Le Marocchinate: dal martirio all’emancipazione di un popolo. La nascita del femminismo nella Ciociaria del Dopoguerra

di Simone Matteis

 

L’intento di queste brevi pagine è delineare un percorso storico – sociologico in grado di inquadrare il dramma delle cosiddette “marocchinate” all’interno del ben più vasto scenario internazionale volto all’emancipazione della figura femminile entro le maglie di una società tradizionalmente figlia di una cultura patriarcale fondata sul viricentrismo.
Grazie all’apporto di documenti scritti e audiovisivi si cercherà di porre in evidenza, al contempo, tenendo sempre presente il carattere drammatico e assolutamente delicato di quanto narrato, il fortissimo impatto che gli eventi del maggio del ’44 ebbero su un’intera popolazione storicamente lontana dai circoli intellettuali, politici ed economici attorno ai quali si costituì l’Italia del Dopoguerra: è la storia della Ciociaria e delle tantissime donne che con coraggio, forza d’animo, determinazione e grande prova d’amor proprio e nei confronti del resto della comunità riuscirono ad unirsi per uscire, tutte insieme, da un baratro altrimenti troppo profondo che le avrebbe fatto preferire la morte ad una vita di malattia, sacrifici e vergogna.
Un lavoro che, per quanto breve, necessiterebbe ancora di tante e tante pagine di approfondimenti e di sempre maggiori notizie per riportare il più possibile alla luce quanto accaduto durante quei giorni terribili, troppo a lungo dimenticati dalla storiografia ufficiale italiana e internazionale, oltre che dalla politica.
Perché essere Donna vuol dire avere coraggio, vuol dire non adagiarsi su di un mosaico culturale che ingabbi la figura femminile e la renda incapace di esprimere se stessa: vuol dire avere una forza che neppure le più brutali violenze sono in grado di mettere a tacere!
Scopriremo un femminismo che nasce dal basso, ex abrupto, e darà per la prima volta coscienza ad un popolo che sino ad allora non ne aveva avuto l’occasione né il tempo: perché la vita, quella vera e cruda di ogni giorno non ha lasciato evidentemente mai abbastanza spazio per riflettere su di sé, su cosa volesse significare essere uomini, essere donne, essere l’uno al fianco dell’altro ed essere, insieme, esseri umani.

“Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?”
(Olympe de Gouges, 1791)

Con questa citazione si apre il nostro breve percorso storico utile a delineare quella che era la situazione della Donna vigente in Europa e nel resto del mondo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, provando a scavare nella profondità delle viscere della Storia così da portare alla luce le tradizioni, gli usi e le credenze che hanno consentito l’affermazione dello status quo che andremo ora a delineare.
Parlare di Femminismo non basta, o meglio rischieremmo di risultare poco esaustivi dal momento che tale movimento e corrente di pensiero si scinde in due momenti, denominate “ondate”:
 la prima ondata (1870 – 1920) basata sull’emancipazione femminile (per una definizione di questo concetto, valga la definizione di Giardini secondo cui “la questione dell’emancipazione sarebbe consistita dall’uscita da uno stato di minorità, di cittadinanza incompiuta, nella rivendicazione di un’uguaglianza rispetto allo statuto politico e sociale di cui godevano gli uomini”);
 la seconda ondata (1970 – 1990) incentrata sulla liberazione femminile (fra le maggiori autrici che contribuirono alla letteratura femminista dei primi tempi vanno senza dubbio citate Carla Lonzi – autrice del Manifesto di Rivolta nel ’70 assieme a Bonotti e Accardi -, Passerini, Friedan, oltre alla francese Simone de Beauvoir della cui opera “Il secondo sesso”, edita nel 1949, si cominciò a parlare solo in questi anni della seconda metà del secolo).
Per il nostro obiettivo ciò che risulta più importante è analizzare principalmente la prima ondata, poiché antecedente allo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale durante il quale si verificarono i terribili atti di cui andremo fra non molto a parlare. Tuttavia per creare un filo conduttore che non ci allontani troppo dal nostro sentiero possiamo prendere in esame una delle proposizioni più celebri di Carla Lonzi e dell’intero Manifesto: “sputiamo su Hegel”. Questa frase così provocatoria, il cui significato risiede nella critica mossa dalla Lonzi alla dialettica hegeliana, colpevole a suo dire di non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale, mira a tagliare i ponti con il passato filosofico e politico: il femminismo di liberazione, che in Italia assumerà tratti rivoluzionari (“non c’è rivoluzione senza liberazione”) e avrà in Lonzi la maggior teorica trae comunque spunto dalle innumerevoli battaglie per l’emancipazione femminile che hanno caratterizzato il primo cinquantennio della prima ondata del femminismo.

Un breve quadro della situazione sociale europea sul finire del XIX secolo è il seguente: si può partire innanzitutto dall’intervento del Prof. Broggio il quale, in occasione della seconda lezione del Laboratorio di Lineamenti di Genere dell’a.a. 2017 – 2018 presso l’Università Roma Tre ha delineato lo sviluppo nel corso dei secoli del matrimonio, passato dall’essere una pratica privata gestita dalle famiglie a mo’ di transazione commerciale (con la sposa come oggetto) fino a diventare, solo nell’XI secolo, un sacramento della Chiesa cristiana (così da rendere necessaria la presenza di un parroco per la validità del matrimonio, a contrario di quando, precedentemente, bastava solo la presenza di un notaio); ci vorrà il Concilio di Trento (‘500) per dare vita al rito moderno, con l’esecuzione del quale venne inoltre regolamentata la sessualità prematrimoniale.
Con l’affermazione del matrimonio di matrice cristiana cominciano ad affermarsi anche i ruoli di genere all’interno della coppia, con l’uomo attivo che sposa e la moglie passiva che viene sposata, passando così dal’autorità del padre a quella del marito. L’etimologia del termine stesso matrimonio (dal latino mater munus) sta ad indicare, solo per la donna ovviamente, il divenire madre in una casa diversa da quella paterna; contro la incapacità di autogestirsi propria della figura femminile (stabilita dal Codice Napoleonico del 1801 e ribadita dal Codice Pisanelli in Italia nel 1865) si pronuncia nel Manifesto anche Carla Lonzi, la quale sostiene che “le donne son persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da una persona “capace” e “responsabile”: il padre, il marito, il fratello…” (naturalmente sempre di sesso maschile).
Nel passaggio dalla società feudale all’epoca della Rivoluzione Industriale e del conseguente inurbamento si è assistito alla divisione del lavoro pubblico, appannaggio maschile, e privato, di competenza delle donne: la figura femminile risulta quindi sempre più relegata alla sfera domestica, sempre più ingabbiata in una casa divenuta un luogo di sola abitazione e in cui “gode” di uno stato di minorità rispetto agli altri componenti della famiglia capeggiata come sempre dal pater familias, auctoritas di derivazione romana col dovere morale di mantenere la famiglia col frutto del suo lavoro e che, in virtù di questo, ne deteneva saldamente il pieno controllo disciplinare e morale. La città moderna, però, se da un lato esclude le donne dallo spazio pubblico, dall’altro le libera dai lavori più pesanti (il rifornimento di acqua alle fontane, ad esempio, viene sostituito dalla creazione di reti idriche dirette nelle abitazioni private), consentendo loro di avere anche più tempo, nella solitudine di una dimora disabitata fino al ritorno degli uomini dal lavoro, per riflettere sulla propria condizione di donne in quanto donne.

“E alle nature uguali non bisogna assegnare mansioni uguali?”
“Sì, uguali.”
Platone – “Repubblica“ (Libro V) [da F. Giardini, “Differenza, conflitto costituente”]

La Rivoluzione Francese aveva fatto ben sperare in merito alle questioni femministe dal momento che vi furono moltissime donne in prima linea – le cosiddette tricoteuse , donne attive e aggressive qualora prive del freno e del controllo maschile – molto attive durante le giornate più calde, come la Presa della Bastiglia: all’indomani della caduta della Corona francese la Costituzione del 1791 sanciva uguali diritti di successione ereditaria ed ammetteva le donne a testimoniare in tribunale. A queste “prime volte” si aggiunsero anche quelle stabilite dalle Leggi del 1792, che indicavano il matrimonio come un contratto civile, prevedevano l’uguaglianza dei coniugi dinanzi allo Stato ed addirittura il divorzio.
Da queste basi prende vita la prima ondata di femminismo che comincia a vedere la luce già nel 1848 con la celebre Dichiarazione di Seneca Falls in America, composta di 3 articoli di diritti politici e 7 articoli di diritti civili finalizzati all’ottenimento dell’uguaglianza giuridica fra uomini e donne, nati con uguali diritti inalienabili (idea che ha avuto origine nel pensiero di Platone, com’è testimoniato dalla sopracitata frase del filosofo greco), a difesa dei quali esistono gli Stati, chiamati quindi a fornire gli strumenti utili a ciascuno per sviluppare le proprie potenzialità. Dopo la Guerra Civile, sempre negli USA, negato il diritto di voto alle donne, esse si organizzarono per entrare gradualmente nel settore dell’istruzione e del lavoro così che nel ’73 l’Illinois promulgò il divieto di applicare discriminazioni su base sessuale per accedere a determinati lavori.

Il femminismo della prima ondata, chiaramente, aveva delle idee che, per quanto condivisibili, furono comunque aspramente criticate dal pensiero della seconda ondata che vedeva quelli non come dei tentativi di liberazione della donna, bensì tanti piccoli passi mossi da una spinta egualitaria che non teneva conto né tantomeno si preoccupava di far pesare e valorizzare la differenza che vi è fra Uomo e Donna né, ancora, la sua esperienza psicofisica del mondo: indipendenza economica e accesso alle diverse professioni non sono sufficienti – secondo Simone De Beauvoir – perché finché la donna non sarà in grado di cucire da sé i propri vestiti invece di indossare quelli da uomo allora non potrà veramente dirsi liberata da secoli di patriarcato, definito da Mc Kinnon come “vestigia che impediscono il riconoscimento sociale della donna”.

Delineato il quadro generale entro cui ci troviamo a riflettere sulla situazione femminile tout court, poniamo ora la nostra attenzione sulle condizioni socio-geo-politiche in cui versava il nostro Paese durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Va tenuto presente che il passato prossimo dell’Italia si era tinto per vent’anni di nero con la dittatura fascista, la quale per mezzo del proprio modello culturale propagandato fino all’inverosimile aveva attuato una radicale e potentissima manovra di condizionamento del pensiero dell’italiano medio (pena il confino o la morte, come testimoniano i vari Giacomo Matteotti, Altero Spinelli e Antonio Gramsci): in questa situazione del tutto nuova per la tutto sommato “giovane” Italia – se ne ricordi l’unificazione avvenuta nel 1861 – il risultato della totale ingerenza del fascismo nelle vite e nei pensieri delle persone fu la perdita di attenzione, a livello macroscopico, su tutte le battaglie vinte o comunque combattute durante la prima ondata del femminismo.
Nei primi anni ’40 numerose scelte politiche di Mussolini portarono all’ingresso dell’Italia in guerra al fianco della Germania, nell’ottica dell’alleanza passata alla storia come “Patto d’acciaio” (firmato il 22/05/’39 dai ministri degli Esteri Ribbentrop e Ciano). Il conflitto, però, vedeva le due potenze dell’Asse Roma – Berlino su due piani di forza militare e politica diversi, e alle decise offensive tedesche l’Italia rispondeva con timide imitazioni poi rivelatesi fallimentari, come la campagna di Grecia del 1941.
Più che un ruolo attivo, possiamo dire, l’Italia ebbe nostro malgrado un ruolo eminentemente passivo prima subendo la maggior rilevanza politica del Reich di Hitler, successivamente per essere stata teatro della fase cruciale che ha portato alla fine della Guerra: stiamo parlando della Campagna d’Italia, che mise in ginocchio il nostro Paese dal ’43 al ’45 rendendolo teatro di feroci scontri, bombardamenti a tappeto e violenze di ogni tipo perpetrate ai danni della popolazione locale.
Lo sbarco angloamericano del luglio ’43 in Sicilia condusse ben presto alla destituzione del fascismo, all’arresto di Mussolini e alla nomina da parte di Re Vittorio Emanuele III di un nuovo Capo di Governo, il maresciallo Pietro Badoglio; con l’armistizio dell’8 settembre, data divenuta proverbiale, l’Italia dichiarò la resa incondizionata delle armi e, de facto, gli Alleati ebbero il controllo militare di tutto il Meridione fino alla Linea Gustav, la linea difensiva sulla quale si attestarono i tedeschi nell’autunno del 1943 che andava da Gaeta alla foce del Sangro, tagliando dunque l’Italia in due.
Ed è proprio sulla Linea Gustav che ci fermeremo anche noi per arrivare al punto saliente di questo scritto.

“La guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile”
(Carla Lonzi, 1970)

Nel gennaio del ‘44, gli eserciti alleati giunsero di fronte alla linea Gustav e il generale britannico Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, decise di attaccare direttamente le difese tedesche nel settore di Cassino, punto nevralgico dell’intera Gustav; tuttavia non bastarono i feroci bombardamenti che portarono alla totale distruzione dell’antichissima abbazia benedettina di Montecassino per avere la meglio sui tedeschi, al punto che Alexander decise di giocarsi l’ultima carta a sua disposizione: penetrare la catena dei Monti Aurunci per aggirare Cassino e raggiungere la via Casilina che correndo lungo il territorio pianeggiante della Ciociaria arrivava direttamente a Roma. Ora, a svolgere questo compito così arduo, considerata la natura impervia del terreno, furono chiamate le truppe coloniali al seguito dell’esercito francese perché ci si rese conto che era più opportuno inviare truppe di montagna anziché divisioni corazzate.
L’esercito alleato annoverava infatti tra le proprie fila truppe d’assalto marocchine, algerine, tunisine e senegalesi rientranti nel Corps Expeditionnaire Francais (CEF) comandato dal generale Alphonse Juin (nato a Bona in Algeria); questi soldati erano denominati “goumiers”, in quanto organizzati in “goums”, ossia gruppi composti da uomini legati tra loro da qualche vincolo di parentela. Il noto scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun descrive i goumiers in questi termini: «Era soprattutto gente che viveva sulle montagne, i francesi li rastrellarono, li caricarono sui camion con un’azione violenta, di sopraffazione e li portarono a migliaia di chilometri da casa a compiere altre violenze».
E infatti, da quando la sera del 14 maggio del ‘44 partì l’attacco, fu un susseguirsi di inenarrabili atti di violenza efferata e brutale da parte delle truppe marocchine a danno della popolazione degli Aurunci, la quale (è d’uopo ricordarlo) attendeva con trepidazione la liberazione dai tedeschi. L’operazione militare soprannominata “Diadem” sembra essere stata preceduta da un famigerato proclama attribuito direttamente al generale Juin che, secondo la versione fornita dalla Associazione Nazionale Vittime Civili, recitava così «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete».
Sebbene storici come Giovanni De Luna e Jean Christophe Notin si siano pronunciati piuttosto scetticamente a riguardo, propendendo maggiormente per l’ipotesi che fosse stata lasciata carta bianca alle truppe del CEF piuttosto che pensare ad una proclamazione di un ordine del genere (soprattutto considerando la personalità di Juin, come hanno sottolineato l’ex presidente Algerino Ahmed Ben Bella ad un’intervista rilasciata alla storica Daria Frezza per la Rai e lo stesso Notin), è purtroppo innegabile che ogni paese attraversato dai goumiers divenne, in un limitatissimo arco temporale, teatro delle più crudeli e a volte davvero inspiegabili nefandezze e scorrerie. Nei giorni che seguirono la battaglia terminata il 17 maggio, infatti, le truppe marocchine devastarono interi paesi, violentando e uccidendo migliaia di donne di ogni età, dai quattro o cinque anni fino agli oltre ottanta. Tra le numerosissime testimonianze davvero crude, di quelle che fanno stringere lo stomaco e raggelare il sangue, si può riportare quanto accaduto a Vallecorsa, piccolo centro del frusinate, dove non furono risparmiate neppure le suore dell’ordine del Preziosissimo Sangue; come scritto dallo scrittore inglese Norman Lewis «Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino e Morolo sono state violentate. A Lenola (in provincia di Latina, nds) il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due – uno ha un rapporto normale, mentre l’altro la sodomizza (sebbene vi siano innumerevoli testimonianze dirette e indirette di violenze di gruppo, il che poteva significare 5-6 goumiers finanche a 50 o più)». Una brutalità davvero senza eguali, come si evince dalla testimonianza dello storico Tommaso Baris: «Numerosissime donne, ragazze e bambine vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi (diversi casi di furti di biancheria intima di donne e bambini – fonte Emiliano Ciotti, presidente Associazioni Nazionale Vittime Marocchinate) e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate e incendiate».
Notoriamente, però, il paese in assoluto più colpito fu Esperia (FR), strategicamente posto nel cuore dei Monti Aurunci: il piccolo centro collinare si trova infatti a sud di Cassino e a nord delle cime tirreniche della catena aurunca ricadenti nei comuni di Spigno Saturnia (anch’esso teatro di stupri a danno delle colonne di civili sfollati), Formia e Itri; superata Esperia i goumiers si diressero dunque agilmente attraverso la piana di Polleca in direzione della più vasta valle del Liri, dove appunto ricadevano tutti i paesi ciociari teatro della loro barbarie. Durante un convegno a Cassino il 12 novembre 1946, il sindaco di Esperia Giovanni Moretti, leggerà in un suo intervento: «Si contano 700 donne violentate, cioè la quasi totalità delle donne: tutte ammalate, e non vi dico di quale male! Molte morte, altre moribonde». Per rendere ancora più lampante l’orrore vissuto dalla popolazione di Esperia, valga quanto accaduto al parroco Don Alberto Terilli, il quale provò inutilmente a salvare tre donne da quelle crudeltà ma, una volta scoperto, fu legato ad un albero e sodomizzato per tutta la notte, morendo due giorni dopo a causa delle sevizie.
Delle tantissime violenze sessuali, molte furono compiute anche a danno di soggetti maschi, bambini o anziano che fossero, come ricorda il capitano dei Carabinieri Umberto Pittali nella sua relazione del 28 maggio 1944, denominandoli “atti contro natura” (per una panoramica più approfondita cfr. “Senza via di scampo – gli stupri nelle guerre mondiali” ad opera dello storico Michele Strazza); lo stesso Pittali denunciava anche il comportamento quasi totalmente lassista adottato dai vertici dell’esercito francese nei confronti delle truppe coloniali, lasciando così l’intera popolazione civile in balia di quei “demoni scatenati dall’aspetto animalesco e dall’odore nauseabondo” come riportato da diverse testimonianze. Va detto che nella cultura magrebina di quel tempo non solo la sodomia ma anche la pederastia e la zoofilia erano ampiamente accettate. Scriveva Malek Chebel, psicoanalista e psicopatologo clinico algerino a Parigi: «L’itinerario copulatorio del giovane maghrebino campagnolo comincia spesso nei lombi delle bestie che è incaricato di accompagnare regolarmente… Per le truppe africane agli ordini di Juin, le donne italiane [come tutte le occidentali] erano “gahba”, puttane, nel linguaggio franco-arabo».
Rousseau nell’Emilio scriveva che «la donna deve piacere all’uomo ma, al contrario, non è affatto necessario che lui piaccia a lei; non è la legge dell’amore, ma quella della natura ad essere la più forte» e la natura questa volta ha sicuramente vinto la tragica partita.

“Verginita’, castita’, fedelta’, non sono virtu’; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.”
(Calrla Lonzi, 1970)

Oltre ad essere state percosse e ad aver riportato gravi lesioni interne e esterne, a seguito delle violenze sessuali la quasi totalità delle donne (quelle che nel frattempo non erano perite) fu contagiata da malattie veneree, soprattutto sifilide, e per loro il vero dramma cominciava adesso: le vittime dovettero affrontare infatti il dolore di vedersi ben presto emarginate da una società di stampo altamente tradizionalista, patriarcale, cristiano cattolica e incentrata sull’onore famigliare (quello tentato invano di difendere dai tanti uomini uccisi o costretti ad assistere agli stupri a danno delle proprie figlie, mogli o madri). La psicologa Cinzia Venturoli sottolinea: «Lo stupro prima di essere considerato come una ferita al corpo e all’anima della donna vittima, era vissuto come un’offesa all’onore personale e familiare, un oltraggio rivolto all’onore e ai valori della comunità. A ciò si deve aggiungere il sospetto di collusione e di una responsabilità della donna che non era riuscita a difendersi e, quindi, a evitare la violenza sessuale. Sin dall’età moderna era andata infatti codificandosi, anche a livello giuridico, una tradizione che imponeva alla vittima dello stupro di dimostrare di avere opposto resistenza alla violenza (sull’esempio della vicenda della romana Lucrezia, narrata da Livio nel primo libro de “Ab Urbe condita”, nds), dando prova di onestà affinché su di lei non ricadesse il sospetto di un qualsiasi consenso».
Sinteticamente, a delineare il pensiero vigente all’epoca, in un territorio che ha storicamente avuto enormi difficoltà ad emanciparsi culturalmente e socialmente come la Ciociaria – in virtù della geografia del luogo e delle piccolissime comunità lì formatesi -, potrebbe essere sufficiente questa breve battuta tratta da “Marocchinate”, opera teatrale di Simone Cristicchi e Ariele Vincenti: «Ah mo’ piagni eh? Svergognata che sei! Sì fatta all’ammore cogli marrocchini…ma che figura mi sì fatto fa’ annanzi a tutto glio paese, eh?».
L’opinione pubblica condannava ovviamente quanto accaduto ma la grave ignoranza e assenza di apertura mentale in comunità così ristrette, nelle quali la quasi totalità delle persone erano anche unite da legami sanguigni, pesava come un macigno sul capo delle tantissime donne violentate e che, in seguito, riportarono “le malattie dei marocchini”, cioè le più disparate affezioni veneree.
Interessante è una breve digressione finalizzata all’analisi dell’idea maschile all’epoca dominante in un contesto sociale fondato sul patriarcato più arcaico: siamo lontani dalle città moderne, siamo lontani dai circoli letterari in cui si leggono i romanzi di formazione da cui scaturisce la figura del self-made man e siamo anche lontani dalla rincorsa alla rispettabilità borghese che finisce per tingere il mondo di quel grigiore sul quale Flaubert avrebbe voluto sputare, per citare il professor Lorenzo Benadusi. Niente di tutto questo, no. Ci troviamo in un’area montuosa dove il tempo è stato fermo per secoli e secoli, dove neanche la lingua italiana molto spesso era stata capace di affermarsi in oltre ottant’anni di unità del Paese. Ciò che ne deriva è dunque una ancor più netta divisione dei ruoli di genere inseriti in una società in cui il sessismo era senza dubbio l’unico modello culturale e comunicativo a disposizione della gente: l’uomo attivo e forte versus la donna passiva e debole. Stop. Fine della storia, con un perfetto quadro à la Rousseau.
La Chiesa, unica vera istituzione presente in questi territori altrimenti letteralmente dimenticati da Dio, almeno all’apparenza, ha sicuramente giocato un ruolo di grande importanza nel diffondere questi modelli comportamentali e di pensiero, avvalendosi anche delle tesi di alcuni fra i più grandi pensatori antichi e moderni (si ringrazia il prof. Gasparrini per aver trattato questo argomento durante l’ultima lezione del corso): l’idea aristotelica sulla passività femminile, in opposizione al ruolo attivo dell’uomo, verrà riformulata da Tommaso d’Aquino, secondo cui “la potenza generativa femminile prepara la materia mentre quella maschile le dà forma”; infine, relativamente alla questione degli stupri, una frase di Nietzsche può ben sintetizzare il pensiero dell’uomo virile in un contesto di patriarcato (il maschio α diremmo noi oggi): “La felicità dell’uomo è dire io voglio. La felicità della donna è dire egli vuole”.

“Chi ha il potere afferma: «Fa parte dell’erotismo amare un essere inferiore».”
(Carla Lonzi 1970)

Che non sia stato amore, questo appare sin troppo evidente che risulta anche banale sottolinearlo. Merita una riflessione invece il termine “inferiore” scelto dalla Lonzi e che, purtroppo, ben delinea la situazione drammatica vissuta dalle centinaia di marocchinate: nel simbolismo bellico, infatti, prendere con la forza la donna del nemico, impossessarsi di lei e disonorarla perpetrandole violenza ha un valore estremamente potente nell’immaginario collettivo di qualsiasi contingente militare del tempo (e non solo…), e ricollegandoci all’affermazione di Chebel proveremo adesso a spiegare cosa è significato per i goumiers violentare le donne di Esperia, Spigno, Lenola e dell’intero comprensorio aurunco e della Valle del Liri.
La figura femminile, ma anche i bambini, piccoli e impotenti di fronte all’impeto selvaggio e brutale delle truppe coloniali, diventavano simboli della fragilità dell’Italia intera, del nemico tedesco in fuga, ma probabilmente non era neppure questa la motivazione principale che spinse i goumiers a comportarsi con tanta ferocia. Avere la possibilità di depredare e uccidere a piacimento, di unirsi carnalmente a chiunque si incontrasse lungo il cammino doveva significare la fine di un lungo periodo di repressione e sofferenze per quei soldati duramente tenuti sotto controllo in condizioni quasi di prigionia nel periodo prima della battaglia (i loro accampamenti venivano recintati con filo spinato e severamente controllati dai militari inglesi proprio per evitare situazioni del genere ante tempo, e questo evidentemente testimonia che i comandi alleati fossero ben a conoscenza della loro indole aggressiva e spietata).
Lungi dal giustificare con questo comunque non debole argomento quanto accaduto, è indubbio che “sfogare la propria libidine” sulla donna italiana rendeva meglio di qualsiasi altra cosa il senso di vittoria e di conquista, e le risate che contornavano quei momenti drammatici, riportate da moltissime donne seviziate, sono probabilmente la più cruda la dimostrazione di tutto ciò: finita la guerra, i vincitori, forti del diritto di preda vigente presso la quasi totalità delle loro tribù di provenienza sulle montagne del Maghreb, potevano fare ciò che volevano … e lo sfogo sessuale è stata nostro malgrado la loro prima e più desiderata ambizione, a esclusivo danno fisico e morale della popolazione civile, inerme e già abbondantemente sconvolta da mesi di scontri, mobilitazioni e bombardamenti.

“Per il piacere di chi sono rimasta incinta?”
(Carla Lonzi – cit. da Federica Giardini)

L’aspetto più drammatico delle violenze perpetrate dai goumiers risiede esattamente nella dinamica dello stupro, in come è avvenuto e in quali condizioni igieniche, oltre naturalmente alla brutalità insita nell’atto stesso: tante donne hanno raccontato di essere state violate per terra, sul pavimento o in mezzo ai cespugli, altre invece sono state malmenate fino a perdere i sensi prima che i soldati del CEF ne facessero scempio, ma la triste realtà è che tutte, nessuna esclusa, sentirono ciò che veniva fatto loro, e a tal proposito possiamo scomodare proprio il celebre romanzo “La Ciociara” di Alberto Moravia, che in uno dei passi più noti recita così: «quell’uomo terribile non era riuscito a fare quello che voleva perché io avevo dato quella strizzata, e lui mi aveva battuto la testa ed io ero svenuta: si sa che è difficile maneggiare una donna svenuta. Ma non mi aveva fatto niente, anche perché come ricostruii in seguito i compagni lo avevano chiamato per tenere ferma Rosetta, e lui mi aveva lasciato, e c’era andato, e si era sfogato come tutti gli altri su di lei… Rosetta non era svenuta e tutto quello che era successo lei l’aveva veduto con i suoi occhi e sentito con i suoi sensi.».
Non c’è amore – com’è stato già ribadito – e non c’è neanche la benché minima accortezza nei confronti della tante, troppe donne che furono violentate in quelle poche ma interminabili ore di caos totale, di inferno: “erano dei diavoli” è stato detto da qualcuno, mentre più di una testimone si è concentrata suo malgrado sul loro odore insopportabilmente acido, un misto di sudiciume, sporcizia e sudore, tanto che la sig.ra Ada Zomparelli, residente ad Amaseno (FR) ed intervistata da Piero Marrazzo per RaiTre, nel riportare i crudi dettagli della violenza sessuale subita all’età di 24 anni, li accostava ai “porci” per il loro odore disgustoso. In più va considerato che molti di loro indossavano un lenzuolo bianco e nient’altro, e questo com’è ovvio comprendere andava ulteriormente a gravare sulle loro già precarie condizioni igieniche, pertanto oltre alle conseguenze prettamente fisiche legate alla deflorazione (perché moltissime vittime erano vergini al momento delle violenze), bisogna mettere in conto anche le innumerevoli infezioni legate appunto alle più che precarie condizioni igienico sanitarie in cui versavano i goumiers, tenendo infine presente anche i danni derivati dalle percosse e dagli atti brutali e disumani di sodomizzazione per mezzo di arnesi o armi, a danno delle donne quanto degli uomini.
Tenendo conto del fatto che le donne in questione sono state vittime di violenze sessuali, dunque di rapporti inequivocabilmente forzati e indesiderati, possiamo soffermarci brevemente ad analizzare quello che è il pensiero della Lonzi a proposito della sessualità femminile (e quindi applicabile anche in questi casi, visto e considerata la totale assenza di riguardi verso la donna, il suo corpo e il suo intendere la sessualità); un aiuto ci viene in questo caso dal saggio di Franco Restaino “Carla Lonzi: Il Femminismo, Avanguardia Filosofica di Fine Secolo”.
Restaino si sofferma lungamente sulla figura della Lonzi e offre una interessante panoramica sulla sua opera “La donna clitoridea e la donna vaginale”: pubblicata nel 1971, in essa viene fornita una variegata analisi sulla situazione – certamente minoritaria – in cui si trova a vivere la donna di metà novecento, culminando in una critica alla maternità e all’eterosessualità “vaginale” imposta dal dominio patriarcale come unica e “naturale” pratica sessuale, per culminare in una rivendicazione di una sessualità libera e polimorfa come pratica di autonomia femminile e di liberazione da quel dominio.
” Ma noi sappiamo che quando una donna resta incinta, e non lo voleva, ciò non è avvenuto perché lei si è espressa sessualmente, ma perché si è conformata all’atto e al modello sessuale sicuramente prediletti dal maschio patriarcale, anche se questo poteva significare per lei restare incinta e quindi dover ricorrere a una interruzione della gravidanza”. L’idea di fondo della Lonzi è che il sistema patriarcale maschile abbia imposto il proprio modello sessuale incentrato sul piacere – anch’esso “declinato al maschile” – coincidente con l’atto del coito, che sebbene per l’uomo corrisponda al punto di massimo godimento sessuale, per la donna è invece soltanto una sfumatura, una porzione del piacere: la donna è infatti clitoridea secondo Carla Lonzi, che dunque individua nel clitoride e non nella vagina il luogo deputato al piacere maximo della donna e, di conseguenza, ritiene essere di gran lunga più piacevole un orgasmo derivante dalla stimolazione diretta di quest’organo piuttosto che dalla stimolazione delle pareti vaginali a seguito della “tradizionale” penetrazione. La donna è stata costretta, nel sistema patriarcale di ultramillenaria durata, ad accettare e a introiettare anche sul piano psichico il primato, anzi il carattere esclusivo, della eterosessualità vaginale, funzionale al piacere e al dominio maschili, mentre la sessualità clitoridea risultava condannata e demonizzata.

Le violenze cruente, brutali, perpetrate con l’intento di sfogare lunghi periodi di tensione fisica e psichica vissuti dalle truppe coloniali del Generale Juin hanno falciato inesorabilmente una intera popolazione a partire dalla base, dalle donne, dalle ragazze e dai bambini, marchiandone per sempre l’esistenza e condizionandone il prosieguo dei loro giorni: non furono poche le donne che rimasero gravemente mutilate per la ferocia di quanto subito, così come elevatissimo fu il numero degli aborti a “tutela” del già citato onore familiare, e anzi il più delle volte queste interruzioni di gravidanza venivano effettuate in gran segreto per tenere nascosto ai mariti che erano in guerra in quel momento quanto accaduto. Nessuna attenzione né preoccupazione, solamente il godimento più sfrenato, irrazionale e istintuale fu perpetrato dai goumiers, e interi paesi risultarono assai più sconvolti e ridotti in povertà da quelli che avrebbero dovuto essere i liberatori (“Aspettavamo gli americani, tutti dicevano: «ecco che arrivano gli americani” ma poi quando li abbiamo visti da vicino abbiamo capito che non erano americani, erano neri!» – cit. Sig. Arturo Mandarello in “Solo Silenzio”, Rai Storia).

“Eraclito, interrogato dai concittadini sulla concordia in città, anziché parlare,
agita e beve il kikeon, composto di farina e acqua che, solo se agitate, si mescolano.
Solo assumendo la divisione, la partizione come dimensione prima, è possibile produrre dell’uno:
la salvezza della città implica il movimento di ciò che è separato, la concordia non ha nulla di statico.”
(aneddoto riportato da F. Giardini in “Differenza, conflitto costituente”, pag. 233)

Il 13 settembre 1944, pochi mesi dopo la liberazione di tutto il basso Lazio, la Direzione Generale della Sanità Pubblica in una nota al Ministero dell’Interno definirà “penose” le condizioni di 1100 donne della provincia di Frosinone e 2000 della provincia di Littoria (oggi Latina) “che a seguito delle violenze subite dai marocchini, sono state contagiate da affezioni veneree (circa l’80% secondo quanto riportato da Aldo Simone de “Il Messaggero”), oltre ad essere state rese per la maggior parte in stato interessante”.
Alla fine della guerra il comando francese concesse un indennizzo per tutte le vittime civili pari a 150 mila lire, all’epoca corrispondenti al prezzo di una mucca – dettaglio riportato da tantissimi testimoni – e per le donne violentate c’era la possibilità di ricevere una pensione di guerra proprio in quanto vittime civili, ma i tempi interminabili per le pratiche burocratiche e l’impossibilità di accumulare tale indennizzo con la normale pensione rendeva questa opportunità un vero e proprio miraggio.
Il dopoguerra divenne così un calvario per le centinaia di donne stuprate e ammalatesi o rimaste incinte a seguito delle violenze, ma è qui il punto culminante di questo percorso che ci ha portato gradualmente alla scoperta e all’analisi di quanto accaduto in quelle giornate disgraziate sui monti e nelle campagne della Ciociaria: «per queste donne non c’è conforto possibile: si devono nascondere, come se si sentissero infette anche moralmente!» proferì in Parlamento l’on. Luigi Preti del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, ma le ciociare, giovani e meno giovani, non si abbandonarono ulteriormente all’oblio cui sarebbero state senza dubbio condannate da una società chiusa e estremamente tradizionalista; non permisero a modelli superstiziosi intrisi d’ignoranza e sessismo di occludere loro le già limitatissime aspettative di un’esistenza illuminata dalla gioia, nossignore. Nell’ottobre del 1951 centinaia di donne provenienti da tutta la Ciociaria si riunirono a Pontecorvo per denunciare, in un convegno, la loro condizione di miseria e le violenze sessuali subite, dimostrando per la prima volta nella storia dell’intero territorio un “inedito protagonismo”, con le donne che, seguitando nel citare lo storico Giovanni De Luna, “sono al centro della Storia in una doppia, inscindibile veste di vittime e protagoniste”.
Ecco dunque uscir fuori la vera forza di queste donne, chiamate molte di loro in giovanissima età a dover far fronte ad un dramma senza precedenti, e per uscire dal baratro di abbandono e dalla spirale del silenzio entro cui stavano precipitando sempre più inesorabilmente trovarono il coraggio di far sentire la propria voce, di produrre quei tagli contro la legge – qui intesa come cultura e tradizione – per combattere il paradosso del sessismo democratico di cui ha parlato la prof.ssa Anna Simone, intervenuta durante la terza lezione del corso: tante donne con “molta rabbia, molta passione e molto impegno” (Angelo Compagnoni, ex senatore) praticarono per la prima volta uno squarcio nel velo che da secoli obnubilava il panorama della loro società, ben descritto da Baris con queste parole: «incapaci di affrontare le mille contraddizioni aperte dagli stupri nel loro sistema culturale, gli abitanti dell’area non furono in grado di rapportarsi con la loro storia più recente, preferendo oscurare la vicenda e lasciando ai singoli l’elaborazione della memoria».
Agitatesi come il kikeon eracliteo così da formare dell’uno, una unità solida e compatta per la salvezza e l’emancipazione propria e delle loro comunità, diedero vita ad una vera e propria rivolta che richiamava il titanico scontro di Antigone contro le leggi dello Stato pur di seguire le leggi del cuore, che avevano per lei un valore indiscutibilmente più elevato.

“Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile,
ma esprimere il suo senso dell’esistenza”
(Carla Lonzi, 1970)

Il 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi, presidente dell’Unione Donne Italiane, intervenne in Parlamento per mettere finalmente al corrente l’Italia intera di quanto accaduto in quei tragici giorni del maggio del ‘44, e in conclusione del nostro percorso val bene riportarne un breve stralcio riguardante proprio l’iniziativa collettiva che sancisce, si può dire, la fine del lungo periodo di silenzio frutto di vergogna, paura e insicurezza, e un nuovo inizio per tante donne che, finalmente, cominciarono a ragionare su di sé e sulla propria condizione di donne in quanto donne: «A Pontecorvo il 14 ottobre scorso ebbe luogo un singolare convegno (…) cui parteciparono le rappresentanti delle 60 mila donne che a suo tempo hanno presentato domande in qualità di vittime civili della guerra, motivate da violenze e danni di vario tipo. Io ho partecipato a questo Convegno e ho visto le 500 contadine venute dai villaggi e dai paesi della piana e delle montagne circostanti. Molte avevano camminato per ore ed ore a piedi per arrivare in tempo a Pontecorvo, e non avevano certo mai partecipato in vita loro ad una riunione né tanto meno parlato da una tribuna. Né, credo, queste contadine, queste montanare, che ricordano ancora coi loro costumi le ciociare di un tempo, cosi ritrose e fiere, avrebbero mai voluto parlare addirittura in un convegno di fronte a tutti della loro mostruosa disgrazia. Invece, sono state costrette a fare così. E con quale serietà esse hanno esposto i loro casi dolorosi!».
È stato dunque il movimento delle donne, storicamente mai state un “gruppo sociale omogeneo e compatto come altre realtà socialmente oppresse” (da F. Castelli – Pratiche di rivolta sessuata), a permettere di cominciare a guardare con occhi diversi, carichi di responsabilità e coscienza di sé, a quella che è rimasta e rimarrà per sempre una ferita insanabile nelle loro vite e nella memoria collettiva di una intera comunità, in grado di stringersi e mostrarsi unita nel soffrire ma anche nel risollevarsi, insieme, anticipando di diversi decenni quel WETOOGETHER che è diventato di recente il grido di battaglia dell’associazione “Non una di meno”: uno slogan che mira a riunire la collettività delle donne esattamente come avvenuto quel giorno d’ottobre a Pontecorvo, dove spontaneamente confluirono per la prima volta centinaia di donne che mai prima di allora avevano partecipato ad un’assemblea.
Siamo giunti così alla fine di questo breve ma denso percorso, per affrontare il quale è richiesto magari un animo forte, perché leggere (e scrivere) oggi, a distanza di anni, con tutte le nostre agiatezze e comodità, di tali avvenimenti violenti, brutali, loschi, meschini, mortiferi e truculenti fa davvero raggelare il sangue. Ma deve far riflettere, ed è questo l’obiettivo principale di queste pagine, muovere le coscienze di chiunque legga ed instillarvi il senso del dovere morale di custodire questa memoria così cruda ma così estremamente delicata, che ha toccato nella più personale intimità migliaia di persone, uomini, donne, vecchi e bambini, a noi lontani nel tempo e vicini, oltreché nello spazio, nella eguale esperienza quotidiana di umanità. Una vicenda per troppi anni taciuta non solo dalle comunità locali, per i motivi già abbondantemente discussi, ma anche – ed è la cosa più grave – dalle Istituzioni nazionali, completamente in silenzio in merito all’accaduto sino al 2004, quando l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a Cassino in occasione del 60° anniversario della Campagna d’Italia ha tributato alle vittime delle marocchinate un risarcimento morale troppo a lungo atteso: «La memoria di quelle sofferenze che solo un grande romanzo ed un grande film hanno avuto il coraggio di raccontare è una delle motivazioni di fondo della volontà di riscatto del Dopoguerra.».
Ancora oggi la memoria di quei fatti è essenziale per noi e per i nostri figli: con queste stesse parole con cui termina l’intervento di Ciampi possiamo concludere anche noi la nostra riflessione su un argomento che, come si è visto, ha incontrato silenzio ed omertà a tutti i livelli della intera società italiana, ora perché tabù famigliare e culturale, ora perché soggetto al rischio di una strumentalizzazione a sfondo razzista (come riportato dalla testata online “L’Undici” in riferimento agli schieramenti politici di sinistra, che temevano appunto questo). Un argomento ed una vicenda, però, che è bene riportare alla memoria dei giorni nostri e non solamente per celebrare ancora una volta il martirio di una intera popolazione inerme e indifesa, ma anche per riflettere sulla condizione in cui versa il nostro mondo attuale dove paura del diverso, sentimenti xenofobi e visione della donna come “possesso” e oggetto sessuale sono purtroppo continuamente in fieri; in un susseguirsi vorticoso e inarrestabile di violenza e rabbia nei confronti delle donne, in cui il termine femminicidio è entrato praticamente nella cronaca quasi giornaliera delle principali fonti d’informazione, è giunto probabilmente il momento di caricarsi sulle spalle il testamento storico ereditato dalle tante e fiere ciociare per non dimenticare e per provare a dare a questo nostro mondo un aspetto più umano, più equo e meno terribile. Scriveva Moravia nel suo romanzo che «uno dei peggiori effetti delle guerre è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà», mentre una delle battute più famose e dense di significato della trasposizione cinematografica ad opera di Vittorio De Sica riassume drasticamente, potentemente e definitivamente tutto il nostro percorso: «basta soffrire», e che la memoria ci venga in sostegno!

 

Bibliografia:
 Associazione Non Una Di Meno – “Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e violenza di genere”;
 Castelli, F., – “Pratiche di rivolta sessuata”, in F. Castelli, Corpi in Rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica” (https://www.che-fare.com/pratiche-di-corpi-in-rivolta);
 Giardini, F., Differenza, conflitto costituente
(http://romatrepress.uniroma3.it/ojs/index.php/babelonline/article/viewFile/1073/1064);
 Lonzi, C., Manifesto di Rivolta Femminile;
 L’Undici.it – “Quando arrivarono i marocchini” (http://www.lundici.it/2016/02/quando-arrivarono-i-marocchini/) e relativa bibliografia
 Moravia, A., La ciociara;
 Platone – “La Repubblica” (libro V):
 Restaino, F., Carla Lonzi: Il Femminismo, Avanguardia Filosofica di Fine Secolo;
 Strazza, M., Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali;

 Per gli argomenti trattati durante le lezioni del corso, cfr:
o Giardini, Castelli, Balzano, Rossini, Stellifferi (02/03 – emancipazione e cronologia del femminismo);
o Broggio (09/03 – storia e risvolti sociali del matrimonio);
o Venditti, Simone (16/03 – inclusione/esclusione);
o Gasparrini, Benadusi (24/03 – maschilismo & filosofia, da Aristotele a Nietzsche).

 Videografia:
 La cronaca in Diretta (Rai Due) – “Le Marocchinate ad Amaseno (https://www.youtube.com/watch?v=taCR7FlwR5k).
 La Storia siamo noi – “Bottino di guerra: le Marocchinate” (https://www.youtube.com/watch?v=yxTW50VA-TY);
 Rai Storia – “Solo silenzio: le Marocchinate”
(https://www.youtube.com/watch?v=Yo4s_fmyTy4);

Redazione

Del comitato di redazione fanno parte le responsabili dei contenuti del sito, che ricercano, selezionano e compongono i materiali. Sono anche quelle da contattare, insieme alle coordinatrici, per segnalazioni e proposte negli ambiti di loro competenz (...) Maggiori informazioni