La bambina dalle dita di rosa

La bambina dalle dita di rosa

di Rossella Caleca

Alice stava allattando la sua bambina, accoccolata sotto un pesco da cui già pendevano piccoli frutti. La bimba aveva gli occhi chiusi, le guance rosee, una manina circondava l’altro seno ornandolo di un delicato ricamo tono su tono; l’altra poggiava a terra, stringendo una zolla. Greta, avanzando nel frutteto, non ebbe difficoltà a trovarle. Si sorrisero.
“Stai bene, vedo” disse Greta, sedendosi accanto.
“Così. Hai visto com’è cresciuta?”
“È florida. Ben sviluppata, direi, come bambina di due anni e mezzo.”“Gattona velocissima. E cammina spedita, ma solo quando non può farne a meno. Ma non parla.”
“Dalle tempo. E’ perfettamente in grado di farlo, te l’ho detto.”
“Greta” le sopracciglia di Alice si strinsero “Lei fa cose. Cose strane.”
“Tipo cosa?”
“Tocca. Tocca tutto, ma gli oggetti non le interessano. Impazzisce per le piante, per gli animali.”
“Non mi sembra strano. Sta crescendo in una fattoria.”
“Ma lei…distende quelle sue dita, afferra…e ride come se avesse trovato un tesoro. Le piace toccare contemporaneamente persone e animali, animali e piante. Allora ha l’espressione soddisfatta di una bimba che va a spasso tenuta per mano da mamma e papà.”
“Quelle sue dita…”Cosa ti ho detto quando è nata? Se cominci tu a svalutarla, figuriamoci gli altri.”
Alice tacque, ricordando il suo terrore alla vista della figlia appena partorita. Gli occhi di Greta sulla piccola urlante, mentre la sollevava. Come riuscirono a nascondere l’anomalia al personale del poliambulatorio, già sopraffatto da altre urgenze. Come entrambe avessero pensato che, in altri tempi, non avrebbero potuto sottrarre la bambina all’assalto dei media; che sarebbe diventata un clamoroso caso di studio. Ma ora quei tempi non c’erano più.
Alice sospirò.
“Come vorrei mia madre accanto, ora.”
“Tutte lo vorremmo.”
“Tu quando hai perso la tua?”
“Tra la prima e la seconda pandemia. Ai primi sospetti che tutto stava per ricominciare, e  che sarebbe stato peggio, i miei aveva deciso di partire, anticipando il nuovo lockdown. Ma lo avevano deciso anche molti altri. Morirono entrambi in un incidente.” Greta  guardò l’orizzonte. “Io non ero con loro. Stavo facendo il tirocinio in ospedale, in un’altra città.”
“La mia è morta durante la seconda. Subito dopo mio padre. Io ancora studiavo.”
“Che studiavi? Non te l’ho mai chiesto.”
“Filosofia.”
“Una Umanista! Ma dovresti essere al Dipartimento Rinascita Culturale. Oppure insegnare. Ci sono sempre più Centri Pluriclasse, anche qui vicino…”
“No, no. Ero solo al secondo anno. Sto bene qui, e poi al Dipartimento preferiscono i quarantenni. Dicono che ci sia perfino una di cinquant’anni.”
“Ah, si dicono tante cose. Anche che in India hanno trovato una sopravvissuta di cinquantasei anni. Ma la verità” Greta corrugò la fronte “è che i nostri genitori li abbiamo persi. Tutti. E anche molti nostri amici. Questo mondo, lo stiamo ricostruendo a tentoni.”
La piccola aprì gli occhi, si staccò, soddisfatta. Greta si avvicinò per farle una carezza, una manina si sollevò, le dita lunghe e  sottili si avvitarono dolcemente al suo pollice.
“Sembrano viticci” disse Alice.
“Forse lo sono.”
“E’ molto attratta dall’acqua. L’altro giorno stava cascando dentro l’abbeveratoio. Si sporgeva dal muretto basso per immergere le mani.”
“Che dicono gli altri, qui?”
“Pensano che sia una malformazione. Le vogliono bene. Poi, hanno tutti troppo da fare per farsi domande.”
Si guardarono, senza dirsi la parola che avevano pensato entrambe: “finora”.
La bambina teneva con delicatezza un gattino piccolissimo, che emetteva a intervalli deboli versi simili a vagiti. Era seduta tra due filari, nell’orto, mentre Alice raccoglieva pomodori. Un ragazzo si avvicinò portando altre ceste, si mise anche lui a raccogliere.
“Ciao, sono Alessandro.”
“Ciao. Sei arrivato ieri, vero?”
“Sì. Appena assunto dalla cooperativa.” 
“Sono Alice. Lei è mia figlia, si chiama Aurora.”
“Bel nome. “Quando mattutina apparve…”
Alice lo interruppe bruscamente. “Non sei agronomo, tu?”
Lui sorrise. “Ho studiato biologia. Ho anche fatto il liceo classico. Come molti agronomi, magari.” Osservò la piccola. “Cosa sta facendo?”
“Abbiamo trovato un gattino abbandonato dalla madre. Le gatte a volte lo fanno. Sembra che stia cercando di tenerlo al caldo. Io gli ho dato un po’ di latte con un contagocce, ma… ” Notò lo sguardo sulle manine. “Forse ti hanno già detto del suo problema.”
“No. E, qualsiasi cosa sia, non è un problema.”
Chiacchierarono un po’, raccontandosi da dove venivano, cosa facevano prima. Mentre portavano le ceste sotto la tettoia, Alice pensò che in questo nuovo mondo per indicare il passato, tranne il più recente, si diceva solo “prima”. Anche il futuro si immaginava pieno di “prima”: tutti cercavano di tirare fuori dal “prima” ogni cosa che avesse un senso, per legarla al “dopo”, come Robinson dalle casse recuperate dal relitto della nave naufragata. 
“Anche il padre di Aurora lavora qui?” Chiese Alessandro, mentre ritornavano nell’orto.
“No” Alice fissò il suolo. “Lui non ce l’ha fatta. Nella seconda, proprio alla fine.”
“Mi dispiace.”
“Aurora nacque sette mesi dopo. Era già ammalato, non lo sapevamo. Io, nessun sintomo. A volte mi chiedo…”
“Non te lo chiedere. Non c’è risposta.”
Alice si chiese, stizzita, perché gli avesse fatto quella confidenza.
Salirono sulla motoape ferma sul vialetto, stringendosi nell’abitacolo. La piccola si sporse a salutare il gattino che zampettava, ancora incerto, nel cortile; le dita si mossero come un piccolo ventaglio senza stoffa.
“Guido io, eh.” Disse Alice. “Sei sicuro che ci possiamo fermare un po’ alla spiaggia, prima di arrivare al mercato?”
“Certo. Ci aspettano verso mezzogiorno. La deviazione è breve, non staremo più di due ore.”
Sulla spiaggia Aurora, munita di cappellino, saltava e rideva, per nulla infastidita dalla sabbia calda. Era ancora presto, ma il calore del sole già riempiva l’aria; il mare era liscio, invitante.
“Ho paura che si scotti, è così chiara” disse Alice “non sopporta la crema solare che sono riuscita a trovare. Anche i vestiti, a volte cerca di toglierseli. E sai la fatica che facciamo a procurarci le cose. Quello che produciamo in fattoria, invece, la va sempre bene.”
“Ho notato che ha precise preferenze.”
Aurora si diresse verso il bagnasciuga.
“Guarda com’è decisa!”
La bambina entrò in acqua, continuando ad avanzare in linea retta, con le braccia aperte. In pochi secondi l’acqua le giunse al petto. Alessandro e Alice scattarono in piedi nello stesso momento. Giunse primo Alessandro, sollevò Aurora nel momento in la testa stava per sparire sott’acqua. La bimba sputacchio’, tossì, poi si sporse ancora verso l’acqua, con gridolini di disappunto.
Alice recuperò un asciugamano, vi avvolse la piccola, sorda alle sue proteste. “Sembrava che non si volesse più fermare. Che volesse abbracciare il mare. Ma che ci ha trovato?”
“Nel mare? Tu che pensi?”
Alessandro smise di parlare. Fermo in piedi, osservava la bambina con un sorriso bloccato a metà, come congelato. La bocca continuava a sorridere, gli occhi erano diventati seri.
“Che ti succede? Sembri lo Stregatto.” 
“Non so come spiegarlo, Alice. Ma Aurora sente la vita.”
“Cosa vuoi dire?”
“Non lo so. E’ come se…cogliesse con le dita i viventi. Sembra che percepisca, in un altro modo, in un modo diverso che non so spiegare, gli organismi, il loro pulsare, il loro divenire. Ed è come se…fosse capace di connetterli. Di legare insieme ciò che vive. Di prendere e dare energia. Creare simbiosi…”
“Tu sei pazzo.”
“Non so come, ma lo fa. Riflettici.”
Alice guardò sua figlia. Le  si chiuse la gola. Ne venne fuori una voce rauca, incerta.
“Non lo capisco. E’ una cosa enorme, non… una malformazione.”
“No. Una mutazione. Un nuovo adattamento evolutivo.”
“Ho paura.”
Tornarono sulla motoape traballante. Alice e Aurora si erano sistemate sul cassone, tra le cassette di frutta e ortaggi. Alice rifletteva. “E’ una benedizione” pensò. “Una benedizione sconosciuta.” Sentiva  la paura sciogliersi, e trascinare via con sé anche il grumo duro che si teneva dentro da anni. L’incomprensione non dava angoscia, l’oscurità era luminosa.
“Mamma.”
La vocetta la fece sobbalzare. Il visetto accaldato di sua figlia era levato verso di lei.
“Mamma, voglio acqua.”
“Sì, amore.” Facendo finta di non esultare, Alice versò l’acqua in una tazza, gliela porse. 
“E ora” aggiunse “assaggiamo un…” allungò un braccio tra le cassette. Ne trasse a caso un frutto.“…Una melagrana.”

* Immagine in evidenza: Calida Garcia Rawles, The Space in which We Travel, (2019), acrylic on canvas, 84” X 144”