“Comunarde. Storie di donne sulle barricate” di Federica Castelli

“Comunarde. Storie di donne sulle barricate” di Federica Castelli

di Ludovica De Joannon e Valentina Riolo

Una premessa fondamentale: questa non è una recensione. 

Non lo è perché sarebbe riduttivo per noi scrivere “qualcosa su” questo testo, farne un resoconto o un elenco dei temi trattati. Ci proponiamo, piuttosto, di attraversarne le pagine e di scrivere “qualcosa con”, entrare in relazione con il libro stesso e con chi l’ha scritto, raccontando cosa ci ha appassionate, accese o fatto sentire scomode, cosa ha risuonato a contatto con i nostri vissuti. 

D’altronde, come Federica Castelli dichiara fin dalle prime pagine, anche il suo posizionamento è “situato, imperfetto, appassionato” e vive di studi e di attivismo, di teorie e pratiche che si incontrano, accendono nuove scintille e ri-orientano continuamente lo sguardo di partenza.

In Comunarde. Storie di donne sulle barricate (Armillaria, 2021), l’esperienza della Comune ci viene restituita nella complessità delle diverse posizioni, stratificate sia all’interno di un gruppo profondamente eterogeneo (come quello delle comunarde), che nel rapporto tra classi e generi ri-articolato nella dimensione della lotta, nella ri-appropriazione conflittuale degli spazi pubblici (tema da sempre caro all’autrice).

In effetti, insistere su quella che Castelli definisce la “trasversalità del patriarcato” è una pratica importante che non solo interroga ma rompe il nesso patriarcale scontro-violenza, riportando al centro il valore orizzontale e diffuso del conflitto e il suo rapporto con la forza. 

Tra le pagine dedicate alla nascita della Comune, infatti, il racconto dell’alba del 18 marzo 1871 rappresenta un momento di rottura perché segna un passaggio storico dirompente: le donne che attraversano le strade della periferia parigina si accorgono che i soldati del governo Thiers hanno occupato i punti strategici dei quartieri popolari e vogliono requisire le armi, tra cui i cannoni di Montmartre. Invece di limitarsi a dare l’allarme e ad aspettare rinforzi, decidono di esporre i propri corpi creando una barriera tra i soldati e le armi e cercano un dialogo con loro. È così che, irrompendo come soggetti imprevisti sulla scena, danno vita a tutti quegli avvenimenti successivi di cui la Storia ufficiale ha restituito una versione parziale e mistificata. 

La Comune di Parigi è una sperimentazione potente, vivace, creativa, ma anche durissima. Non punta alla presa di potere e all’occupazione delle istituzioni, ma spacca completamente il previsto, rendendo possibili modalità inedite di stare insieme e autogestirsi. L’associazione politica è quindi agita sul piano locale e scompagina le logiche di una sovranità esercitata dall’alto.

Nella sua lettura, Castelli permette alla città di Parigi di staccarsi dallo sfondo, farsi agente, mostrandoci l’interazione tra strade, quartieri, edifici e l’azione collettivo-diffrattiva di tutti quei corpi che vivono nella e con la città stessa.

La decostruzione non solo simbolica, ma soprattutto materiale del binarismo a partire dai corpi e dagli spazi urbani in rapporto metabolico è un nodo interessante su cui questo saggio pone l’accento. Le strategie di rimozione e disciplinamento delle soggettività scomode, infatti, propongono continuamente la grammatica del centro-periferia, dentro-fuori, incluso-escluso, legittimo-illegittimo. E quindi tutta una serie di binomi che portano a polarizzare lo scontro, secondo una modalità di conflitto frontale normata che le comunarde, come ricorda Castelli, hanno saputo risignificare già dall’alba di quel 18 marzo.

La città è allora organismo, pulsante, caldo, incendiato dal passare delle pétroleuses la cui narrazione stereotipata – le pazze, le bestiali e irrazionali incendiarie – rientra perfettamente in una precisa strategia che non sfugge a sguardi allenati: la rimozione, nella dimensione impolitica, di chi, con la sua sola presenza, crea storture, buca i drappi pesanti di una rappresentazione che è sempre, eminentemente, capitalistico-patriarcale.

È questo un altro intreccio centrale nel testo che, infatti, dedica pagine preziose allo smascheramento della misogina che pervade le descrizioni delle donne che iniziarono e animarono la Comune. Anche l’esperienza stessa della Comune di Parigi, nonostante le grandi prospettive schiuse, rimane imbevuta di sessismo. Con un salto per nulla a vuoto ma ben attento alle dinamiche contemporanee, Castelli mette a tema una contraddizione ancora irrisolta e fortemente problematica: da una parte, il disciplinamento borghese-ottocentesco che riduce le donne a passive, emotive, relegate nella domesticità; dall’altra, quello sanzionatorio, che condanna le furiose, le isteriche, le selvatiche, le dissolute.

Sante, puttane, furiose, sanguinarie, bestie, streghe, virago. Eppure, nonostante questa fittissima cortina innalzata su di loro dallo sguardo maschile, le comunarde oggi possono dirci e insegnarci davvero moltissimo (p.131).

Quello che ci ha animate e trasportate, fin dall’inizio, è la materialità di un desiderio dichiarato dall’autrice che intreccia l’esperienza parigina del 1871 con la complessità dei femminismi contemporanei, mettendo in relazione quelle contraddizioni che viviamo quotidianamente sui nostri corpi e negli spazi che occupiamo, immaginiamo e costruiamo insieme ad altrə. 

È questa la prospettiva entusiasmante con cui abbiamo conosciuto le Comunarde, accompagnate da un testo in cui anche i ringraziamenti ci ricordano quanto la geografia umana e territoriale presente in ogni pratica (compresa quella della scrittura) non sia mai secondaria ma anzi ne costituisca il cuore pulsante. 

Qui la scheda del libro sul sito della casa editrice Armillaria