“Femminismo e neoliberismo” – Per una via d’uscita dalla logica indebitante e colpevolizzante del capitalismo. Intervista a Elettra Stimilli.

A cura di Valentina Riolo

Elettra Stimilli è ricercatrice presso la Sapienza Università di Roma. È autrice di numerosi saggi incentrati attorno al rapporto tra religione e politica con particolare attenzione ai legami tra il pensiero italiano contemporaneo e alla più recente produzione filosofica francese e tedesca. I suoi scritti più recenti si concentrano sul nesso tra “debito” e “colpa” e su come concetti di natura economica abbiano anche una ricaduta fortemente morale.
L’intervista qui di seguito fa riferimento proprio all’opera Debito e colpa (Ediesse, 2015) e nasce dalla lettura del testo in vista di un esame di filosofia morale, dall’incontro con l’autrice in occasione di una lezione tenutasi durante un corso di filosofia politica e dai vari riferimenti al femminismo e ai testi di autrici femministe presenti nello scritto in questione.
Nella convinzione che i diversi ambiti della filosofia e i diversi femminismi possano creare un dialogo proficuo solo attraverso lo scambio, la condivisione e l’interazione: in poche parole, solo attraverso la messa in comune.

 

    Valentina: Sin dall’introduzione del testo, si può capire perché sia interessante leggere il suo lavoro con un approccio femminista. Infatti, fa riferimento all’importanza che hanno avuto le discussioni nate in occasione del seminario su “Femminismo e neoliberismo” tenutosi presso l’Università di Salerno nel 2013. Quali sono state quelle che più hanno contribuito a indirizzare le sue ricerche in vista della stesura di questo testo?

    Elettra: Quando, nel 2013, ho partecipato al seminario che si è svolto presso l’Università di Salerno, avevo già lavorato sul tema del debito per il libro Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet, 2011). I curatori della Collana «Fondamenti» della casa editrice Ediesse mi avevano proposto di ritornare sul tema mettendo a fuoco il nesso tra «debito» e «colpa», come ho fatto nel libro a cui fa riferimento la sua domanda. Era il momento in cui la Grecia, insieme ad altri paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, si trovava a rischio di default. «Austerità» era la parola d’ordine che prevaleva nelle politiche economiche europee guidate dal «modello tedesco», promotore di una visione «colpevolizzante» dei paesi indebitati. Di qui il legame tra il «debito» e la «colpa» che veniva richiamato con grande naturalezza ogni giorno nei media e che mi veniva chiesto di indagare.
Ho trovato interessante la proposta di partecipare al seminario di Salerno, anche perché le organizzatrici e poi curatrici del volume che è stato pubblicato (Femminismo e neoliberismo, Nathan edizioni, Benevento 2014), Tristana Dini e Stefania Tarantino, a partire dal lavoro di Angela Putino – pionieristico non solo in Italia – avevano avuto modo di approfondire, da una prospettiva femminista, i mutamenti radicali dei modi capitalistici di produzione e gli effetti sulle vite individuali delle politiche neoliberiste. Un confronto sulla crisi economica e sul tema del debito all’interno del dibattito femminista è risultato per me fondamentale per mettere maggiormente a fuoco le trasformazioni in atto (si pensi, ad esempio, al fenomeno della cosiddetta «femminilizzazione del lavoro»), nel tentativo di trovare trampolini di lancio per una critica al presente.
Oltre agli interventi di Laura Bazzicalupo, Ida Dominijanni, Federica Giardini, che ho ripreso esplicitamente nel mio testo, ricordo in particolare la discussione finale, che è stata molto fertile per un confronto con l’attualità e la radicalità della pratica femminista. Credo che la prospettiva femminista, l’idea che «il privato è politico» trovi oggi un importante terreno di azione, nel momento in cui con le politiche neoliberiste si è imposta, come paradigma di governo, proprio una dimensione soggettiva, quella dell’imprenditore di sé, e sono state proprio nuove forme di indebitamento privato a generare in maniera inedita una crisi economica mondiale.

 

    Valentina: Nella parte in cui rende conto e commenta La fabbrica dell’uomo indebitato di Lazzarato, fa riferimento ad un’“asimmetrica relazione” tra le figure di “creditore” e “debitore” che starebbe alla base delle relazioni sociali: il rapporto che si instaura non è solo economico ma piuttosto morale e l’economia (capitalista) stessa è da intendersi come qualcosa che prevede la produzione e il controllo della soggettività e delle sue forme di vita. In questo senso, è possibile vedere al posto della coppia creditore/debitore quella di uomo/donna? Cerco di spiegarmi meglio: in riferimento agli stereotipi di genere, si può pensare alle donne come già “colpevoli” dalla nascita per il solo fatto di appartenere al genere femminile e per questo “in debito” perché devono colmare questo deficit nei più svariati modi (e penso alla pretesa del lavoro domestico, alla retribuzione minore a parità di ore e di lavoro svolto, alla presunta impossibilità di fare determinate cose “in quanto donne”, etc…), rispetto agli uomini che quindi nascono già avvantaggiati, “in credito” potremmo dire.

   Elettra: A mio parere, la crisi del debito ha definitivamente dimostrato come i rapporti di produzione, per acquistare valore, presuppongano e si collochino in un ambito più ampio: insieme al dominio della riproduzione e della cura, sono coinvolte relazioni etiche, morali, rapporti di forza e relazioni sociali che, pur appartenendo a pieno titolo al piano economico e politico, non si esauriscono nella sua dimensione materiale e strutturale. Allo stesso modo, dunque, possiamo dire che i rapporti subordinanti che si instaurano all’interno dell’economia materiale presuppongono le relazioni di genere, che a tutti gli effetti molto spesso prendono la forma di rapporti simili a quello tra debitore e creditore.

 

   Valentina: A p. 153 scrive: “il punto allora sta nel comprendere cosa implichi il fatto che un debito economico possa essere associato a una colpa […] una situazione difficilmente emendabile che, da un lato, si aspira a colmare, anche attraverso sacrifici, ma che, dall’altro, rappresenta il vincolo a cui sottostare come parte integrante di una comunità.”
Restringendo il campo già alle sole dinamiche familiari e ai casi di violenza domestica supportati da una sorta di ricatto economico (per cui, ad esempio, una moglie che dipende economicamente dal marito deve sottostargli in tutto e per tutto fino a sentirsi in colpa ad ogni presunta mancanza e accettare eventuali violenze), le chiederei di commentare questa affermazione anche alla luce del Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere presentato da Non Una di Meno in vista della manifestazione del 25 novembre, nel quale, ad esempio, a p. 50 si legge, tra i vari punti proposti, che, per garantire efficaci percorsi di autonomia lavorativa, è necessario “prevedere il reddito di autodeterminazione per garantire un aiuto concreto che permetta una più veloce fuoriuscita dalla violenza e/o un’efficace prevenzione del rischio di recidiva di maltrattamenti”.

    Elettra: Credo che la richiesta di un salario minimo europeo e di reddito di base incondizionato e universale, proposta nel Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, sia fondamentale non solo per garantire efficaci percorsi di autonomia lavorativa e quindi per riscattare i sensi di colpa e di dipendenza che spesso caratterizzano le relazioni di genere, ma anche per riconoscere valore sociale e politico alle forme di lavoro riproduttivo e di cura attualmente implicitamente immesse nei processi di valorizzazione capitalistici e, in questo senso, indebitamente sfruttate, perché fondamentalmente concepite come “debiti” che non è possibile ripagare.
Le condizioni che hanno storicamente caratterizzato il lavoro femminile di cura e di amministrazione, il lavoro riproduttivo e domestico, investono, oggi, la quasi totalità della sfera produttiva. Nella trasformazione attuata dai nuovi modi capitalistici di produzione la «differenza» femminile è stata cooptata per nuove forme di prestazione lavorativa e contrattuale. Riconoscere valore a questa sfera in forma di salario, vuol dire allora non solo, come si legge in uno dei punti del Piano femminista, “garantire un aiuto concreto che permetta una più veloce fuoriuscita dalla violenza e/o un’efficace prevenzione del rischio di recidiva di maltrattamenti”, ma vuol dire anche innescare un mutamento fondamentale nei dispositivi di potere che investa, in più di un senso, la vita di tutte e di tutti.
Si tratta dunque di una battaglia in molti modi generale quella che il movimento femminista sta portando avanti a partire dal coraggio di denunciare forme di violenza sulle donne, differenti eppure ripetute nei secoli della loro storia.

 

      Valentina: Proprio a proposito del movimento femminista, avrei una domanda in riferimento di quello degli anni Sessanta e Settanta. Nel paragrafo dedicato a femminismo e neoliberismo, fa riferimento alla tesi di Nancy Fraser per cui la seconda ondata del femminismo nella misura in cui si è opposta e ha criticato il capitalismo di prima maniera, ha in un certo senso prestato il fianco ed è diventata “ancella del capitalismo contemporaneo” e sostiene che questa tesi anche se criticabile sotto diversi aspetti, mette in luce un cambiamento di cui bisogna prendere atto. In cosa lei prende le distanze da Fraser e cosa invece ammette come mutamento e come dato di fatto su cui riflettere?

      Elettra: Per quanto criticabile, credo che la tesi di Nancy Fraser – che ha visto nella “seconda ondata del femminismo” “un’ancella del capitalismo contemporaneo” – sia stata utile a portare alla luce, da un punto di vista interno al femminismo, un mutamento di cui non si può non prendere atto.
Secondo Fraser, le rivendicazioni femministe degli anni Sessanta e Settanta hanno sicuramente portato ad un aumento del numero delle donne nel mercato del lavoro, ma questo fenomeno non è coinciso con una loro adeguata valorizzazione. Non solo le donne che ricoprono posizioni precarie, risultano comunque la maggioranza e la disoccupazione femminile resta di gran lunga maggiore rispetto a quella maschile. Non solo, dunque, le disuguaglianze e le ingiustizie di genere non sono state ancora in alcun modo colmate. Ma soprattutto quella che viene da lei interpretata come l’ondata individualistica e meritocratica del femminismo degli anni Ottanta avrebbe contribuito ad un perverso processo di coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro, fondato sull’estensione di modalità comunque oppressive e frustranti, anche se non nettamente repressive.
Forse, eccessivamente intenta a contrapporre un primo femminismo – solidarista, egualitario e anticapitalista – a un secondo – individualista, meritocratico e quindi ancillare rispetto al neoliberalismo – Fraser non prende atto fino in fondo del fatto che il nuovo processo di valorizzazione del capitale è in buona parte alimentato non tanto, o non soltanto da tendenze individualistiche e meritocratiche, quanto piuttosto dall’investimento sulle stesse capacità di cura e di valorizzazione della vita che caratterizzano il lavoro domestico. Come è stato molto bene evidenziato nel libro di Giovanna Zapperi e Alessandra Gribaldo, Lo schermo del potere (2012), la casalinga, la velina, la collaboratrice domestica immigrata o la lavoratrice della conoscenza sono tutte accomunate, oggi, dalla medesima attitudine a mettere a valore componenti soggettive, affettive e emotive.
La prospettiva di Fraser, in definitiva, è quella di un femminismo emancipazionista, interno alle conquiste dello stato sociale, che credo siano oggi difficilmente riproducibili, vista la crisi irreversibile del progetto moderno in cui si iscrivono. Ma soprattutto credo che la sua posizione non sia condivisibile perché, nella critica al neoliberismo, Fraser finisce per depotenziare proprio gli elementi più innovativi del femminismo, vale a dire la forza delle pratiche femministe di politicizzare ambiti tradizionalmente considerati extrapolitici e extraeconomici, come il corpo, la dimensione personale e affettiva, l’ambito privato della vita domestica, oggi sempre più messi a valore e quindi, d’altro lato, potenzialmente fertili per nuove forme di resistenza.

 

     Valentina: Restando ancora su Fraser, nel suo libro fa riferimento al dialogo con Butler in cui Fraser sosteneva la differenza tra ambito economico e ambito culturale, mentre Butler sosteneva una “logica più complessa alla base della genesi culturale delle forme di potere”. Lei ritiene che Butler sia “più efficace per una lettura del presente”, ma invita anche a distinguere in questa complessità tra una “rete” in cui si potrebbe restare impigliati e delle effettive e nuove “attitudini emancipative”. Ad oggi, ritiene che ci troviamo sulla strada giusta per liberarci o rischiamo di restare impantanati in questa complessità?

      Elettra: Quello che mi ha sempre interessato nel lavoro di Judith Butler è il fatto che, pur presupponendo la rottura con la logica repressiva del potere patriarcale moderno, messa in atto dalle pratiche e dalle teorie femministe a lei precedenti, mette in discussione, secondo me in maniera molto fertile, la naturalità di genere e dell’identità sessuale, pure rivendicate da un certo femminismo, a favore di una ricerca volta a individuare un’origine culturale e una loro provenienza da pratiche sociali performative.
Molto rilevanti sono stati per me i suoi lavori sul potere che, dalla metà degli anni novanta del secolo scorso, ha condotto in particolare sulle orme di Foucault. In questi lavori i processi di assoggettamento risultano intrinsecamente connessi alle tecniche di produzione dei soggetti. Ma mentre Foucault, agli occhi di Butler, appare interessato a individuare la materialità del potere nelle sue forme istituzionali, la sua attenzione è invece rivolta alla «vita psichica del potere», come recita il titolo di un suo famoso libro, su cui mi sono particolarmente concentrata nel mio lavoro.
Se, da questa prospettiva, il potere non è solo ciò che reprime il soggetto, che lo domina e a cui questo si oppone, ma è anche ciò che gli dà vita e lo porta all’esistenza, oggi più che mai modalità non esclusivamente repressive vengono in primo piano attraverso il diffuso utilizzo sul piano economico e sociale di capacità creative e di cura, la cui valorizzazione, però, si fonda su un’autocritica costante che le impoverisce neutralizzandone le potenzialità e producendo nuovi forme di sensi di colpa.
Ma se il soggetto, come sostiene Butler, è sempre condizione e strumento di ogni forma di potere, ciò implica anche la possibilità di una vulnerabilità implicita delle forme di dominio, di una critica costante, in grado di sperimentare differenti rapporti di forza, nuove pratiche di cooperazione sociale e un nuovo rapporto con il mondo e con le cose.

 

      Valentina: Come lei stessa sostiene, “è stato il pensiero femminista, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, a segnare una definitiva discontinuità con l’ordine moderno, colpevolizzante e patriarcale” (p. 166) e da ciò ne sono conseguite teorie, ma anche e soprattutto pratiche, che hanno interessato non solo la “questione femminile”, ma hanno messo a fuoco una “questione ontologica” tra ciò che si considera o meno umano. Prendendo atto di questa ampiezza di campo su cui il femminismo riflette e in cui esso opera, ritiene che oggi il femminismo sia una delle possibili vie da percorrere non solo per distanziarsi, ma per sovvertire il capitalismo e per uscire dalla sua logica colpevolizzante e indebitante attraverso la produzione di proposte nuove e alternative?

      Elettra: Credo che gli attuali movimenti femministi che, in forme e contesti differenti, esistono sul piano internazionale, siano il fenomeno politico più importante e forse, per molti versi, anche il più temuto, viste le recenti reazioni dei media. Giornali e social network sono stati pronti a parlare e a dare risalto, per lo più in termini voyeuristici o meramente securitari, alle denunce di violenza sulle donne, ma sono stati anche pronti a tacere o a non prendere troppo sul serio i numeri e le forme politiche di protesta che si sono verificate negli ultimi mesi, come è successo, ad esempio, con lo sciopero generale delle donne dello scorso 8 marzo o come è accaduto con l’ultima importante manifestazione del 25 novembre in Italia, a cui, mi sembra, non è stato assolutamente dato il rilievo politico-mediatico che meritava.