I. Coccia, A. Balzano, M. Ciullo – A proposito di “Sensibili Guerriere”

Il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne, abbiamo deciso di affrontare, tramite il libro Sensibili guerriere e la presenza di Federica Giardini, il tema della forza femminile, per affermare il nostro rifiuto degli stereotipi che vogliono la donna sempre vittima o colpevole, ma anche per rilanciare il dibattito intorno al tema dell’autodeterminazione femminile. Nei cinque mesi trascorsi dopo la presentazione del libro non abbiamo smesso però, di interrogarci su come rendere più efficace la nostra forza di donne all’interno dei movimenti e su quali forme di lotta siano oggi più incisive per la conquista e la difesa dei beni  comuni. Lo scritto che segue è il felice risultato di un incontro “fra attiviste”, va inteso dunque come un’elaborazione in fieri, un tentativo di pensare in due, il minimo perché una riflessione risulti vera nella sua parzialità.
Ritrovandoci oggi a scrivere insieme abbiamo scelto di sottrarre tempo al resto delle nostre vite, scoprendo che entrambe sentivamo l’esigenza naturale di continuare a ragionare insieme. Convinte che la pratica della condivisone sia la strada vincente nel percorso che porta alla forza femminile.
Parlare, dunque, di forza al femminile vuol dire collocarsi in una prospettiva altra, in grado di raccontare da subito la capacità delle donne non solo di resistenza, ma di azione vera e propria.
Leggere questo libro collettivo, che non è una semplice raccolta di saggi, ma proprio il frutto di un percorso condiviso, ci ha dato la possibilità per meglio inquadrare certi interrogativi, che riguardano le nostre scelte di vita e al contempo l’attualità e le sfide che ci presenta, dal momento che ci viviamo come donne autonome, attiviste, libere.
In parallelo con la pratica messa in campo dalle autrici di Sensibili Guerriere, protagoniste di una presa di parola comune, di certo non assodata, ma che si è nutrita delle differenze di ognuna per approdare ad un arricchimento reciproco, ci ritroviamo  a riflettere insieme sula forza femminile.  Il  grande merito delle autrici è stato quello di leggere e scrivere collettivamente, di praticare insieme un’arte marziale e di riuscire, al contempo, a mettere a fuoco questioni così urgenti e complesse – nient’ affatto un’ operazione semplice.

Partiamo da noi, dall’incontro del 25 novembre, fortunato perché non si è risolto in una semplice presentazione di un libro, felice perché ha dischiuso ai nostri occhi la possibilità sempre immanente di mettersi in gioco, di condividere i propri percorsi per ritrovare speranze e progetti su un terreno comune.
Il metodo prima di tutto: quella presentazione non era solo un appuntamento culturale, non c’era una cattedra. Le sedie erano in circolo e chi vi sedeva desiderava soprattutto mettere in circolo anche le proprie narrazioni.
Ci siamo confrontate in modo autonomo e tempestivo, tenendo sempre insieme il nostro personale e il nostro politico.
Durante la lettura dei saggi di Sensibili guerriere e la nostra discussione, ci siamo confrontate con numerose altre voci di donne: da Carla Lonzi a Cassandra e Medea di C. Wolf.
Noi abbiamo immaginato che C. Lonzi avrebbe parlato della Cassandra di Christa Wolf come di una donna che arde per desiderio di partecipazione, di giustizia, di politica. Una donna che trova la sua potenza nella capacità di espressione e che non si arresta di fronte all’arroganza del potere maschile. Cassandra fa paura al re, C. Wolf lo scrive subito, ma non ha paura di lui. E forse C. Lonzi si sarebbe chiesta che tipo di forza ha Cassandra, se è una forza che viene solo dal corpo, o se nasce in relazione alle sue passioni e al suo sapere.
E se la potenza dirompente della voce di Cassandra fosse proprio il suo percorso di crescita etica?
Leggiamo quanto scrive Wolf: “Ora mi è possibile far uso di quello per cui mi sono allenata tutta la vita: dominare i sentimenti mediante il pensiero. L’amore prima, ora la paura.”
Chi di noi, chi dalla Lonzi a noi, non ha almeno provato a conoscere le proprie passioni, per accrescere la propria incisività, all’interno di una comunità politica?
Chi non si è dovuta porre domande a proposito dei propri affetti per riuscire a prendere parola, a mantenere questa parola?
Ci ritroviamo nell’affermazione della Lonzi quando dice: io desidero un amore che sia amore della mia autonomia. E certo, che questa è già politica.

E Medea? dobbiamo ringraziare C. Wolf per avercela restituita nella sua autenticità. Impossibile relegare ogni donna potente al rango di assassina e isterica. Per la Wolf Medea è potente e lucida. Il suo è desiderio di liberazione e autodeterminazione, di autonomia dall’ordine costituito dal marito-padre, sempre re o aspirante tale. Medea sovrasta in razionalità e caparbia Giasone, sovrasta per integrità etica l’intera corte di Corinto. Medea è potente, sa perché ha visto ed esperito. Medea che ama la verità e per essa si scontra. Donna che non teme conflitti, si direbbe piuttosto che li crei. Medea che usa il conflitto per aprire spazi alla giustizia, come molte di noi. Se una donna è forte non vuol dire che è irrazionale.
La sua potenza sovversiva è tutta razionale, e al contempo le viene dal “sapere del corpo e della terra”. Lei ha in mano due strumenti: impetuosità e raziocinio. Li vediamo entrambi in azione, perché lei di volta in volta sa scegliere qual è quello opportuno.
Ci siamo chieste a questo punto: a proposito di donne, di noi stesse,  parliamo di mera forza, o di qualcosa che assomiglia di più alla potenza?
Tra le due c’è uno scarto, almeno nella nostra esperienza biografica, sia pratica che intellettuale: forza e potenza non sempre si equivalgono.
La potenza è un concetto in grado di esprimere anche la dimensione qualitativa dell’efficacia di azione e pensiero. Per alcune di noi è stato più facile approcciarsi al proprio corpo come potente, non esattamente come forte.
Ci sentiamo in grado di fare alcune cose e altre no, a seconda di situazioni e stati d’animo.
In una dimensione tutta biopolitica, abbiamo imparato che conoscere il nostro corpo, e tutto ciò che è in relazione con esso, ci aiuta ad accrescere la nostra potenza: durante un’assemblea di movimento o un corteo, noi stesse possiamo esprimere ed esperire, a seconda delle situazioni, livelli diversi di consapevolezza e\o partecipazione.
Che si tratti del 15 Ottobre 2011 o del 14 Dicembre 2010, ci chiediamo fin dove possiamo arrivare, cosa siamo in grado di fare in ogni contesto.  Dalle manifestazioni contro la Tav in Val di Susa, fino al gestire uno spazio sociale occupato, la questione urgente è capire come si comportano in nostri corpi. Rifiutiamo l’idea che qualcuno possa considerarci meno “potenti”, cioè meno in grado di esprimere e realizzare i nostri desideri, perché donne.
Ci sono dei momenti opportuni in cui, non stupitevi, anche le donne praticano conflitto. Ci ricordiamo quando le donne a Bologna hanno bloccato il triste comizio di Giuliano Ferrara e la sua inutile crociata contro l’aborto. La loro determinazione, e quella di molte altre prima di loro, ci ha insegnato a vincere delle lotte mettendo in campo i nostri corpi,capaci anche di vivere attivamente la dimensione dello scontro. E non si tratta per noi di emulare nessuno, si tratta di partecipare ad un percorso di riappropriazione di diritti.
Si tratta di ritrovare le differenze. Non vogliamo essere forti se questo significa, come è stato a lungo, prevaricare altr@. Non ci sentiamo forti nella misura in cui la forza esclude qualcun’ altro dal suo esercizio. Ma ci sentiamo potenti quando, ad esempio, entriamo in parlamento portando con noi i book block, per rivendicare diritto al sapere e reddito di autodeterminazione.
Ci siamo poste a distanza di mesi la questione di come ci rapportiamo e come viene esplicata la nostra forza nei più svariati contesti quotidiani. il nostro corpo allineato con i nostri pensieri e linguaggi come si pone di fronte alle sfide, alle lotte? la forza come si manifesta nella nostra pubblica presa di parola? interrogativi sempre in divenire con cui proviamo, tramite esempi esplicativi, a relazionarci e a stimolare un dibattito attorno a questo tema.
Pensiamo alle lotte in Val di Susa, alle donne valligiane in cui coesistono felicemente i due aspetti di cui sopra, la presa di parola in contesti pubblici e la sfida quotidiana di mettere in prima linea il proprio corpo per difendere quei saperi legati alla natura, la nostra terra.
Riattingiamo alla memoria, ci riferiamo all’esperienza delle donne notav che si pongono in posizione attiva su quello che avviene nelle nostre terre, su quello che ci capita di essere e di dire. Il loro sapere è un sapere elaborato da anni di lotte, che mai provocherebbe inutili stereotipi entro cui collocare le donne no tav, dividerle come buone o come cattive, quelle che utilizzano la violenza e quelle che non lo fanno.
Secondo la facile e quanto mai banale semplificazione che a tratti ritroviamo anche oggi, la forza femminile è classificata e recintata dentro un destino di passività, è una forza di contenimento, si vede una resistenza ad entrare in conflitto a differenza della forza maschile, che si declina in coraggio e intraprendenza in quanto portatori di una forza che può sconfinare anche nella violenza e quindi in una maggiore esposizione, che porta a sfidare dei rischi più concreti, reali.
Assistiamo all’ utilizzo della violenza, della forza femminile, in situazioni in cui la violenza sfocia nell’ingiustizia, con un preciso limite, che non si traduce con “ragionevolezza”, ma con “precisione”.
In questo momento storico è importante riflettere sui processi che producono il pensiero e i linguaggi e appare come una necessità impellente la presa di parola su di sé,  non è importante cosa si dice sulla lotta in Val di Susa, bensì chi è a prender parola.
Ricordiamo molto bene il ruolo delle donne in questa lotta che dura ormai da vent’anni, ricordiamo il passato come momento a cui dar peso per dar consistenza al presente, un presente che si può leggere specialmente nei giorni in cui sono cominciati gli espropri formali in Valle, quando le donne erano davanti alle reti per impedire il passaggio delle macchine devastatrici fino ad arrivare ad incatenarsi ad esse resistendo alla brutalità di chi è inviato ad imporre un’opera inutile, dannosa e devastante manu militari, o quando, davanti ai microfoni e alle telecamere in conferenza stampa organizzata subito dopo i fatti dello scorso 3 luglio hanno detto a gran voce  “siamo tutt* black bloc”.
Queste donne sono forti perché non delegano ad altri la loro forza, tantomeno la presa di parola su di sé. Traspare la loro fierezza, la loro dignità anche quando le forze dell’ordine le massacrano, perché hanno ben chiaro che la difesa della terra, in un presente in cui l’assenza di democrazia ha il rumore sordo dei manganelli e dei lacrimogeni che si abbattono sui corpi, è l’unico modo per poter continuare a vivere contribuendo alla creazione di un futuro in cui è la vita, la salute ad essere preservata e non gli interessi ciechi di chi si arricchisce con opere inutili.
Più in generale, ci siamo poi poste interrogativi intorno al contesto in cui ci troviamo ad agire, rispetto al  presente che, a mò di ritornello noioso, ci viene spesso descritto come un tempo di crisi. I media, infatti, non fanno che ripetere di sacrificarci, di credere che domani si sistemerà tutto. Ci presentano la crisi come inevitabile oggi per la stabilità di domani. Nessuno si chiede, però, da quale “ieri” venga questa crisi, cosa c’è dietro. Certo dietro ci sono le banche, il soffocante sistema del debito che sta sancendo la fine dello stato-nazione, portando al collasso interi paesi, ultima la Grecia. Eppure a ben guardare l’origine della crisi non può dirsi solo economica. C’è una volontà tutta politica, oggi in occidente, che esige e gestisce la crisi per compiere, neutralizzando i possibili conflitti sociali, l’altrimenti impossibile transizione dalla democrazia alla tecnocrazia. E questo è evidente proprio nel nostro infelice paese. Solo quando gli effetti della crisi si sono acuiti in termini di impoverimento generale e di perdita di diritti e welfare, è stato possibile presentare al corpo sociale il governo Monti come il migliore possibile, riuscendo così in una mirabile operazione di rimozione collettiva: il paese non ricorda se Monti è stato eletto o no, poco importa, sovranità popolare e democrazia sono declassati a proiezioni dell’inconscio collettivo del XX sec. Peccato solo che questo governo coincida a pieno con la governance finanziaria europea: un governo di nessuno che fa presagire tempi bui, parafrasando la Arendt.
E forse in uno scenario così complesso sembrerà un’inezia, ma per noi è urgente chiederci, oggi, come sono cambiati ruoli e compiti delle donne, con l’uscita di scena di scena del governo Berlusconi? Non è trascorso molto tempo da quando il piccolo schermo italiano era monopolizzato dallo scandalo escort-premier. Solo poco più di un anno fa, il 13 Febbraio 2011, le donne protestavano contro il connubio corrotto “sesso-potere” rappresentato dal berlusconismo. Una piattaforma nazionale, chiamata Se non ora quando, lanciò un appello alle donne italiane, definite madri-sorelle-nipoti-lavoratrici etc, per opporsi al modello imperante di donna tutta corpo e sempre sessualmente disponibile. Allora alcuni collettivi femministi hanno avanzato critiche e dubbi rispetto alla riduzione delle lotte delle donne al solo anti-berlusconismo. Molte di noi sono scese in piazza comunque il 13 febbraio, ma con contenuti e simboli diversi da quelli di Se non ora quando. Innanzitutto le donne non sono solo “parenti di” . Le nostre differenze vanno esaltate, non celate ipocritamente, per questo credevamo- e crediamo- che sia necessario nominare tutte le donne, le lesbiche, le travestite, le sex-worker, le precarie, le migranti. Il problema per noi non era l’ennesimo episodio di sesso tra il premier e un Olgettina, ma il fatto che lo stesso governo al centro degli scandali sessuali portasse avanti politiche proibizioniste, securitarie, sessiste e razziste. I problemi semmai erano per noi il pacchetto sicurezza, il decreto antiprostituzione- per fortuna mai diventato legge- , la legge 40, i tagli ai consultori, l’assenza di un welfare al  femminile…Problemi che  non sono andati via insieme a Berlusconi, a cui purtroppo oggi se ne aggiungono altri… Con ironia- altro modo in cui si manifesta la forza femminile- confrontiamo ora queste due immagini: la foto di Noemi con il Papi Berlusconi al suo diciottesimo compleanno; la foto della Fornero che piange quando presenta la finanziaria. Tante donne si sono dette “indignate” dalla prima foto, tra cui la Camusso e la Fornero, in prima fila quando si trattava di firmare appelli di Se non ora quando contro il premier maschilista e in nome di una supposta moralità femminile. Quante di quelle donne hanno provato la stessa indignazione di fronte alle lacrime che la Fornero ha mostrato mentre annunciava tagli al pubblico e sacrifici per tutt@? Perchè nessun appello è stato lanciato dalle pagine dell’Unità e raccolto dalla Cgil, alla cui direzione ci sono la De Gregorio e la Camusso? Noi non siamo essenzialiste, non crediamo che la Fornero e la Camusso, perchè donne, ci rappresentino meglio o che tutelino di più i nostri diritti. Anzi riconosciamo oggi più che mai che i nostri diritti – alla democrazia, a una vita dignitosa e libera, ai beni comuni- sono sotto attacco. Nutriamo però una speranza, fondata su un crescente sentire comune: non essere le sole a provare rabbia di fronte alle lacrime che hanno pubblicamente “perdonato” in anticipo le misure anti-crisi dei tecnocrati – non essere le sole ad essersi messe in rete con altr@ soggettività, per trovare insieme nuove soluzioni alle sfide che ci pongono questi tempi bui, con forza e autodeterminazione.

Redazione

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