Pina Galeazzi – Una gravidanza sulla luna: tecniche di fecondazione assistita e vissuti corporei

di Pina Galeazzi 

in M. C. Barducci, Paradossi di maternità, Vivarium, Milano 2008

 

Da 40 anni esiste la possibilità di vivere una sessualità libera da finalità procreative.

Da 20 è possibile procreare senza che venga coinvolta la sessualità.

Sessualità senza procreazione. Procreazione senza sessualità.

Duplice scissione. Duplice potenzialità. Duplice problematica libertà.

L’accento è oggi sull’aspetto problematico di realtà indubbiamente ricche di potenzialità, impensabili e impensate fino a pochi anni fa.

Ma la domanda che nasce e che riguarda proprio il tempo è una domanda innanzitutto interna, rivolta cioè verso la dimensione psichica: come e quanto di una duplice rivoluzione che tocca innanzitutto e letteralmente il corpo femminile, come e quanto la psiche femminile può accogliere, se possibile elaborare, fare suo, in un percorso che propone scenari inediti, a volte  anche pericolosi e regressivi (il rischio che il nostro corpo sia di nuovo ridotto a contenitore, reso passivo e muto davanti a tecniche o a ideologie spesso molto invasive). Quali sono i tempi della psiche nel confronto con realtà che la coscienza sembra accogliere con prontezza? Come la psiche femminile registra il passaggio da una dimensione celata nell’interno del corpo, misteriosa, per secoli, ad una dimensione scientifica e oggettivabile, a proposito della procreazione?

Credo sia necessario riconoscere e dire quanto ad ogni acquisizione  si accompagni una perdita, non per nostalgia del passato, ma perché il confronto col nuovo possa essere accompagnato da una consapevolezza critica da noi donne guadagnata con tanta fatica e ancora così fragile, a volte…

 

L’esperienza clinica che porto qui oggi è evidentemente molto peculiare e soggettiva, contiene però spunti spero fecondi per questo nostro scambio. Spunti che non riguardano solo Angela e il breve lavoro che abbiamo fatto insieme. Nella singolarità c’è la traccia dell’universale, questo noi donne lo sappiamo molto bene.

 

Una voce straniera al telefono. Una voce agitata e ansimante che mi chiede con urgenza un incontro, “il prima possibile, per favore”, tentando infine un flebile autocontrollo. Una voce braccata, penso.

E’ questo il primo contatto con Angela. Avverto una autentica angoscia, come se davvero non ci fosse tempo, come se la pressione da cui nasce la telefonata giungesse senza filtri al mio sentire. Tengo con me una duplice risonanza, l’affanno percepito, sul filo di un panico incipiente, ma anche il tentativo di autocontrollo, di riprendersi in una cortesia un po’ fredda.

Fissiamo un appuntamento di lì a qualche giorno.

Quella che incontro è una giovane donna, alta, delicata, molto curata nel vestire e attenta nel muoversi. Si presenta subito raccontandomi del  suo lavoro, che riguarda aree di ricerca intellettuale e la appassiona molto, per poi passare al suo “meraviglioso matrimonio”. Ma non riesce a controllare l’ansia, cambia tono e mi dice: “sono 6 anni che cerchiamo un figlio, con tutte le tecniche possibili. Ora sono incinta e voglio abortire. Mi dicono tutti che sono matta. Ma io non riesco a pensare di tenerlo. Ho pensato subito all’aborto appena i medici me l’hanno detto, pensavo di fare l’aborto e non dirlo a nessuno, nemmeno a mio marito. Ero  così sicura ormai che non ci sarei mai riuscita. Quando mi hanno detto che ero incinta ho pensato che si sbagliassero e subito dopo che io un bambino non lo voglio.”

Resto in silenzio, per un attimo, mi sento un po’ sopraffatta. Penso “6 anni”. Penso “aborto”. Le chiedo a che settimana sia. “La quarta – mi risponde – l’ho saputo presto perché in ospedale mi tenevano sotto controllo”.

 

Sento tutta la drammaticità del suo breve racconto, ricordo la percezione al telefono della voce braccata.

 

Mi trovo a dirle due cose.

La prima è che è normale sentire un profonda ambivalenza quando si scopre di essere incinta.

La seconda è che abbiamo tempo, 2 mesi, per ascoltare cosa lei sente e perché lei possa arrivare a decidere, per l’interruzione o la prosecuzione della gravidanza.

 

Iniziamo così il nostro  percorso insieme.

Nel rapporto con Angela, anomalo rispetto ai ritmi dell’analisi (ci siamo viste infatti per pochi mesi, con un incontro a settimana), è stato possibile toccare una particolare intensità, non solo per l’urgenza della richiesta, ma anche per il filo che grazie ai numerosi sogni e ad un puntuale lavoro di scrittura di Angela è stato possibile dipanare.

Non potevo immaginare che una parola da me usata nel nostro primo incontro sarebbe stata la cifra, o meglio il cuore, del percorso che abbiamo compiuto: questa parola è stata “ambivalenza”.

 

Una breve considerazione su questo primo momento.

Per molto tempo mi sono detta che il mio “intervento terapeutico” era stato l’espressione e la comunicazione di un pensiero “terra terra”, nato soprattutto dal buon senso. “E’ normale l’ambivalenza in gravidanza”, le avevo infatti detto. Solo dopo qualche tempo ho capito che non è stato proprio così, almeno non solo così.

Riconsiderando come avevo ascoltato Angela allora, ho ritrovato quanto poco sconcerto realmente io provassi per quel suo no, quanto mi apparisse necessario fin dal primo incontro accogliere profondamente quel no. Dargli spazio e respiro. Contro ogni razionalizzazione e coerenza. E allora il poter dire: “c’è tempo, abbiamo tempo per capire, ascoltiamo le sue emozioni, i suoi sogni” non mi è apparsa più come una risposta “tampone”, ma come un realeprendere tempo, un tempo interno ed emotivo, un tempo per contattare e dire le paure e i desideri.

D’altra parte mi appariva evidente quanto l’essere stata per sei anni in una dimensione in cui erano totalmente prevalsi la determinazione cosciente, la volontà di sottoporsi a una innumerevole serie di tentativi di inseminazione e controlli medici, aveva collocato Angela in un’area di decisione tutta razionale, in cui ogni ambivalenza era impensabile.

Ma l’annullamento dell’ambivalenza coincide con l’annullamento di una dimensione corporea viva, con l’identificazione con un corpo sentito come oggetto, tornato alla pura funzione di contenitore, svuotato e  senza soggettività.

E allora il violento movimento di Angela che vuole – insensatamente per tutti – abortire ha un senso nuovo e particolare: come il risveglio atterrito da un incubo, un terrore che ora la spinge a chiedere.

Innanzitutto aiuto. Aiuto e ascolto. Aiuto e contenimento. Aiuto e tempo.

Si è creata, tra noi, una madre che accoglie e aspetta e dice: “non aver paura, succede. Tu sei più importante di tutto”.

Forse l’assoluta serietà con cui ho contemplato con Angela che il bambino cercato per sei anni potesse anche non nascere, le ha permesso di sentire che lei esisteva, con o senza figlio, che lei era accolta, comunque.

Le ha permesso di trovare riconoscimento e quindi giungere lei a riconoscere sé, la sua storia e il suo corpo vivo.

 

Angela ha 36 anni, è sposata da 15. Descrive la sua vita come molto bella, armoniosa e ordinata. Tranquilla. Percepisco un’area di astrazione e di idealizzazione, ma anche tanta solitudine, anche perché suo marito è spesso lontano per lavoro. E’ sempre stata eccellente negli studi e così oggi nel suo lavoro. Spesso, con grande intelligenza, compone un quadro di sé che suona lucido, razionale, composto.

Cosa c’entra un bambino? Un bambino è un terremoto, un invasore, un intruso e Angela soffre profondamente la contraddizione di averlo accanitamente cercato per tanto tempo, sopportando di tutto. Non capisce perché l’ha fatto, nelle sue prime comunicazioni c’è solo un forte pentimento e sbalordimento di sé.  Parla a lungo della sua paura della vita, vita in movimento, vita appassionata. Mi dice di odiare i cambiamenti. “Ora il mondo è diventato minaccioso e ostile”. Un bambino cambia tutto, altera i ritmi, toglie spazi. “Voglio uccidere la parte di me che vuole la trasformazione”.

Angela pensava di sapere tutto su di sé, ma ora non si capisce, l’ansia è violenta, la tiene sveglia di notte, atterrita.

Lentamente emerge il desiderio di essere accolta nella sua incapacità, nella sua immaturità, accolta e lasciata in pace, a dormire, a riposare, forse a crescere, per potersi lentamente aprire.

Lentamente la questione dell’aborto scivola in secondo piano, al centro è sempre più una domanda su di sé, sulle polarità scisse che Angela ha sempre tenuto separate a costo di grandi idealizzazioni e negazioni. Al centro è una domanda sulla propria capacità di tenere, di tenersi, di tenere insieme le sue contrapposizioni, di sopportare la sua ambivalenza, che all’inizio si esprime soprattutto nei sogni: ci sono forti venti, a volte freddi (e sono pericolosi), a volte caldi; ci sono animali pericolosi e torri altissime; conchiglie aperte e conchiglie chiuse. Tra istinto e ragione, tra tensioni spirituali e richiami corporei, Angela cerca un centro tutto suo. Ma lo rifiuta anche. In un sogno arriva un cinese che la disgusta e vuole a tutti costi darle una palla color rosso sangue, Angela fugge, inorridita. Poi dice: “Quella era la vita, alla fine la dovrò accettare se voglio diventare tutt’una”.

Sente di essere un recipiente che va spaccato e poi fuso per avere una nuova forma, ora c’è solo il dolore e la perdita per il sentirsi spaccata. Una morte del corpo.

 

Angela si era sottoposta a tutti gli esami, i controlli, i prelievi e le visite, i tanti tentativi di inseminazione falliti, in modo coscienzioso e determinato, convinta che un figlio non sarebbe mai arrivato, ma decisa a dimostrare di avere provato in ogni modo. Nel suo linguaggio avverto l’eco di altri linguaggi… “Ho fatto solo tre ovuli, invece che venti”, dice un po’ vergognosa. “Mi hanno iniettato l’embrione” (breve accenno all’ICSI).  “Ho fatto l’inseminazione da sola, mio marito non c’era”.  Nelle sue parole colgo quanto le tecniche a cui Angela si è così volonterosamente sottoposta hanno colluso con la rigida impostazione della sua personalità: l’accento è tutto su volontà, decisione, controllo. L’area dell’incertezza, aleatorietà, potenzialità è seccamente ridotta a fallimento o successo.

Mi sono chiesta più volte ascoltando le fredde ricostruzioni di Angela (la luce al neon il giorno in cui le hanno immesso l’embrione, l’agire tecnico del medico, il restare immobile in attesa dell’impianto), quanto la fecondazione assistita nel suo diventare “insistita” (secondo la felice definizione di una collega, Lidia Tarantini) rischi di colludere con una posizione psichica soggettiva in cui vengono bandite componenti emotive ed inconsce. Se il concepimento si riduce ad un riuscire/non riuscire, privo di piacere, e forse a volte, come è accaduto ad Angela, svuotato anche del desiderio, forse è necessario ri-creare Eros, restituire ambivalenza, verso il movimento di un desiderio in grado di oscillare, di muoversi tra sì e no, tra timore e accoglimento.

 

Dopo poco più di un mese Angela porta un sogno che, tra i tanti raccolti, mi sembra il più vivido per il nostro discorso di oggi. “Sono con mio marito sulla luna, il paesaggio è roccioso e brullo, c’è una luce rossa, scura. Lui mi mette in una specie di sacco a pelo che mi avvolge tutta, fino alla testa, e poi mi aiuta a posarmi in una crepa o fessura dentro la roccia, dove sto protetta. Poi se ne va in ricognizione. Alla fine torna sulla terra e mi dimentica sulla luna. Da questo punto in poi io sono lui. A casa mi accorgo con spavento che mi sono dimenticata sulla luna e voglio tornare immediatamente a riprendermi. Ma non posso subito, ci sono incontri, cose da fare. Quando alla fine torno sulla luna, ritrovo la parte di me tutta imbacuccata e so che è ancora viva, ma non riprende una funzione attiva, non esce nemmeno dal suo involucro. Mi ricorda una po’ una mummia, ma è viva”.

Angela si chiede che cos’è questa parte di sé, abbandonata sulla luna rossa e commenta “però non mi sento male lì, piuttosto mi sento protetta”.

Elvio Fachinelli, nel suo libro Claustrofilia parla della nascita come reinfetazione, come in un passaggio a due sensi, dove l’uscita coincide con l’ingresso. Io ho l’impressione che Angela stia compiendo proprio questo, un percorso all’indietro per poter andare avanti, reinfetata sulla luna, protetta, finalmente passiva. Per potere diventare madre deve essere lei stessa feto…Da questo sogno sgorgano associazioni e ricerche, scopre ad esempio che sua madre non aveva capito di essere incinta, quando la aspettava, pensava ad un’ulcera e beveva degli amari, per vincere la nausea; anche dopo il test di gravidanza aveva continuato a pensare che ci fosse un errore…Angela racconta di non essersi mai sentita voluta da sua madre e illuminandosi dice, “allora la luna è come una mamma che mi tiene… quindi io e il mio bambino ora siamo insieme, tutti e due lì dentro. E’ confortevole che sia stato mio marito a posarmi lì, ora ci starò un po’, è bello quel posto”.

 

Di sicuro verrebbe da dire che Angela con il suo no imprevisto si è posta in modo un po’ “lunatico”… ma perché proprio la luna in questo sogno? Forse nessun altro simbolo più di quello lunare esprime l’ambivalenza feconda, il rimando ad una ciclicità ritmica che presiede a processi opposti, di nascita e morte, di crescita e declino. Nella luna la duplice natura, luminosa e oscura, parla insieme di fecondità creativa e potenza distruttiva, nell’alternarsi di fasi che segnano il costante rinnovarsi del sorgere della vita e dell’irrompere della morte. La luna rischiara senza separare, illumina senza distinguere. La luna è la madre del ritmo e forse è proprio sulla luna che Angela può recuperare, nel suo sonno protetto, la parte trascurata e occultata di sé, i suoi aspetti emotivi ed intuitivi, la possibilità di accedere ad una trasformazione che possa riunificare i suoi molteplici aspetti.

 

Sono tanti i livelli problematici del percorso con Angela che si intrecciano e che non possono trovare ora spazio di approfondimento (…). Dal rapporto con i suoi genitori a quello col marito, dalla relazione col medico/fecondatore (vissuto in tanti sogni come il padre del bambino) alle fantasie sul figlio generato in ospedale. Mi sembra però importante riprendere brevemente il filo che i suoi sogni hanno dipanato: in un primo periodo i sogni di Angela ci hanno messo a contatto con Angela bambina, e poi adolescente e poi vecchia, in un confronto serrato con i tanti volti e le tante età del femminile. Poi – con la scoperta di portare in sé un figlio maschio – c’è stata una serie di sogni sull’androginia, parti maschili e femminili a confronto (e Angela arriva a sognarsi con la barba); infine, mentre ci stavamo avvicinando al parto, altri sogni ci hanno portato alla necessità di un ultimo confronto, quello tra Io e non Io, come parti di un sé più ampio. In quest’ultimo periodo il nostro lavoro ha giocato sul confine del riconoscersi/non riconoscersi, fondersi/distinguersi, per poter diventare innanzitutto, come ha detto infine Angela, “madri di se stesse” . (mio ricordo “Sono ancora una volta due”)

 

Per tutta la durata del nostro rapporto inoltre sono stati proprio i sogni a rappresentare con immagini intense vissuti corporei altrimenti indicibili. Infatti accanto a una serie di sogni in cui mi sembrava di assistere ad una progressiva identificazione col suo bambino (nascondigli sotto terra in cui si nascondeva, tunnel scuri da ripulire con cura, caverne profonde in cui abitare), ce ne sono stati tanti altri a rinarrare il dolore del suo corpo. Iniezioni, biopsie, cannule infilate nell’orecchio, costrizione all’immobilità, escrescenze e laghi di sangue, crateri nella pelle, con profonde voragini interne. Angela raccontando i suoi sogni piange molto, racconta l’impotenza e la paura, si abbandona a dire la fragilità e i timori che hanno accompagnato il suo lungo percorso. Non è più costretta ad essere solo lucida, fredda, razionale. Sogna il suo corpo chiuso in un’armatura da robot,  in testa un elmo quadrato. Sogna le altre donne in ospedale con lei, ma loro hanno tutte un bambino nel cuore, interno ma visibile, solo lei non ce l’ha. Sogna infine acque che salvano e acque che distruggono…

Grazie ad Angela mi sono trovata a sentire e pensare cose nuove, nuove anche per me, ho partecipato con lei ai tentativi fecondi del suo inconscio di rielaborare le intrusioni, i vissuti di dolorosa impotenza, ad accogliere con lei un corpo ferito e dimenticato.

 

La storia di Angela è la storia di un percorso che contiene più livelli.

C’è il livello personale, singolarissimo di una donna nella sua unicità di vicenda storica, familiare, psichica.

C’è il livello più comune e riconoscibile, l’attraversamento di una disgregazione attraverso le vicende della maternità, una disgregazione che necessita nuove ricomposizioni: “il recipiente spaccato – come dice Angela – viene fuso per prendere nuova forma”.

C’è poi un livello in cui la specificità di un’esperienza (le vicissitudini della ricerca di un figlio)  si compone in nuove domande che certo attingono alla storia di Angela, ma che insieme la superano, perché riguardano il nuovo orizzonte che ci si prospetta.

Non possiamo tornare indietro, ma la questione urgente – oggi – mi sembra toccare la domanda del come possiamo stare noi nel confronto con il flusso consistente di acquisizioni scientifiche che hanno spostato, in tempi così rapidi, i confini del nascere (e del morire). Quanto sta accadendo nel campo della fecondazione riguarda innanzitutto il corpo e la psiche delle donne. Credo sia fondamentale non dimenticarlo, per dare ascolto alla nostra realtà interna, per dare voce ad un esserci il più possibile intere e dialoganti con noi stesse e col mondo. Per anni abbiamo detto “riprendiamo il nostro corpo”, forse oggi è necessario aggiungere “riprendiamo il nostro corpo animato, dotato cioè di anima, e vivo”, i suoi colori, la sua molteplicità, la sua preziosa e vitale ambivalenza… riprendiamo cioè la nostra interezza.

 

 

Redazione

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