Federica Castelli – “Cosa possono fare i corpi insieme?” Intervista con Judith Butler

Questa intervista è stata realizzata ad Alcalà de Henares (Madrid) il 25 giugno 2014, in occasione del XV Simposio dell’Associazione Internazionale delle Filosofe (IAPh), per il numero della rivista DWF-DonnaWomanFemme “Pensiero stupendo. Braidotti, Butler e Haraway per Donne Women Femmes“, “DWF”, 2, 2014.

In seguito è apparsa in una nuova traduzione nel volume curato da Federico Zappino “Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo” (Ombrecorte, 2016). Il testo che ripubblichiamo coincide con la versione presente nel libro a cura di Federico Zappino.

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Federica Castelli – Comincerei con una domanda che mi preme molto, alla luce di un racconto della crisi che a volte assume i tratti di una ideologia dello stato di emergenza, che tutto ammette e tutto sussume. Un dispositivo narrativo di questo genere orienta vite e immaginari. Viene allora da chiedermi come sia possibile per noi donne e femministe tenere assieme la lotta e le urgenze politiche con le condizioni materiali ed economiche che segnano il nostro quotidiano. Esiste un rischio di essere sommerse dalle questioni dell’economico? Come riuscire a mantenere le nostre lotte appassionate e creative se i nostri tempi hanno reso le vite che conduciamo precarie, opprimenti, alienanti? In quale modo il femminismo può riuscire a sopravvivere alla caduta del welfare, alle condizioni di povertà e precarietà, all’assenza di una idea di futuro, così come all’assenza di possibilità politiche e alla contrazione dello spazio pubblico che stiamo vivendo?

Judith Butler – Credo che vi siano due differenti questioni che vanno affrontate, e che siano collegate tra loro. Innanzi tutto occorre capire come descrivere questa situazione, come tu stessa hai cominciato a fare nella tua domanda. Hai fatto un elenco di tutto quello che nella situazione attuale è così problematico, inquietante, disperato. Hai cominciato a descriverla e analizzarla. Dunque, il primo nodo da affrontare è proprio questo: il femminismo possiede gli strumenti concettuali necessari a comprendere cosa sta accadendo storicamente – cosa sta accadendo in Europa, nell’Europa mediterranea, cosa sta accadendo attraverso la globalizzazione? Abbiamo un linguaggio adatto a descrivere questi vari processi? Non è indifferente chiamare ciò che stiamo vivendo “austerità”, “neoliberismo”, “privatizzazione” o “tardo capitalismo”. Alcuni la chiamano austerità, oppure parlano di accresciuta precarietà nel contesto della globalizzazione, o si concentrano sulla crescita della diseguaglianza economica e sociale. Dunque, per me, il compito più importante è pensare e lavorare assieme alla comprensione di che cosa ciascuno di questi diversi lessici ci offre. Cosa comprendono, cosa mettono a fuoco, cosa tralasciano o cosa, addirittura, nominano in modo improprio? Come sappiamo, non c’è al momento una sinistra unita – e forse l’unità non è proprio quel che possiamo aspettarci dalla sinistra, sempre che ve ne sia ancora una – quindi, piuttosto che preoccuparci di questa frammentazione, dobbiamo continuare a costruire alleanze, cosa che spesso comporta l’imparare a navigare tra pratiche e lessici politici differenti. Nonostante la sinistra sia frammentata, non riesca più a trovare se stessa, nonostante il termine “la sinistra” sia diventato una specie di finzione, dobbiamo lavorare ancora con questa parola, anche se questo implica una strana e utopica pratica linguistica nel mezzo di tempi desolati. In altre parole, se diciamo “sinistra”, possiamo intendere la possibilità di un’analisi e di un certo tipo di pratiche che possono cominciare ad affrontare quello che riconosciamo come una nuova fase o come nuovo sviluppo nella vita economica e sociale. Possiamo essere d’accordo sul fatto che vi siano nuove forme di spossessamento1 [dispossession], specialmente se guardiamo all’enorme crescita del numero di rifugiati negli ultimi anni e negli ultimi mesi, o la prolungata condizione di apolidia delle popolazioni migranti che vengono tenute fuori da così tante nazioni, e per le quali i confini sono diventati delle contro-metropoli. Possiamo essere d’accordo sul fatto che c’è una precarietà crescente; e questa ultima realtà economica riguarda in modo diseguale le donne, i migranti e le minoranze razziali (o le persone che vengono considerate “minoranze razziali” nel momento in cui si spostano verso l’Europa come migranti). Mi chiedi del compito del femminismo: mi pare chiaro che questo non possa semplicemente ridursi alla segnalazione dei modi in cui le donne vengano toccate da questa situazione, anche se si tratta di una questione dirimente. Una volta che realizziamo come le donne ne vengono colpite, occorre anche pensare a come le donne delle minoranze ne vengono toccate in maniera maggiore, e pensare alla relazione tra donne e altre minoranze nel contesto di una più ampia politica di gestione della popolazione, nella biopolitica. E poi, forse, dobbiamo anche ripensare l’intero spazio pubblico, non più solo in relazione al domestico, che rimane sempre un elemento importante, ma anche in rapporto alla prigione e alla condizione di apolide. In alcune recenti forme di assembramento nello spazio pubblico2 [assembly], abbiamo visto come coloro che sono spossessati possano rivendicare la sfera pubblica, esattamente quella sfera da cui vengono esclusi. Che cos’è questa dinamica? Mi sembra che vi sia in essa un potenziale mutamento radicale dell’aspetto contemporaneo della democrazia, del suo aspetto pubblico; anche se provvisorio o potenziale, il potere di coloro che sono spossessati di rientrare nello spazio da cui vengono esclusi, in cui non hanno volto, o in cui vengono ignorati, è un atto radicale. Questo è solo un inizio, ma ritengo che il femminismo abbia sempre fatto della domanda “cosa è privato, cosa è pubblico?” uno strumento di lotta e ora abbiamo l’occasione per ripensare la scomparsa dei servizi e dei beni pubblici, il pubblico come spazio di contestazione democratica, il pubblico come spazio di accesso privilegiato a ciò che è precluso a chi non ha documenti, al detenuto, al recluso. È la loro assenza a tratteggiare i confini di ciò che chiamiamo “pubblico”. Abbiamo sempre saputo che vi sono grandi diseguaglianze prodotte dalla sfera pubblica, dalla costituzione della sfera pubblica attraverso logiche di esclusione. Per queste forme di diseguaglianza, muoversi al centro dello spazio pubblico – e con spazio pubblico non intendo solo uno spazio architettonico, come la res publica, ma mi riferisco anche ai media che in questo momento ne fanno parte – significa allora prendere tutti gli spossessati ai margini della metropoli e realizzare che essi fanno parte di quel che chiamiamo “spazio pubblico”. Significa pensare la prigione come un elemento della res publica. Significa prendere tutte quelle forme di lavoro, non pagato e sfruttato, a tempo determinato e precario, e tutte quelle forme di disoccupazione che regolarmente non vengono tenute in considerazione nella sfera pubblica, insistendo invece sulla loro presenza al suo interno. C’è qualcosa di radicale nel dire “noi esistiamo” o “noi esistiamo ancora” davanti a un’organizzazione economica della vita che apre sempre la strada all’annientamento e alla morte. Questo genere di politica deve essere realizzato attraverso modalità alternative: non sempre può essere portata avanti in maniera ottimale attraverso la politica parlamentare, non può risolversi nei media mainstream, dal momento che questi sono coinvolti nella riproduzione della riduzione dei processi politici al semplice e veloce. Quindi la domanda diventa come… non voglio usare la parola “invadere” perché è una metafora bellica, ma come… come vi si interviene? Come si interrompe? Penso di continuare ad avere un’idea molto significativa di interruzione dello spazio pubblico e della sua temporalità che parte da quelle forze che vengono represse ed escluse: un’interruzione che può riarticolare il senso della politica stessa in costellazioni più promettenti.

FC – A volte percepisco il rischio che la mia lotta come femminista si tramuti in una posizione puramente di resistenza, perdendo la sua creatività, la sua potenza generativa e fertile. Voglio lottare in modo appassionato e pieno di desiderio politico; allo stesso tempo, viviamo tutte e tutti in una precarietà che rischia di schiacciarci dall’esterno. Com’è possibile lottare e resistere, tenendo viva la passione per la politica?

JB – Penso che, a volte, l’unico modo per trovare nutrimento e sostegno in una politica di resistenza consista nell’espansione della propria rete di solidarietà. Quando a fine giornata ti ritrovi da sola, a prescindere dal tipo di azione che hai portato avanti, ti senti esaurita. Se stai sempre in posizione di resistenza, non hai mai la possibilità di riposare, né hai abbastanza soldi per fare qualcos’altro. Questo significa che occorre produrre forme di solidarietà che siano anche relazioni di sostegno, luoghi di contro-potere, o comunità che ci sostengano. Questo è uno dei principali compiti di ogni movimento di resistenza: pensare a come riprodurre se stesso a e come affermare le proprie alleanze e gli ideali per le quali si sta portando avanti la lotta in condizioni, oggi, che sono davvero sfiancanti. Ed è per questo che io tengo ferma questa idea delle relazioni di sostegno, al centro di ogni narrazione della resistenza, perché si tratta di una domanda che si ripresenta puntualmente: come meglio sostenerci l’una con l’altra mentre resistiamo? Penso che il movimento Occupy abbia provato a insistere su entrambi gli elementi, ma questo si può dire anche di molte altre proteste degli ultimi anni – penso ad Atene, al Cile, a Montréal, a Gezi Park. Dal momento che questi assembramenti pubblici sono stati velocemente dispersi dall’azione delle forze dell’ordine, essi hanno dovuto ricostituirsi come reti. A volte queste reti erano composte di persone che vivevano l’una accanto all’altra, ma la rete è anche un’estensione della comunità, o un modo di socialità che vi si sovrappone: una rete non sempre appare nello spazio pubblico, nonostante quel che vi appaia possa essere il frutto e risultato delle sue azioni. Questo è un punto davvero cruciale. E quindi ovviamente accade che alcune delle persone che erano in prima linea, tornano a casa, tornano ai propri studi, al proprio lavoro, e altri vanno avanti, verso le prime linee e la rete si ricostituisce. Deve esserci una pratica ricostituente. Altrimenti non può funzionare.

FC – Faccio parte di un collettivo femminista italiano, Femministe Nove. Sotto alcuni punti di vista mi sembra che il nostro modo di sentire e pensare l’azione politica sia vicino alle tue riflessioni sul performare la politica attraverso il corpo. Per noi si è trattato di un’urgenza politica: abbiamo portato i nostri corpi nello spazio pubblico, tentando di mantenere ben saldo il legame tra la nostra riflessione politica e la nostra presenza fisica, concreta e materiale. La relazione tra noi, politica e incarnata, ha aperto numerosi spazi al nostro desiderio, spazi di riconoscimento e per ripensare assieme le nostre esperienze. Puoi dirmi qualcosa di più su questo desiderio, che si avverte a livello fisico, di avere relazioni politiche radicate in presenza, di contro alle dinamiche senza corpo delle norme governamentali e delle politiche neoliberiste che regolano la nostra esperienza sia dall’esterno che dall’interno?

JB – Anche se le cosiddette “norme senza corpo” delle politiche di governance possono sembrarci una cosa ovvia, in realtà basta pensare ai leader di governo, che vorrebbero incarnare l’intera nazione nella loro statura, andatura, con i loro gesti, per comprendere come le autorità politiche di solito si organizzino attorno una figura corporea. E quando parliamo di contrazione della sfera pubblica, o di politiche economiche che toccano le persone direttamente nelle loro possibilità di vita, queste politiche toccano i corpi, li gestiscono, sono forme di controllo demografico. Creare dei lavoratori “usa e getta” che poi si riprendono le strade per protestare contro le loro condizioni di vita porta al loro contenimento tramite l’azione della polizia: si avvia un circuito in cui il trasporto viene regolarmente seguito dalla repressione – o dall’espulsione. Quindi, in un certo senso, è proprio questa dinamica che va smascherata e contrastata. Quando penso a come le persone vivono la precarietà, so che la esperiscono come ansia, come isolamento, più in generale come perdita del welfare state. Le persone sono sempre più isolate, angosciate, in un contesto, come quello neoliberista, in cui viene detto loro che sono totalmente responsabili della propria vita e del proprio futuro. Sono private di ogni forma di speranza eppure viene detto loro che sono totalmente responsabili della propria esistenza individuale. Ecco il risultato atroce dell’individualismo economico. Ma esiste tuttavia una forma di resistenza che le persone possono realizzare nonostante, o forse proprio perché sono private del senso di appartenenza allo spazio pubblico o sono state private dell’accesso a beni pubblici di base, come quelli all’istruzione, alla salute, alla casa. Non si vive solo la perdita di supporto: si viene spinti a far nascere modalità alternative di sostegno, e a renderle politiche. Il problema è che il mondo delle organizzazioni non governative a volte sta lì ad aspettare dietro le quinte per fornire assistenza, il che può anche essere positivo se si esclude il fatto che così si produce un’altra forma di economia che impedisce alle persone di diventare autosufficienti. In un certo senso, il corpo diviene il centro delle nuove politiche: può essere il corpo nella performance, può essere il corpo virtuale, può essere il corpo che si crea e si dissemina nei mezzi tecnologici – ma il corpo, in ogni caso, porta con sé delle domande politiche: di cosa ha bisogno un corpo? Di cosa hanno bisogno i corpi? Cosa possono fare i corpi insieme? Queste domande cercano di rompere l’isolamento prodotto dalla tattica individualizzante del neoliberismo. Mettono il corpo in prima linea, al centro della politica. In altre parole: sono domande di sopravvivenza, di salute, di appartenenza a un mondo sociale in cui possiamo assumerci un certo numero di obblighi gli uni verso le altre, ma anche di desideri e di passioni che ci rendono sociali, sessuali, che ci rendono intimi, che ci legano alle altre in modi incarnati e appassionati. La speranza è che possa emergere una politica radicale più pubblica, che possa articolare e mostrare alcuni principi dell’interdipendenza che dovrebbero operare nella più ampia sfera pubblica per vincere diseguaglianze e povertà. Giusto?

Che doveri ha il pubblico davanti a un rifugiato? Qual è la richiesta politica di coloro che agiscono fuori delle norme della cittadinanza? Quali sono le domande di coloro che richiedono il diritto alla mobilità attraverso i confini o quali sono le richieste di coloro che sono stati arrestati per ragioni economiche o politiche? Tutte queste domande riguardano i corpi, ma anche la politica. Come mettere dunque in luce la semantica della dimensione corporea di tutte queste richieste? Credo che sia proprio su questo punto che la performance si rivela un elemento essenziale della politica. Sono questi corpi a essere messi in gioco, e questo ostacola la disincarnazione, l’effetto disincarnante di queste politiche che invece toccano i corpi in modo così radicale. Di recente ho incontrato due componenti delle Pussy Riot; è stato davvero fantastico. Quando sono entrate in quella chiesa, a Mosca, portavano con sé una domanda: a chi appartiene questa chiesa? La chiesa è uno spazio pubblico, appartiene al popolo russo? Appartiene allo Stato? Appartiene alla Chiesa ortodossa russa? Subito, appena sono entrate, è stata messa in gioco questa domanda: chi possiede lo spazio pubblico? Chi ne ha diritto? Ci sono molti luoghi simili. Quale potrebbe essere la versione italiana di un simile gesto? Sarebbe in ogni caso molto diversa, anche se possiamo cominciare a immaginare insieme il suo significato. Ma attraverso un atto corporeo le Pussy Riot, di fatto, hanno posto la questione: di chi è lo spazio pubblico, qual è la sfera pubblica della Russia? Dal momento che la chiesa è pubblica, si suppone sia russa. E ovviamente lo hanno fatto proprio nel momento in cui la Chiesa e lo Stato si stavano alleando in una formazione politica che nega la loro distinzione, che prova a imporre a tutti una religione dominante, che usa il potere e il denaro della chiesa per supportare il regime di Putin. Hanno dunque rivelato le modalità in cui in Russia stavano avvenendo questi accordi di intermediazione e di potere, entrando nello spazio da cui erano di fatto escluse e aprendo a un’idea differente di cosa dovrebbe essere lo spazio pubblico. Non hanno dovuto esplicitarlo, né tacerlo. Ma è accaduto attraverso uno specifico tipo di performance in quello spazio. Pubblico o no? E credo che sia per questo che la performance svolge un ruolo davvero importante in politica. Quanto a quelli che la respingono come una “semplice” performance, un fatto meramente culturale… beh, non credo che sia qualcosa che si possa dire delle Pussy Riot. Dobbiamo anche riflettere sul tipo di performance di cui parliamo, dal momento che le Femen non sono la stessa cosa delle Pussy Riot. Occorre riflettere sull’elemento politico. Da quel che ho visto finora le Femen sono contro l’immigrazione e… beh, lo sai, sono molto problematiche per me.

FC – Parlando di alleanze femministe: in Italia alcune “giovani femministe”, espressione che metterei tra virgolette, hanno avuto esperienza e a volte continuano a trovarsi coinvolte in un conflitto con le loro madri simboliche nel femminismo. Mi chiedo se tra femministe non occorra aprirsi a una politica condivisa, capace di tenere assieme differenti esperienze storiche e politiche, una politica in cui le donne di ogni generazione possano parlare con la stessa autorità dei tempi attuali, che vivono in modo così diverso. Cosa pensi debba essere condiviso e trasmesso, e come? Le università, gli studi di genere, bastano da soli a creare questo scambio? Se esiste una possibilità di alleanze all’interno di un panorama così variegato di gruppi e collettivi femministi, dove si incarna, come può essere agita?

JB – Credo che ad alcune femministe piaccia pensare ai problemi della trasmissione del sapere femminista in termini generazionali, pensando che tutte le generazioni siano collegate: le più anziane vengono pensate come “madri” delle generazioni più giovani. In questo modo i legami intergenerazionali vengono pensati all’interno di una struttura familiare di madri e di figlie. Dobbiamo chiederci se pensare alle differenze generazionali in questi termini sia il modo migliore per farlo, dal momento che alcune donne non sono madri, non vogliono esserlo, ma fanno parte del femminismo e questa loro scelta è protetta dal femminismo stesso. Altre femministe, invece, hanno avuto figli ma il loro femminismo non si basa sul fatto che siano madri – è successo loro di diventare madri, ma non per questo portano avanti un femminismo materno. E alcune delle più giovani possono benissimo pensarsi non come “figlie” delle generazioni più anziane ma come “studentesse”, ad esempio, o come parte di una relazione complessa in cui imparano da loro, resistono loro, o addirittura si distanziano da loro. La metafora familiare mi preoccupa perché il femminismo deve pensarsi anche al di là dei termini della famiglia, per cogliere le nuove forme di intimità, le nuove reti di alleanze e i cambiamenti che sono avvenuti nell’idea della parentela e nei ruoli genitoriali. A dire la verità, aspetto con ansia un pensiero sulle nuove forme di parentela che non siano solo quelle tra madri e figlie. Le donne devono esistere in spazi e in relazioni che non siano completamente circoscritte dalla famiglia. Questa è la libertà delle donne. Se ricorriamo alla struttura familiare per comprendere i legami tra donne ricostituiamo la famiglia come luogo proprio delle donne. Dov’è il lavoro? E dov’è la passione? D’altro canto, è anche vero che la famiglia è al centro della vita di molte donne, e non può essere tralasciata del tutto. Tuttavia, per alcune è importante mutarne il significato. In Italia, dove i diritti riproduttivi sono stati al centro di tutte le politiche femministe, non è possibile accantonarla. Nella mia esperienza, leggendo il femminismo italiano, sono arrivata a comprendere il motivo per cui il mio lavoro è stato accolto in modo così controverso nei gruppi femministi italiani, così come in alcuni spagnoli – e anche in Spagna la focalizzazione sui diritti riproduttivi è centrale. Non è chiaro cosa posso offrire a questi dibattiti, e io stessa so quanto la nozione di “differenza sessuale” sia stata importante in varie riflessioni a supporto della libertà riproduttiva. E lo accetto, mi va bene. Penso solo che sia anche molto importante tenere a mente che vi sono donne che non procreano pur essendo eterosessuali, così come vi sono forme non eterosessuali di sessualità che non vengono circoscritte dal materno, o forme in cui le decisioni sulla sessualità e quelle sull’essere madri sono due questioni molto distinte. Detto questo, non so mai quando una generazione comincia o finisce, e potrebbe anche darsi che su una precisa questione politica emerga una chiara distanza generazionale, ma su un’altra non sembrino esserci differenze di alcun tipo. Forse dovremmo stare attente a non reificare l’idea di “generazione”.

FC – Per questo preferisco pensarle come modi differenti di avere esperienza di una stessa situazione politica.

JB – Sì, ma io non credo che le femministe più anziane, se possiamo parlare in questi termini, abbiano una verità da impartire alle più giovani. Questa è una specie di idea di discepolato a cui penso occorra opporre resistenza. Prendi le teorie di quelle che hanno lavorato prima di te e vedi cosa ti è utile o meno, e agiscilo in base alle tue circostanze. Per me non si tratta forse poi tanto di una questione di generazioni, quanto piuttosto di quali nuove condizioni storiche devi affrontare in quanto femminista. Voglio dire, avete delle circostanze storiche totalmente nuove, quindi avete bisogno di nuove pratiche. Un’altra cosa importante che secondo me le femministe sottolineano è che non vogliamo che il femminismo venga in qualche modo assorbito da un più ampio e amorfo movimento di sinistra, poiché se questo accadesse assisteremmo di nuovo alla riproduzione della gerarchia maschile e saremmo ancora una volta relegate in una posizione subordinata. E questo accade nonostante a volte si riescano a trovare degli esempi impressionanti di eguaglianza di genere. Dunque muoversi in queste altre forme di solidarietà come femministe significa, sì, sottolineare come le donne siano toccate dalla situazione attuale, ma anche rendere il femminismo una risorsa per altri: possiamo pensare ancora ai diritti riproduttivi, ma nel contesto della precarietà. Possiamo pensare la povertà e l’analfabetismo che toccano le donne, in particolar modo le donne migranti, ma nel contesto della precarietà. Sono preoccupazioni femministe molto specifiche. Inoltre, c’è un certo modo più ampio di pensare i diritti, la libertà e il pubblico che è emerso dalla teoria femminista e che deve svolgere un ruolo nel discorso politico più generale.

FC – Recentemente hai scritto di come la condizione di precarietà esistenziale, che è condizione condivisa e comune degli esseri umani, abbia subito uno spostamento di senso all’interno degli scenari governamentali, portando nelle nostre esistenze diseguaglianze, alienazione e insicurezza. Come vengono orientate e prodotte le nostre vite all’interno di questo spostamento? Come possono reagire i soggetti e i movimenti politici?

JB – Beh, ti dirò… è una domanda interessante. Ad esempio, in Francia ho capito che c’è una discreta quantità di lavoro dedicato all’etica della cura, che in parte attinge a un’etica religiosa, o cristiana. Sembra che le persone stiano dicendo: “abbiamo perso il sostegno pubblico, abbiamo perso molti dei sostegni economici tradizionali per chi è spossessato o in condizioni precarie; ora abbiamo bisogno di compensare quel vuoto con la filantropia”.

FC – In un certo senso il discorso sulla cura produce uno spostamento al di fuori dei meccanismi del capitalismo, ma allo stesso tempo rischia di supportarlo. In questo modo non interviene, non sposta, non modifica. Vengo da un paese in cui il welfare ha sempre assunto la forma particolare per cui la Famiglia e la Chiesa erano lì a provvedere ciò a cui lo Stato non pensava.

JB – Interessante. Proprio per questo il problema è pensare a nuovi tipi di strutture, nuove forme di strutture istituzionali che non riproducano semplicemente la famiglia e la chiesa come luoghi della cura.

FC – In Italia c’è stato un ampio dibattito su precarietà, lavoro e conciliazione dei tempi di vita e su come le donne vivono questa nuova condizione lavorativa. Alcune hanno sostenuto che portare al mercato quel “di più” di forza e passione che il capitalismo non riesce ad assorbire nelle proprie dinamiche avrebbe condotto allo sgretolamento di un intero sistema di inglobamento e sfruttamento. Con la crisi e la precarietà ci siamo accorte che questa forza, questo “di più”, poiché mancano le possibilità di relazione e di alleanze politiche sul luogo di lavoro, non riusciva a rompere il meccanismo capitalista, che anzi se ne nutriva, assorbendolo, inglobandolo. Abbiamo cominciato a pensare su basi diverse. Qualcuna ha proposto la dis-identificazione tra lavoro e desiderio, ma ci siamo rese conto che non è poi così facile realizzare nella pratica una simile sottrazione. D’altra parte, però, è davvero difficile creare legami, alleanze, scardinare col desiderio un sistema nell’era della precarietà, in cui per tre mesi lavori in un luogo, il mese dopo fai due-tre lavori contemporaneamente, poi non lavori affatto, poi lavori di nuovo, ma sei in un altro paese… In questo dibattito il tema della cura ha giocato un ruolo importante: è qualcosa che ci libera tutte o è complice con il sistema che ci opprime?

JB – Penso che sia una domanda ampia. C’è una cosa da dire, ed è forse quella con cui vorrei concludere. Sai bene che, tradizionalmente, all’interno del femminismo marxista, ci si è molto concentrate sul lavoro delle donne. Ma cos’è il lavoro delle donne? Che cos’è il lavoro domestico, e cosa significa invece lavorare fuori casa? Come descriviamo il lavoro delle donne, come viene valutato, come dovrebbe essere retribuito? Parte di esso rientra nelle politiche pubbliche liberiste del lavoro ma gran parte rimane all’interno di specifiche forme di marxismo femminista. Ora che abbiamo a che fare con il “precariato”, che non è pienamente descrivibile nei termini del “proletariato”, dobbiamo cominciare a pensare lavorando con il concetto di disoccupazione o di mancanza di lavoro, con il lavoro a tempo determinato e usa e getta, o ancora con l’insufficienza di lavoro. In altre parole, non possiamo dare per scontato che ci sia lavoro per poi chiederci che forma abbia il lavoro delle donne. Se ti muovi a partire da una cornice che pone come prima domanda cos’è il lavoro delle donne, stai dando per scontato che le donne lavorino. Ma se cominciamo a pensare a partire dalla mancanza di lavoro – non so con quale parola meglio descrivere questa situazione, forse “disoccupazione”, ma non nel senso della disoccupazione come situazione temporanea, piuttosto come nuova norma in cui il lavoro è contingente – ecco lo spostamento concettuale verso il quadro della “precarietà”. E se cominciamo da questo come punto di partenza, allora, quale tipo di analisi femminista sarà necessaria? Rispondere a questa domanda potrebbe fare davvero la differenza. Molte delle questioni di cui mi parlavi sono ancora al centro delle nostre preoccupazioni, non c’è dubbio, ma al contempo ci si apre a un’intera altra serie di questioni su come le condizioni basilari di vita vengano messe a rischio dalle nuove forme che assume l’economia. È quindi necessario rivedere innanzitutto le nostre domande per poter affrontare questo problema – per essere pronte a reagire a questa storia che stiamo attualmente vivendo.

1 Cfr. Judith Butler, Athena Athanasiou, Dispossession. The Performative in the Political, Polity Press, Oxford 2013. (N.d.C.)

2 Cfr. Judith Butler, L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performative dell’azione collettiva, a cura di Federico Zappino, Nottetempo, Milano 2017. (N.d.C.)