Vita Cosentino e Alessio Miceli – Autoriforma della scuola: uno scambio possibile

da Il Calendario del Popolo, settembre 2014

 

 

ALESSIO MICELI Sono entrato nella scuola pubblica nei primi anni ’90, come insegnante delle superiori, con due oggetti belli nel mio zainetto: un sentimento di gratitudine per una grande donna alle mie spalle, una insegnante che alle superiori con la sua passione intellettuale e la sua capacità di relazione aveva toccato la mia, e un senso di piacere immediato all’idea di lavorare con ragazzi e ragazze adolescenti.

Avevo anche una appartenenza in senso lato di sinistra, quella iniziata per me al liceo intorno ai movimenti studenteschi del ’77 e continuata senza tessere di partito, quella che mi parlava di giustizia sociale e contemporaneamente della libertà di ciascuno. E c’era in quest’area culturale una domanda sul potere, su come si decidono le cose importanti per tante persone e tra queste anche la scuola e l’educazione.

Come si sono intrecciati di seguito questi fili, soprattutto come si sono concretizzati questa sensibilità di sinistra e il rapporto con il movimento delle donne, nella scuola pubblica italiana?

Nella mia esperienza di insegnante tutto si è fatto attraverso relazioni significative. Così ho scelto fin dall’inizio una scuola tecnica sperimentale, nella cintura di Milano, dove con alcuni amici e amiche colleghi di lavoro fosse possibile provare diverse strade, portare dei cambiamenti.

Poi nel 2005, con i colleghi e le colleghe più partecipi a scuola, abbiamo cercato di dare un respiro politico al nostro lavoro, organizzando la rassegna di incontri La scuola che vogliamo. È stata davvero una fucina di incontri e tra questi, in particolare, ho incrociato più da vicino Chiara Zamboni e Vita Cosentino e attraverso loro la potente affermazione della soggettività delle donne sull’onda del femminismo, lì dov’è arrivata in università e nella scuola: una soggettività, come ha scritto Vita, “che scopre sé stessa nella relazione”. E devo dire che in questo mondo delle donne, assieme alla conflittualità necessaria per significare la loro differenza, ho sentito “un’aria di famiglia” rispetto ad altri movimenti anche maschili, come quello libertario e quello cooperativo e le loro pratiche educative. Penso che condividiamo un’idea di trasformazione politica qui e adesso, nei contesti dove siamo, nel senso della libertà dei soggetti e di una certa giustizia sociale. Ed io questo, l’ho già detto, in senso ampio lo chiamo sinistra.

Da quell’incontro, il passaggio è stato breve a riconoscermi nel movimento dell’autoriforma, quella posizione in cui sostanzialmente donne e uomini non si aspettavano niente altro dall’istituzione che mettere in gioco sé stessi, ricercando delle relazioni vive all’interno della scuola e dell’università.

 

VITA COSENTINO Io sono diventata insegnante nel ’71, sono molto più vecchia! Ma la tua storia, Alessio, dice già molto, dice per esempio che le scuole sono piene di donne, di donne che pensano. Io appartengo alla prima generazione femminile che è potuta andare a scuola. L’istruzione femminile è stato il frutto migliore della vituperata scuola di massa degli anni ’60. E si deve alla buona riuscita delle donne negli studi la loro successiva entrata nel mondo del lavoro, in tutte le professioni. Oggi poi assistiamo a scuola al cosiddetto “sorpasso”, cioè più donne che uomini sia in cattedra che sui banchi. Per ricordare quello che è stato, va detto che la scuola è stata un luogo politico importante per il femminismo per la semplice ragione che molte femministe degli anni ’70 erano insegnanti.

Ricordo che sul finire degli anni ’80, sull’Unità, comparve un articolo di Antonio Faeti, Le femministe non educano, che lamentava che tutto era fermo a Piccole donne. Era vero. Fino ad allora nelle scuole c’era poco o niente. Ma quasi a smentirlo nel giro di pochi mesi, a partire da Verona e Milano, si diffuse a macchia d’olio un movimento di insegnanti femministe che rimise in discussione parecchi capisaldi dell’insegnamento ed elaborò punti di vista e pratiche che rivitalizzarono la relazione docente: la Pedagogia della differenza.

Per quei primi anni io parlerei soprattutto di frattura con la sinistra. Essenzialmente la Pedagogia della differenza produsse una rottura nei confronti delle idee e delle relazioni politiche della sinistra. Per fare un esempio concretissimo, nella mia scuola in alcune donne abbiamo spaccato la sezione sindacale CGIL, dicendo che eravamo stufe della logica di potere e contropotere che la animava. Eravamo stufe di riunirci prima di ogni Collegio docenti per decidere come contrastare le proposte della preside. La preside era una donna come noi, ci dava fiducia, credeva nella scuola, e noi volevamo avere con lei un altro rapporto politico. Da quel giorno le dinamiche non furono più le stesse.

A quei tempi la sinistra era infatuata per le tecnologie didattiche, la programmazione, la cosiddetta scientificità e la rottura avvenne anche a quel livello. Nelle pratiche e nell’elaborazione, la Pedagogia della differenza si discostò profondamente da quelle idee. La priorità veniva data alla relazione, al parlarsi, alla consapevolezza di ciò che si vive, alla soggettività di chi insegna e di chi impara. Ricordo che ricominciammo a parlare di “educare”, parola allora messa al bando. Prendemmo coscienza che insegnavamo materie da cui erano state cancellate le donne: nessuna storia della letteratura del Novecento adottata a scuola parlava di Elsa Morante o di Virginia Woolf! A pensarci un vero scandalo. Cominciammo a fare ricerche per presentare in classe figure di donne in ogni ramo del sapere, dalle scienze, alla filosofia, alla storia.

Domenico Starnone, noto per i suoi libri, fu uno dei primi ad accorgersi della novità portata da questo movimento e ne parlò più volte nella sua rubrica sul Corriere della sera (1995).

Un passo nuovo e diverso si produsse a metà degli anni ’90, quando in molte decidemmo di provare a rigiocarci nell’incontro con gli uomini e con donne non femministe. L’incontro politicamente più significativo fu tra me e Guido Armellini, un insegnante di scuola superiore di Bologna, molto impegnato nella riflessione sul mestiere dell’insegnante. Mi cercò lui, avendo letto di un convegno sulla valutazione organizzato nella sua città. Mescolammo le nostre reti: quelle che facevano capo al femminismo, quelle di Guido Armellini che si raccoglievano attorno alla rivista La terra vista dalla luna di Goffredo Fofi, e quelle del Coordinamento milanese delle maestre. Assieme demmo vita al movimento di autoriforma della scuola. Nell’autoriforma posso sì, in un certo senso, parlare di incontro tra femminismo e sinistra. Certo era una sinistra sui generis.

 

ALESSIO Posso fare alcuni esempi delle pratiche maturate in questi decenni: il primo riguardo ai saperi e al loro rapporto con la vita, su cui ha tanto insistito il movimento delle donne (“primum vivere”). Abbiamo cercato di modificare i programmi, rinunciando all’idea che si dovesse sapere tutto di una materia. Abbiamo cercato, invece, di fare spazio alla centralità dei ragazzi e ragazze, di dare tempo alla loro esperienza e alle loro domande di emergere e da lì costruire il nostro programma, il nostro percorso all’interno della materia.

E in effetti, perché alcune scuole elementari italiane sono molto apprezzate anche nelle graduatorie internazionali, e poi avviene il disastro alla scuola media, e quando arrivano alle superiori molti ragazzi e ragazze hanno già gli occhi vuoti? Perché in quelle scuole elementari c’è al centro il bambino e la bambina. E questo, spesso, è stato fatto dalle maestre più vicine o interne al movimento delle donne e da alcuni maestri, entrambi portatori di una cultura cooperativa, relazionale dell’educazione e dell’istruzione. Poi, man mano che si sale nei gradi dell’istruzione, la logica molto maschile dell’astrazione e della formalizzazione mette al centro le materie, mentre i ragazzi e le ragazze in carne e ossa sono schiacciati sempre di più ai margini e devono incamerare questa enciclopedia. Guido Armellini ha scritto che “le materie sono un terreno di dialogo”, nulla più che l’ambiente di una relazione viva.

E poi c’è tutta la questione della valutazione, parola che richiama l’idea del valore: ma a cosa, dare valore? Abbiamo cercato di sostenere e di valorizzare l’espressione soggettiva, il modo particolare, unico, con cui proprio quel ragazzo o quella ragazza cresce nel suo contesto, attraversa le relazioni tra pari e con noi adulti, conosce e si fa capace di stare al mondo. Penso che possiamo parlare solo di questo e in modo coinvolto, partecipante.

Ed è una grande battaglia culturale contro il mito della “valutazione oggettiva”, questa idea violenta di misurazione dell’umano, che nella scuola si traduce in livelli attesi e prove cosiddette oggettive date agli studenti, il che rimanda all’obiettivo della loro massima conformazione agli standards definiti da qualcun altro fuori contesto. È una marea che monta fino all’ultima frontiera delle prove Invalsi, che arrivano dalla luna per “valutare il sistema”, senza alcun rapporto con la vita concreta delle scuole, e alla fine stabiliscono graduatorie di merito tra scuole di serie A, B, C… (a cui probabilmente, in prospettiva, distribuire diversamente le risorse già molto scarse). Non importa, in tutto questo, se lavori con i ragazzi di Scampia o al carcere di Bollate o al liceo classico dietro il Duomo. Per non dire della selezione ancora selvaggia, degli alti tassi di insuccesso e di abbandono scolastico che, assieme a quelli molto bassi di mobilità sociale, fotografano l’ingiustizia nella scuola pubblica italiana.

 

VITA In effetti nell’autoriforma si sono incrociati molti percorsi diversi e sperimentate molte pratiche nuove. Posso parlare di incontro tra femminismo e sinistra perché ci siamo veramente messe e messi alla prova nello scambio tra le idee che avevamo maturato nelle nostre differenti storie, senza compiacenze, né reticenze. Assieme abbiamo organizzato incontri pubblici e scritture collettive di libri che hanno avuto notevole circolazione e hanno prodotto significativi cambiamenti nel modo di pensare e di vivere la scuola. I primi dieci anni sono stati molto intensi e hanno demistificato quell’idea di fallimento della scuola di massa che aveva afferrato i suoi stessi artefici, gli intellettuali di sinistra di quella stagione culturale.

Io stessa, nei miei scritti, man mano che capivo più a fondo le questioni, facevo i conti con alcuni temi di fondo del dibattito culturale della sinistra, temi che avevano ispirato anche me, quando ero una giovane insegnante. Sto pensando, per esempio alla celebreLettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana o alle Dieci tesi sull’educazione linguistica democratica, pilastro dell’insegnamento dell’italiano nelle nostre scuole. Sono critiche avanzate non per distruggere, ma per mostrare come su quegli stessi temi ci fosse un punto di vista femminile non coinvolto nel “fallimento” e capace di ripensare tutto. Per dirla in sintesi: come negli anni ’60 il punto di vista dei poveri ha simbolicamente ispirato una stagione culturale e politica, così oggi quello femminile ha le stesse potenzialità. Ma a questo livello l’incontro no, non c’è stato. La sinistra non riesce a vedere le potenzialità del femminile perché vede le donne solo come un sesso svantaggiato, discriminato, che deve raggiungere la parità con gli uomini. Ma questo è il Femminismo di Stato. Con quest’ottica considera la femminilizzazione della scuola uno svilimento della professione e non si accorge del cambiamento. Tranne qualcuno, l’intellettualità di sinistra preferisce crogiolarsi – e deprimersi – nella nostalgia del ‘68, oppure aderisce a quello che viene dall’Europa, senza un pensiero che dia senso.

 

ALESSIO Sì, qualcosa è andato perduto in quella sinistra. Perché, certamente, oltre ai tagli e ai licenziamenti di massa, ci potevamo aspettare che la rovinosa destra berlusconiana cercasse in un ventennio di piegare la scuola pubblica ai suoi interessi, soprattutto al suo mondo del lavoro ferocemente liberalizzato e precario. Il suo progetto politico è stato di riportarci agli anni ’50, con una nuova versione del doppio canale di allora: gli studi più completi, liceo e università e master, per le nuove élites; i percorsi brevi, cosiddetti tecnici e professionali ma deprivati di cultura, per tutti gli altri.

Ma anche quando il centrosinistra ha assunto il governo della scuola, che cosa ne è seguito, dopo la realizzazione della scuola di massa? Mi sembra sostanzialmente che il suo dna si sia perso, in una sorta di rincorsa alla cultura del nostro tempo, in cui ha stravinto il mercato. Perché anche da questa parte è tutto un linguaggio aziendalista nella gestione della scuola: per esempio l’idea del merito (mentre però si disinveste); oppure i “consigli di amministrazione” aperti alle imprese del territorio.

E poi, proprio nel fare scuola, c’è un atteggiamento di pretesa oggettivazione dei saperi, delle competenze e delle valutazioni. Come se questa “oggettività” fosse garanzia di qualità della scuola e dell’università. Mentre sostanzialmente questa cultura e questa istituzione della “sinistra di governo” non vede la parte migliore, la parte viva del processo, quella che personalmente ho condiviso di più con donne e uomini dell’autoriforma: cioè il rapporto tra l’educazione e la propria vita individuale, tra l’educazione e la messa in discussione della nostra società. Ancora oggi, mi sembra che ci sia molto bisogno di questa libertà e capacità di tessere relazioni, in una scuola pubblica statale che altrimenti, come istituzione, è allo sbando.

Fortunatamente, con tutto questo, rimane che la scuola la fa ciascuno di noi, uomini, donne, insegnanti e studenti. E se c’è consapevolezza di sé e della propria umanità, come degli ostacoli di questo sistema, allora può diventare un luogo di relazioni potenti. Ed è una soddisfazione profonda, quando alcune relazioni diventano un laboratorio di soggettività, di incontro delle differenze, di ripensamento del nostro mondo dal più vicino al più lontano.

Redazione

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