomiques: la convention arbitraire en vertu de laquelle le choix est libre, et le temps, grâce auquel le choix se trouve fixé. C’est parce que le signe est arbitraire qu’il ne connaît d’autres lois que celle de la tradition, et c’est parce qu’il se fonde sur la tradition qu’il peut être arbitraire.»(Saussure [1916] 1922: 108).
[6] Cf. nota successiva.
[7] La natura di questo trovarsi già sempre d’accordo nella lingua attraverso un «adattamento spontaneo e irriflesso» alle pratiche linguistiche già in uso, poiché hanno subito la «sanzione della collettività» che ne ha consentito l’istituzionalizzazione, viene spiegato in un passaggio che concerne specificamente la differenza fra due istituzioni distinte, la lingua nella sua spontanea oralità e la scrittura, considerata la sola istituzione «analoga» alla lingua. Questo passaggio, presente nell’edizione critica del Cours de linguistique générale a cura di Engler (1968), tratto dalle note di Albert Riedlinger, non è presente, invece, nelle pagine dell’opera. « En 3e lieu – quand on reconnaît qu’il faut considérer le signe socialement – on est tenté de ne prendre d’abord que ce qui semble dépendre le plus de nos volontés ; et on se borne à cet aspect en croyant avoir pris l’essentiel : c’est ce qui fait qu’on parlera de la langue comme <d’>un contrat, <d’>un accord. Ce qui est le plus intéressant dans le signe à étudier ce sont les côtés par lesquels il échappe à notre volonté ; là est sa sphère véritable puisque nous ne pouvons plus la réduire. […] Le moment où l’on s’accorde sur les signes n’existe pas réellement, n’est qu’idéal ; et existerait-il qu’il n’entre pas en considération à côté de la vie régulière de la langue » (Saussure 1997: 11). Per un approfondimento su questo aspetto, ci permettiamo di rinviare a De Angelis (2012).
[8] « Il n’y a pas de génie de la langue parce qu’il n’y a pas de pénétration et correction de l’esprit, pas de raison dans le sujet parlant ; le rapport avec les signes est, mieux qu’un contrat, un compromis, le dernier compromis que l’esprit accepte avec certains symboles, et que tout de même constitue la langue » (Gambarara 2007: 263).
[9] Cahiers de Femmes d’Europe, « Femmes & langage », n. 40, agosto 1993. I Cahiers de Femmes d’Europe erano pubblicati dalla Commission Européenne : Direction générale Information, Communication, Culture, Audiovisuel. Service Information Femmes.
[10] «Comité européen pour l’égalité entre les hommes et les femmes».
[11] Austria, Germania, Lichtenstein, Svizzera, Cipro, Irlanda, Malta, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia.
[12] Premier Symposium International sur le Langage des femmes ? langage des hommes ?, Anvers, 14-15 maggio 1993.
[13] « Pour la linguiste française Luce Irigaray, la définition de l’identité féminine repose sur l’existence de nouvelles valeurs culturelles, et sur le rétablissement ou l’invention d’images, de symboles, de règles linguistiques aujourd’hui inexistantes. Pour Benoîte Groult, il est certain que le mépris de la femme qui se révèle si bien dans la langue, ne pourra s’effacer tant qu’il existera dans le vocabulaire. » (Niedzwiecki 1993 : 7).
[14] «Pour le Chef de l’Etat, elle soulève en effet un problème ponctuel d’accord grammatical qui ne se pose pas avec plus d’acuité aux femmes qu’aux autres locuteurs de langue française» (Baudino 2001 : 30).
[15] « En fait, l’intervention sur la langue est une activité ancienne […] Le voisinage des syntagmes economic policy et language planning, par exemple, nous ramène à un dèbat déjà ancien, inauguré à la faveur d’un rapprochement entre les notions de valeur chez Saussure et chez Marx, et qui tournait autour d’une expression reprise légèrement métaphorique lancée par le linguiste italien F. Rossi-Landi puis reprise par le sociologue P. Bourdieu, celle de marché linguistique. » (Calvet 1986: 19).
[16] Niedzwiecki ricorda che già nell’antichità esistevano molti termini per indicare le professioni e i mestieri femminili, « pour désigner, dans la Rome antique, chacune des innombrables ornatrices, les ancêtres des esthéticiennes modernes » (Niedzwiecki 1993, p. 15). L’autrice mostra un parallelismo fra la realtà sociale (i mestieri femminili) e la loro traduzione simbolica (i nomi dei mestieri femminili), specialmente nella letteratura, nel teatro, nel settore tessile, ecc. « Le parallélisme entre la réalité professionnelle de femmes, et les appellation professionnelles les désignant, est maintenant prouvée.  En effet, il y a une majorité de femmes au bas de l’échelle hiérarchique et des salaires, là où il y a également pléthore de mots pour les nommer. Au fur et a mesure que l’on s’élève dans la hiérarchie – le prestige augmentant de même que le pouvoir et les responsabilités –, l’absence des femmes se fait cruellement sentir, ainsi que les « mots pour la dire » (Benoîte Groult), résultant en une quasi « invisibilité » au sommet de la pyramide, au propre et au figuré » (Niedzwiecki 1993 : 17).
[17] « La langue standardisée de la classe la plus élevée d’une société devient instrument de domination permettant de maintenir les femmes dans une position d’infériorité, leur déniant la prise de parole, le droit d’être nommées, les rendant invisibles (dans l’expression “vivre en bon père de famille”). Il ne suffit pas (sauf pour les poètes…) de dénommer pour appeler à l’existence. Mais il est néanmoins évident que si le changement social finit toujours par trouver son reflet dans la langue, il peut aussi, de manière décisive, être porté par elle. (Alain Frantapié). La féminisation est un besoin engendré par l’évolution sociale. » (Niedzwiecki 1993 : 21).
[18] « Le langage aussi est politique, lui qui reflète la pensée et l’ “imaginaire collectif”, prescriptif dans le cas qui nous occupe, autant qu’il modifie la projection et la perception de l’univers et les êtres qu’il crée en les nommant. Or, sexisme va de pair avec stéréotypie, et stéréotypes avec normes » (Niedzwiecki 1993: 23). La funzione politica del linguaggio e della lingua emerge nella dimensione deldiscorso. Per un approfondimento di questo aspetto ci permettiamo rinviare a un nostro articolo recente, cf. De Angelis (2013).
[19] « Mais, en faisant de cette entreprise le résultat d’une décision prise sous l’influence ou en dehors d’un champ de compétences, ils [les membres de l’Académie Française] ont surtout montré leur volonté de la discréditer politiquement. Aux antipodes d’un choix raisonné et légitime, la féminisation des noms apparaît comme le fruit de l’ignorance et de la soumission à un rapport de forces. »(Baudino 2001 : 290).
[20] Baudino 2001, § 1.1. «L’Académie française contre l’usage», nello specifico il sottoparagrafo 1.1.2. «Stigmatiser le volontarisme linguistique».
[21] Baudino 2001, § 1.2. «L’appui du gouvernement à l’usage», nello specifico il sottoparagrafo 1.2.1. «Un volontarisme consensuel».
[22] Documento conservato negli Archives de l’Institut de France, pubblicato in appendice (Annexe 4) nel saggio di Baudino (2001: 370-371).
[23] L’espressione « féminisation du langage » (Niedzwiecki 1993 : 33) ha una portata più ampia rispetto all’espressione «femminizzazione della lingua». In francese, infatti, al distizione fra lingua elinguaggio è più stabile e sistematica che in italiano, comprendendo anche sistemi di segni altri che quelli linguistici. Tuttavia, occupandoci di politiche linguistiche, è la «femminizazione della lingua» o «femminizzazione linguistica» ciò che qui ci interessa.
[24] Gran Bretagna, Irlanda, Germania, Belgio, Francia, Italia, Paesi Bassi, Austria, Svizzera, Spagna, Portogallo, Grecia.
[25] Stati Uniti, Canada e, soprattutto, il Québec.
[26] In Spagna, ne Las propuestas para evitar el sexismo en el lenguaje, pubblicato nel 1989 in seguito al «piano per l’uguaglianza delle donne» (« plan para la igualidad de las mujeres », 1988/1990), vengono proposte diverse misure di «femminizzazione linguistica»: l’abolizione del maschile generico sostituito dalla differenziazione dei generi grammaticali (ad es., non più « el hombre », ma « los hombres y las mujeres »); l’abolizione dell’asimmetria nei nomi, nelle denominazioni e nei titoli (ad es., non più « la Tatcher », ma « Tatcher »); la femminizzazione di nomi di mestieri, professioni e funzioni (ad es., « los médicos y las médicas »). In Portogallo, invece, la linguista Eugénia Malheiros pubblica Profissoes no masculino e no femenino em Portugal. La situazione è diversa, poi, nei paesi anglofoni e germanofoni. Fra i paesi europei, la Germania è stata la prima a prendere delle misure importanti perché fossero impiegate, almeno nei testi ufficiali, entrambe le forme linguistiche, femminili e maschili (Niedzwiecki 1993 : 18).
[27] « Dans certaines (Belgique francophone, Suisse alémanique et romande…), des autorités au sommet de l’Etat ont pris position, parfois avec des dispositions à caractère officiel (décret, circulaire, recommandation…), en faveur de nouvelles formes de langage qui fassent uns plus juste place aux femmes. Dans d’autres (Québec, Pays-Bas…), ce sont les usagers eux-mêmes qui aspiraient à des modifications linguistiques, c’est la base qui s’est trouvée traversée de courants porteurs de réformes linguistiques. Les gens ont forgé spontanément de nouvelles appellations, recouru à de nouvelles formulations. Certaines ont rencontré du succès, se sont diffusées, d’autres moins et ont été remplacées par de nouvelles, etc. Et c’est dans un second temps seulement que les institutions chargées de la politique linguistique sont intervenues, pour canaliser les innovations. » (Dister & Moreau 2009 : 21-22).
[28] Per uno stato dell’arte nei domini francofoni, cf. Dister & Moreau (2009 : 23-27).
[29] In Belgio, invece, importanti sono i contributi di Joseph Hanse e, soprattutto, di Henri Simons, iniziatore del decreto sulla «femminizzazione linguistica» nel giugno 1993. « La Belgique peut être considérée comme avantgardiste, elle qui, en 1988, préconisait jusqu’à l’emploi de néologismes s’il en fallait. L’une des initiatives, portugaise, a aussi remplacé l’expression “droits de l’homme” par “droits de la personne (humaine, facultatif)”. Une autre mesure portugaise fut le droit aux femmes mariées de conserver leur nom “de jeune fille”, en Italie et en Suisse, de l’ajouter au nom du mari, en France, le droit parental de donner aux enfants le nom du père et de la mère. » (Niedzwiecki 1993 : 74).
[30] Cf. Robustelli 2011, 2010.
[31] « Le titre donné au septième et dernier chapitre [M. Yaguello, Les mots et les femmes, 1979], “L’action volontariste sur la langue ou Peut-on infléchir l’évolution naturelle des langues”, est révélateur de la thèse défendue par l’auteure. Le point d’interrogation est là pour préserver l’illusion d’un questionnement objectif sur les conditions de possibilité d’une réforme linguistique ; mais l’opposition d’une action qualifiée de “volontariste” à une évolution qualifiée de “naturelle” indique par avance que toute intervention concertée sur la langue est perçue – et condamnée – comme le bouleversement d’un ordre préexistante te auto-organisé » (Baudino 2001 : 145-146).
[32] « Dans les faits, pour ce qui concerne la francophonie européenne, l’usage n’a rien réglé spontanément et les grammairiens ont bien du décider. Et ils l’ont fait avec succès. […] A ce moment, en outre, les grammairiens ne se retrouvent pas seuls contre tous : leur voix est sollicitée et puissamment amplifiée par le politique ou l’institutionnel » (Dister & Moreau 2009 : 7).
[33] « Si les réformes s’étaient bornées à des corrections cosmétiques des usages linguistiques au nom de la cohérence du système, elles n’auraient d’ailleurs sans doute pas rencontré le succès indéniable qu’on a rapidement pu observer. L’adoption des nouvelles appellations tient sûrement bien davantage au fait qu’elles sont entrées en résonance avec une attente d’une partie importante du corps social, respectueuse des identités individuelles et soucieuse d’égalité entre les sexes et les genres. » (Dister & Moreau 2009 : 91-92).
[34] Dister & Moreau 2009, cap. II, « L’argumentaire des partisans et des opposants », pp. 27 ss.
[35] Secondo questo punto di vista, l’atto di nominare sancisce l’esistenza sociale: « ce qui n’est pas nommé publiquement n’existe pas socialement » (Dister & Moreau 2009: 29).
[36] « Le genre des mots est arbitraire, il s’agit d’un héritage de l’histoire de la langue » (Dister & Moreau 2009: 30).
[37] In merito all’accordo di genere, leggiamo: « comme le masculin est le genre non marqué, et le féminin le genre marqué, le masculin réfèrerait autant aux hommes qu’aux femmes » (Dister e Moreau 2009: 31).
[38] « Que la position prise ainsi par les autorités influe ensuite sur les pratiques personnelles, cela est possible. Mais le changement ne se produira que si la décision prise par le pouvoir est en phase avec ce que souhaitent les individus, explicitement ou implicitement, consciemment ou inconsciemment. » (Dister e Moreau 2009: 43).
[39] Come leggiamo, « la féminisation des noms de professions est donc avant tout une question sociale et idéologique. Les opposant, de leur côté, ont investi le terrain linguistique pour justifier le refus des étiquettes féminines. », p. 44; Lorsque la fonction est prestigieuse, elle devrait être déclinée au masculin. Perdrait-elle (la fonction, et la femme qui l’occupe) de prestige au féminin ? » (Dister e Moreau 2009: 45).
[40] Cf. Dister e Moreau 2009: 42-44.
[41] « Les journaux ayant adopté dans leur colonnes la féminisation linguistique, suite au décret de 1998, ont reçu de nombreux courriers de lecteurs les accusant d’adopter des positions politiques de gauches. » (Dister e Moreau 2009: 48).
[42] «Language thus represents the mass mind; it is affected by inventions and innovations, but affected little and slowly, whereas to inventors and innovators it legislates with the decree immediate» (Benjamin Whorf 1956: 156).
[43] L’uso dell’appellativo «Frau» nei testi tedeschi viene adottato fin dal 1972.
[44] http://www.pariopportunita.gov.it/index.php/archivio-dossier/868-direttiva-pari-opportunita-nella-pa
[45] «Pochi giorni fa, ho letto in casa di un amico uno strano libretto, di cui Giulia Borghese ha già parlato in questo giornale: Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, a cura di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. È uno dei grandissimi capolavori comici della letteratura italiana – a metà strada tra Gli Uccelli e Pinocchio. Vorrei che tutti gli italiani lo leggessero a voce alta, la sera, nelle famiglie. Per abolire il predominio maschile dalla lingua italiana, l’autrice raccomanda di non scrivere i diritti dell’uomo, ma i diritti della persona, […] non l’uomo della strada ma la persona o l’individuo della strada, […] non Marguerite Yourcenar è uno dei più grandi scrittori viventi, ma Marguerite Yourcenar è una delle più grandi, tra scrittrici e scrittori viventi[…]. Il problema della Sabatini è soprattutto l’uso indiscriminato dei nomi uomo e scrittore, che in italiano vengono usati indifferentemente per indicare maschi e femmine, scrittori e scrittrici. Ma uomo e scrittore, come ci vengono proposti dalla lingua italiana, non sono maschili: sono androgini. La lingua è l’unico luogo della Terra dove la separazione dei sessi, che secondo i miti verrà abolita alla fine dei tempi, è già cancellata. Non capisco tanta ostilità e tanta furia contro la lingua italiana – l’unica patria della quale non ci dobbiamo vergognare.» (Pietro Citati, «L’italiano androgino», Il Corriere della Sera, 12/05/1987)
[46] La ricerca è stata condotta per conto della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, Presidenza del Consiglio dei ministri, pubblicata nel 1993.
[47] Uno studio del Cnr recentemente condotto sulle questioni di genere è riassunto nell’articolo «Dreaming parità: questione di secoli», http://www.ingenere.it/articoli/dreaming­parit­questione­di­secoli
[48] Cf. Il Fatto Quotidiano e La Repubblica dell’8 gennaio 2013, on line, nonché il sito dell’Agi.
[49] L’articolo pubblicato sul blog Giulia.globalist.it continua come segue: «Ricalcando, a pochi giorni di distanza, la stessa caparbia dabbenaggine nei confronti di Rita Levi Montalcini, la popolarissima scienziata che ci ha dolorosamente lasciato lo scorso 30 dicembre. Inutile chiedersi perché il sito del GR scrive senatrice e lo speacker dello stesso GR, pochi minuti dopo, dice senatore. Perché suona male? Perché non si conosce abbastanza la nostra lingua? Perché non abbiamo ancora l’abitudine a declinare le cariche al femminile? Perché sennò chissà cosa si mettono in testa le donne? Per la cronaca, sulla lapide di Montalcini è stato composto: Professoressa Rita Levi Montalcini – premio Nobel 1986 – senatrice a vita. Evviva.» Giulia.globalist.it | Il ministro è incinta!,
http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=47277&fb_action_ids=10151244270638722&fb_action_ty
[50] « Le magistrate e il gossip che fa tremare Bari\»,
archiviostorico.corriere.it/2011/…/magistrate_gossip_che_tremare_Bari_co_8_110916005.shtml
[51] Nell’articolo si rende nota la modifica dello statuto dell’Associazione Nazionale Magistrati che nell’elezione del comitato direttivo centrale dovrà prevedere la presenza paritaria di genere (50% delle quote di lista) e nella distribuzione dei seggi disponibili in proporzione ai voti riportati da ciascuna lista, sia almeno garantito il 30% del genere meno rappresentato.
[52] Il problema dell’affermazione di esistenza delle «magistrate» è riemerso con vigore negli ultimi anni. Cf. «Sensibilità di genere tra magistrate/i e avvocate/i», Magistratura Democratica,
http://www.magistraturademocratica.it/platform
[53] http://presidente.camera.it/1
[54] Altra conferma è la voce «Scrivi alla Presidente» presente nel menù a sinistra della pagina personale. http://presidente.camera.it/18?testo=1
[55] Esempi si possono trovare molto facilmente anche nelle testate on line della stampa quotidiana: il Corriere della Sera, La Repubblica, il Manifesto, il Sole24ore, il Foglio, Libero, Il Fatto Quotidiano.
[56] « Claudette Apprill, Secrétaire du Comité européen pour l’égalité entre les femmes et les hommes au Conseil de l’Europe, a employé l’une des premières le féminin en toutes circonstances, ainsi que dans ces discours politiques (elle s’est toujours adressée à “madame la présidente”, “madame la ministre”, &c.) : Lorsqu’enfin on dira d’une secrétaire d’Etat ou d’une ministre qu’elle est secrétaire d’Etat ou ministre, cette femme aura acquis le dernier droit politique qui lui est dénié : celui d’exister en tant que femme dans un monde qui ne refusera plus l’égalité des sexes. » (Niedzwiecki 1993 : 23).
[57] «La sostanza non è dunque una presupposizione necessaria per la forma linguistica, ma la forma linguistica è una presupposizione naturale per la sostanza. La manifestazione in altri termini è una selezione in cui la forma linguistica è la costante, e la sostanza la variabile; definiamo formalmente la manifestazione come una selezione fra gerarchie e fra derivati di gerarchie diverse. La costante in una manifestazione (il manifestato) potrà, con riferimento a Saussure, essere chiamata forma; se la forma è una lingua, la chiameremo schema linguistico. La variabile in una manifestazione (il manifestante) potrà, d’accordo con Saussure, essere chiamata sostanza; e chiameremo uso linguistico una sostanza che manifesta uno schema linguistico» (Hjelmslev 1943b: 114).