Cartografie – Il paradosso del soggetto femminile-femminista

Ripubblichiamo un testo degli anni Novanta in cui Braidotti presenta una cartografia delle differenze e conflitti tra i femminismi di diversa provenienza, al di là degli effetti di ricezione.

Il testo è stato pubblicato in Il filo di Aranna (cura) La differenza non sia un fiore di serra, Franco Angeli, Milano 1991, pp. 15-34 – nel corpo del testo è riportata la numerazione delle pagine a stampa.

 

Il paradosso del soggetto «femminile e femminista». Prospettive tratte dai recenti dibattiti sulle gender teories
di Rosi Braidotti

Il contributo che voglio offrire a questo convegno intende portare la vostra attenzione sugli sviluppi in corso nel campo che in Italia si definisce – in modo ingiustamente globalizzante – come «il pensiero femminista anglo-americano, anglosassone»: le gender theories. Molti dei termini che utilizzerò non hanno equivalente in italiano per cui non tenterò neppure di tradurli, lasciandoli tra virgolette. Il concetto stesso di gender è una peripezia della lingua e della cultura inglese, difficilmente traducibile nelle lingue latine. Lo constata Teresa de Lauretis nel suo bel saggio comparativo sul femminismo della differenza in Italia e negli Stati Uniti1 e lo confermano da parte loro certe europee, come le donne della rivista franco-belga Les Cahiers du Grif, nel loro tentativo di produrre un’analisi lucida del termine gender2, e molti gruppi in Italia che oppongono alla nozione di gender altri concetti, come differenza sessuale3.
All’intraducibilità del termine gender si deve inoltre aggiungere una sua intrinseca opacità: come sottolinea Donna Haraway nel suo classico saggio sulla storia di questo concetto4, su cui ritornerò tra poco, gender non è di per sé una nozione femminista; proviene sia dalla biologia che dalla linguistica ed è quindi dotato di molteplici livelli semantici che non lasciano trasparire un senso unico. L’utilizzazione femminista del termine non ha fatto altro che aggiungere altri spessori di complessità a ciò che già non era concettualmente trasparente. Haraway ci consiglia dunque di fare molta attenzione alla nozione di gender.

Questo ritorno delle gender theories si giustifica non per mero interesse inter-culturale, o per vere o false pretese di un «internazionalismo» femminista, ma piuttosto come maniera di rendere giustizia e di

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tener conto di un movimento di pensiero che si è sviluppato moltissimo in questo ultimi dieci anni e che ci interpella direttamente. Mi sembra che, a volte, in Italia, si tenda nell’ambito femminista a sottovalutare sia l’erudizione che la sofisticazione teorica delle nostre compagne d’oltre oceano. Restano ancora molte incomprensioni reciproche e, da parte delle italiane, una tendenza a leggere il contesto americano in chiave polemica5. Credo sia venuto il momento di rivalutare l’apporto delle compagne anglosassoni al femminismo anche nel campo della teoria e non solo in quello dell’organizzazione pratica, nel quale brillano da sempre.

Infatti, se fino a dieci anni fa si poteva dire che le gender theories soffrivano di qualcosa che a noi europee sembrava quasi un crampo sociologizzante, se potevano apparire come una teoria riduttrice, che si opponeva, pur senza capirle veramente, alle teorie della differenza sessuale, che provenivano dall’Europa ed essenzialmente dalla Francia, in questi ultimi tempi le americane hanno cambiato rotta; compiendo un vero salto qualitativo, esse hanno subito a fondo l’impatto del pensiero della differenza sessuale. Mi sembra quindi che stiamo vivendo, sul piano internazionale, un momento di vero incontro e di rimescolamento tra le gender theories e le teorie della differenza sessuale; momento che io spero sarà di fecondazione reciproca dei due campi e che porterà sviluppi interessanti per ambedue.

Nel presentarvi le cose in questa maniera tengo a sottolineare l’importanza immensa del cambiamento, della trasformazione, nella vita del pensiero: nel femminismo, come altrove, niente è più mortale che lo stagnamento, cioè l’eterna ripetizione di posizioni già date e già dette. Il pericolo è quello di fossilizzare il pensiero vivente in posizioni dogmatiche.

Per illustrare il cambiamento di rotta delle colleghe di lingua inglese mi appoggerò soprattutto al lavoro di Teresa de Lauretis6 e di Donna Haraway7. La prima è di origine italiana, residente negli Stati Uniti da venticinque anni ed è già stata ospite del Filo di Arianna, per cui penso vi sarà nota. La seconda invece è un puro prodotto del pensiero eterogeneo ed iconoclasta dell’America; le due lavorano però insieme all’Università di Santa Cruz, che è un vero avamposto del nuovo pensiero delle gender theories.

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  1. Topologia di una svolta

Comincerò cercando di sottolineare le ragioni che spiegano, secondo me, il cambiamento di rotta delle gender theories classiche, portando a questo nuovo approccio che è molto più complesso e peraltro assai vicino a certi progetti teorici europei. Cammin facendo, cercherò di dipingervi una specie di affresco delle varie posizioni femministe attuali nel mondo americano o di lingua inglese.

Una prima ragione che potrebbe, se non spiegare, almeno contestualizzare il cambiamento è l’affievolimento delle teorie tradizionali della differenza sessuale nel mondo americano rappresentate soprattutto dal lavoro di Carol Gilligan8, che Claudia Mancina ha analizzato in un articolo molto interessante9. La teoria della Gilligan implica un discorso sulla superiorità morale dell’essere femminile, che è dovuta in grande parte alla capacità materna della donna.

Ci sarebbe molto da dire sull’importanza che la maternità ha assunto nel pensiero femminista contemporaneo, in quanto fonte di nuovi valori o, in certi casi, di un sistema simbolico alternativo. In Italia, mi sembra utile sottolinearlo, l’elaborazione in questo campo ha raggiunto punte eccelse nel lavoro di due compagne che sono presenti a questo convegno: Silvia Vegetti Finzi, con Il bambino della notte, ed Adriana Cavarero con Nonostante Platone ci propongono letture radicalmente nuove del materno10 che mi dispiace non aver il tempo di sviluppare nel mio intervento.

Negli Stati Uniti the ethics of care della Gilligan è invece stata criticata in quanto deterministica o essenzialista sia da Habermas, pensatore della scuola di Francoforte, che dalle molte femministe di ispirazione critica, che le rimproverano di lasciarsi manipolare dalla Moral Majority, l’agguerrita e molto anti-femminista destra americana. Esiste infatti un gruppo molto nuovo di teoriche della differenza sessuale che si ispirano alla Scuola di Francoforte, specialmente ad Adorno e Habermas stesso: costituiscono ai miei occhi l’area di ispirazione tedesca del pensiero femminista americano contemporaneo.

Molto importanti fra di esse sono Seyla Benhabib11 che resta vicina al pensiero marxista, la winnicottiana Jessica Benjamin12 e l’iconoclasta Jane Flax13. Tutte concordano sulla necessità di non ridurre la differenza sessuale ad una questione di superiorità morale femminile legata alla funzione materna e si dichiarano perplesse sulla teoria della Gilligan. Queste prese di posizione hanno scosso l’egemonia del pensiero della differenza, definita come qualità intrinseca al sesso femminile, che ha

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rappresentato per anni una corrente di pensiero dominante nel femminismo di lingua inglese.

Il secondo momento importante per spiegare il cambio di direzione è segnato dalla scoperta delle teorie europee della differenza sessuale, che sono in gran parte francesi14. Al contrario dell’Italia, dove l’ispirazione è venuta soprattutto da Luce Irigaray, tradotta e riletta dalle donne della Libreria di Milano, negli Stati Uniti la spinta iniziale è stata invece prodotta da testi più letterari e specialmente da quelli di Hélène Cixous, che è una delle più prolifiche scrittrici del movimento contemporaneo conosciuto come écriture feminine15. Celebrando in una prosa incandescente la differenza sessuale in quanto desiderio e forza del soggetto femminile, Cixous sprona una rivoluzione dell’ordine simbolico patriarcale, fondata su ciò che lei definisce come «l’omosessualità della donna», cioè il suo rapporto primario, originario e strutturante con le altre donne. Come purtroppo spesso è il caso nella storia delle idee femministe, la prossimità stretta che c’è tra le idee di Cixous e quelle di Irigaray, compreso il loro rapporto con la decostruzione di Derrida e con la psicoanalisi lacaniana, invece di produrre una fertile coalizione di interessi teorici, si è ridotta ad una triste storia di fraintesi, rivalità e durezza reciproca. Ci sarebbe molto da dire sul fenomeno della concorrenza e della competizione tra donne femministe16, ma non è questo il luogo.

D’altronde, la storia di questa bagarre, che è legata alle fortune della casa editrice des femmes, fondata da Antoinette Fuoque e gestita dal collettivo Psychanalyse et politique è già stata scritta e quindi non mi dilungherò su di essa17. Tranne per aggiungere che sono stata molto sorpresa nel leggere il resoconto che di questa vicenda è dato in Non credere di avere dei diritti. Pur ammirando la purezza delle intenzioni delle compagne di Milano, che probabilmente non hanno giudicato opportuno attardarsi sulle oscure vicende che hanno violentemente opposto Irigaray al gruppo des femmes, Psychanalyse et politique, penso invece che sia molto importante per la nostra stessa genealogia intellettuale raccontare pienamente le peripezie di certe idee in tutta la loro materialità. Per quanto triste, la storia delle divisioni che hanno attraversato il campo della differenza sessuale in Francia fin dall’inizio mostra chiaramente che non c’è mai stata una teoria univoca e dominante della differenza. Nel femminismo come altrove, le idee si sviluppano per bricolage diversi, per vie non molto chiare e in una rete di rapporti interpersonali che non sono affatto estranei alle fortune delle idee stesse, o alla ricezione che di esse è fatta hic et nunc:

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Resta il fatto che la teoria della differenza sessuale è approdata negli Stati Uniti tramite Cixous, cioè in chiave più letteraria e molto più esplicitamente omosessuale. Salutato dalle americane semplicemente come French feminism18 questo movimento di pensiero fece un grande effetto nel mondo femminista. Dovete anche tener conto del fatto che i libri di Irigaray sono stati tradotti in inglese solo qualche anno fa, dopo molte interminabili revisioni: Speculum e Questo sesso che non è un sesso sono usciti contemporaneamente. Il che significa che questi ultimi dieci o quindici anni, che noi abbiamo vissuto completamente sotto l’influsso del pensiero francese, non sono esistiti affatto per le americane. Vi lascio immaginare non solo le differenze che questo crea tra i nostri ambienti intellettuali, ma anche l’effetto strepitoso sebbene ritardato che il pensiero irigariano sta avendo sulla teoria femminista americana contemporanea. A livello di schemi di pensiero si sta sviluppando or ora una forte corrente di pensiero della differenza in chiave più filosofico-metafisica e con un’impronta meno lirica delle prime versioni ispirate dagli scritti della Cixous.

In ogni modo il gruppo che ha introdotto questo pensiero negli Stati Uniti è composto essenzialmente da letterate, psicoanaliste o filosofe specializzate nel pensiero europeo: hanno contato molto di più le Facoltà di Lettere che quelle di Filosofia o di Scienze Politiche nell’elaborazione americana della differenza sessuale. Cito, en passant, i nomi più di rilievo: Nancy Miller19, Naomi Schor20, Alice Jardine21, Gayatri Spivak22, Donna Stanton23 e Barbara Johnson24. Come fu già il caso per Lacan e lo stesso Derrida, i testi chiave di questo movimento furono percepiti nel dibattito intellettuale innanzitutto come testi letterari, come pura espressione della cultura francese in contrapposizione per esempio alla filosofia critica tedesca.

Ciò significa che l’ala più esplicitamente politica del pensiero femminista americano, fortemente impiantata in scienze politiche e nella filosofia hard (cioè anglosassone, in contrapposizione al pensiero soft degli europei), non subì l’impatto di questo movimento di pensiero nello stesso modo. Questi schieramenti mi sembrano importanti non tanto per la cronaca accademica, ma piuttosto perché ci permettono di valutare l’importanza delle differenze disciplinari nell’elaborazione del pensiero femminista. Lo schieramento di forze che vede negli USA le letterate, le psicoanaliste e una grande parte delle studiose di scienza umane opporsi alle pensatrici in sociologia, economia ed epistemologia è significativo e penso trovi anche riscontri a casa nostra. Per darvi un esempio, un numero recente della rivista di filosofia femminista Hypa

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tia è stato consacrato al French feminism, che, come ho già detto, è la parola chiave per il pensiero della differenza negli Stati Uniti. Ebbene questo numero speciale, curato da filosofe vicine alle scienze sociali come Nancy Fraser, fu assolutamente devastante e negativo. E’ possibile leggerlo come un gesto di rifiuto del pensiero di Irigaray da parte del campo epistemologico hard, che si arroga il diritto di fare la vera politica e si oppone alla maniera soft di concepire la soggettività politica delle donne.

In realtà, a guardarci da più presso, questo dibattito ha già un precedente nella Francia degli anni ‘70, in un altro dei grandi dibattiti che spezzò il movimento femminista e che oppose tutto il campo della differenza sessuale, senza distinzioni o sottigliezze, al neo-materialismo sociologico di Christine Delphy. Collegata al gruppo delle sociologhe del lavoro che fondarono la rivista Questions feministes, a cui è legata l’italiana Alisa del Re e il gruppo delle donne di Padova26, Delphy lanciò una vera crociata contro il pensiero della differenza, che riteneva a-politico e narcisista, cioè disfattista. Solidamente trincerate dietro alla figura altamente simbolica di Simone de Beauvoir, che giammai brillò per la sua comprensione della differenza sessuale e che fu direttrice della loro rivista, intellettuali della statura di Colette Guillaumin27, Monique Plaza e soprattutto l’enfant terrible Monique Wittig29 furono fra le più veementi critiche del presunto a-politicismo del pensiero della differenza sessuale. A mio avviso fu proprio il loro violento rifiuto a rendere compatto e ad omogenizzare il campo della differenza sessuale, creando l’impressione di una falsa unità tra le varie posizioni.

Insisto su questo punto perché potrebbe farci riflettere sulla situazione italiana, dove si è parlato molto dell’attacco lanciato da Miriam Mafai contro il pensiero della differenza. Io trovo molti punti di riscontro tra questa critica e le posizioni ostili di certe francesi e, dopo di loro, delle americane. La questione centrale resta quella di definire e delimitare il campo dell’azione e della soggettività politica delle donne. Non mancano quindi i precedenti per rispondere agli attacchi delle Mafai di questo mondo: conoscere le nostre genealogie teoriche può aiutarci a rispondere in maniera esauriente e positiva agli ennesimi attacchi, che sembrano assomigliarsi e ripetersi con prevedibile intensità.

Vorrei anche mettervi in guardia contro le facili appropriazioni della verità politica da parte di qualsiasi gruppo. C’è infatti qualcosa di caricaturale ed assurdo nell’affermazione che una sola posizione può ritenersi politicamente corretta. Penso sia meglio esercitare un certo pacifismo nella vita del pensiero, evitando giudizi, condanne al rogo ed

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asserzioni dogmatiche. Gli schieramenti agonistici, puro frutto del pensiero fallo-logocentrico, non giovano molto alla dinamica intellettuale delle donne: cerchiamo di elaborare invece punti di prossimità e di reciproca illuminazione delle nostre differenze. Senza spari.

Il terzo importante momento di rottura è l’influenza crescente del pensiero femminista italiano all’estero. E una novità molto importante, che dobbiamo anche al lavoro di diffusione operato da espatriate come la de Lauretis, da nomadi poliglotte come me, e da ottime professioniste del giornalismo femminista, come Anna Maria Crispino. Le traduzioni non si fanno attendere: la de Lauretis ha pubblicato la versione inglese di Non credere di avere dei diritti30, mentre Sandra Kemp e Paola Bono hanno curato la prima antologia di testi femministi italiani31. Questo nuovo vento che soffia dal sud ha portato all’attenzione delle americane non solo la specificità della tradizione italiana delle lotte femministe, ma anche un’altra maniera di leggere il pensiero della differenza in generale e quello di Irigaray in particolare32.

Tengo a sottolineare che la via italiana nel femminismo ha rivelato una maniera più politica di leggere la differenza sessuale, colmando la distanza tra il progetto simbolico-letterario di certune e quello più socio-politico di certe altre. La via italiana è vista come una posizione intermedia, capace di generare nuove coalizioni e strategie. E come se, per le americane, il femminismo italiano fosse un’alternativa politica al loro French feminism.

E chiaro che quest’ondata di interesse per il pensiero italiano vi mette tutte in una posizione sia di grande rischio che di enorme responsabilità, per il fatto che le vostre discussioni avranno ripercussioni internazionali dirette: vi auguro migliore fortuna delle compagne francesi che vi hanno preceduto in quest’avventura.

 

2. C’è «gender» e «gender»

Nella seconda parte del mio intervento vorrei esporre un brevissimo tracciato del concetto di gender in chiave femminista, appoggiandomi specialmente al saggio di Donna Haraway citato prima.

Nel 1975 Gayle Rubin33 formalizza la distinzione sex/gender nel pensiero femminista, definendo il gender come la costruzione e la codificazione sociale delle differenze tra i sessi e lasciando il sex dalla parte della natura. Questa definizione binaria che ricalca altri celebri dualismi, quali: natura/cultura, non-umano/umano, donna/uomo, ecc.

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ecc. prolunga il pensiero di Simone de Beauvoir. Già nel 1949 essa criticava la costruzione sociale del soggetto femminile, offrendo come quadro metodologico principale la distinzione fra sesso biologico (sex) e categoria sociale (gender). Sulla base di questa distinzione, Beauvoir propose una critica dell’assimilazione del femminile allo stato di natura opponendovi la ricerca della trascendenza, come via liberatrice dall’oppressione.

E chiaro che per lei come per Rubin sia la nozione di corpo che quella di differenza sessuale sono considerate pericolose in quanto intrise di preconcetti patriarcali. La differenza è segno dell’inferiorità gerarchica del femminile sulla scala ontologica dell’essere e deve venire eliminata in quanto tale. L’obiettivo è quindi di de-naturalizzare le differenze che sono fonte d’ ineguaglianza, sottolineando il ruolo giocato dalla cultura nella creazione di questo stato di cose, affinché le donne abbiano accesso alla soggettività.

Gayle Rubin andò più avanti, appoggiandosi a Levi-Strauss e Lacan, per analizzare la funzione simbolica che la donna esercita nel gender system patriarcale, in quanto oggetto di scambio tra gli uomini. Utilizzò i dati dell’antropologia strutturale, specialmente il fenomeno dell’esogamia, cioè lo scambio delle donne nel matrimonio, e li sviluppò in una vera critica del matrimonio in quanto istituzione, che perpetua l’obbligo all’eterosessualità per tutte le donne.

Si passa quindi dal riconoscimento che le differenze tra i sessi sono costruite socialmente e culturalmente, attraverso il gender system, ad una critica della funzione socio-simbolica che è richiesta al sesso femminile in istituzioni quali la famiglia, il matrimonio, la normalità sessuale. Questo ha portato fin dall’inizio ad una critica del legame tra eterosessualità e potere. Quest’idea ha già almeno venti anni di vita nelle gender theories di lingua inglese, che non hanno certo aspettato Luce Irigaray per rendersi conto che esiste un problema fondamentale nell’economia della libido – sia simbolica che materiale – del regime patriarcale. Hanno semplicemente articolato il problema in maniera diversa, ma di simbolico si tratta da lunga data.

La successiva rielaborazione importante del gender system e dunque anche dell’economia della libido femminile e della soggettività prende spunto precisamente dall’ idea dell’obbligo all’eterosessualità: si tratta di Adrienne Rich34 alla fine degli anni ‘70. Esistono due concetti fondamentali per la Rich: the politics of location, cioè la politica del posizionamento o del luogo da cui si parla; e il lesbian continuum, cioè il continuo lesbico.

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Quest’ultimo concetto è stato reso noto in Italia dal Sottosopra Verde «Più donne che uomini», che ricalca o riprende parti del pensiero della Rich, omettendo però i riferimenti più espliciti al vissuto lesbico. L’idea di Adrienne Rich di un continuo nell’esperienza femminile, che accomuna tutte le donne in una serie successiva di gradazioni intensive che vanno fino al momento lesbico, ma possono tranquillamente restare su un piano di affinità, come dice la Haraway, fu un’idea politica importantissima. Permise alle americane di postulare un veicolo politico comune, una differenza fondante di un patto politico tra donne. Questo crea un universo simbolico femminile che è contrapposto al contratto sociale ordinario, in cui l’obbligo all’eterosessualità costruisce le donne come oggetto di scambio tra soggetti maschili.

Quest’elaborazione porta la Rich al momento culminante del suo pensiero, col concetto di politics of location. Esso consiste nel dire che il punto di partenza deve essere il vissuto sessuato femminile di ognuna di noi e che questo non è identico per noi tutte. La nostra somiglianza è invece tessuta di differenze: siamo le stesse nella nostra corporalità femminile, ma il corpo non è pura natura (sex), ma specialmente cultura, cioè punto di intersezione tra il biologico, il sociale e il simbolico (gender). Il fatto di essere donne resta comunque il nostro punto di partenza, la nostra collocazione nel mondo, il nostro modo d’inserzione nella realtà: all’inizio c’è il fatto di essere un corpo sessuato femminile che è fonte di vita e di maternità; questo viene articolato dalla Rich come posizione politica e teorica. A partire da questa comunanza si può anche porre un legame strutturante tra donne, un patto politico ma anche affettivo, che include il momento lesbico pur senza privilegiarlo.

In quanto poetessa, Adrienne Rich esplorò in molti modi la specificità della sessualità e della soggettività femminile, compiendo gesti di rifondazione simbolica di vaste aree della nostra esperienza. Tutto ciò molto prima di e senza conoscenza di Irigaray.

Il passo successivo nell’evoluzione delle gender theories passa per la Francia, non quella di Cixous ed Irigaray, naturalmente, ma piuttosto la Francia di Wittig e compagne. Nelle pagine della rivista Questions feministes, molto legata alle femministe di lingua inglese, l’idea di politics of location e della specificità femminile fu sviluppata in chiave sociologica nel senso delle donne come classe o casta, costruite socialmente come categoria soggetta a rapporti gerarchici.

In questo quadro di pensiero, la categoria donna viene definita come il prodotto di un immaginario e di una rete di rapporti di potere maschili, che riducono tutte le donne ad un modello centrale: esiste in ogni cultura

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un essere donna, o eterno femminile che permette la gestione del contratto sessuale e sociale fra gli uomini. Per conseguenza, la posizione femminista consiste nel proporre la solidarietà nell’oppressione come forma d’azione e la distruzione della categoria dell’essere donna come obiettivo. Qui giocherà un ruolo decisivo Monique Wittig: considerando la donna come puro effetto del gender system, prodotto manipolato dall’uomo, oggettificato e subordinato, la Wittig propone l’abbandono di questa categoria che riassume in sé tutte le varianti possibili dell’oppressione. Vi oppone invece, come immagine della coscienza politica femminista, la categoria della lesbica: la lesbica non è donna, in quanto agisce secondo la sua soggettività politica e non è più schiava del modello proposto dal patto sociale maschile.

Mentre altre teoriche materialiste, come Nancy Hartsock35, spinsero questa idea nel senso di una critica della costruzione sociale del maschile, per Wittig è il femminile a restare al centro del mirino. Il che risulterà in una doppia presa di posizione: da una parte contro il pensiero della differenza che invece di voler sbarazzarsi dell’essere Donna, tende a trasformarlo in un punto di partenza per altre elaborazioni simboliche. D’altra parte però Wittig si schierò pure contro la teoria del continuo lesbico della Rich; per Wittig infatti non c’è continuità, ma distacco tra la posizione lesbica, che raffigura la presa di coscienza politica della libertà femminile, e le semplici donne.

Ed è qui che si situa il doloroso capitolo dei conflitti tra femministe: le forze del gender contro quelle della differenza sessuale; conflitti che hanno avvelenato il clima intellettuale tra donne per anni e che furono conosciuti in inglese sotto il titolo differenza contro uguaglianza. Se si guardano un po’ più da vicino i testi del dibattito, però, si possono constatare grandi punti di contatto e di somiglianza tra posizioni che la polemica rese incompatibili tra di loro. C’è una incapacità reciproca dei due campi a capirsi, ma ci sono anche grossi fraintesi sulle categorie concettuali in uso. Che per Wittig la donna sia da distruggere e che per la Irigaray essa sia da ricreare attraverso un nuovo patto simbolico, non sono poi posizioni così opposte quanto possono sembrare. Invece d’insabbiarci in sterili dibattiti cerchiamo di vedere, testi alla mano, come funzionano le nostre costruzioni teoriche e di cosa sono costruiti i nostri edifici intellettuali.

Restano differenze strategiche, però il punto centrale è la volontà di liberare la soggettività femminile dal modello imposto dal patto fallologocentrico.

Bisognerà aspettare fino agli inizi degli anni ‘80 per poter cominciare

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ad uscire dalla paralisi generata dal conflitto tra queste posizioni. Grazie al lavoro di lucide analiste e teoriche femministe, escono alfine negli Stati Uniti le prime classificazioni critiche del concetto di gender, mentre sbarcano i primi contingenti di pensiero femminista francese rappresentato dalla Cixous. Si deve a Joan Scott uno dei grandi testi d’analisi della gender theories36: propone l’idea del gender come metodo per pensare la relazione tra diverse variabili come classe e razza. Da parte sua, Sandra Harding37 propone una classificazione del gender in tre elementi: come categoria fondamentale della sessuazione, come metodo di organizzazione delle relazioni sociali e come struttura dell’identità.

Inizia così il lavoro di ridefinizione e raffinamento della nozione di gender che porterà agli sviluppi più recenti. Un contributo importante a questo processo è dato dalle socio-psicoanaliste come Nancy Chodorow 38, che ripensarono il gender specificamente come modello d’identità sociale e psichica.

Un altro gruppo di pensatrici che contribuirono molto a far progredire il dibattito sono le sostenitrici della differenza sessuale nel quadro delle differenze etniche o razziali; vengono definite indifferentemente come post-colonial o ethnic. Si sa che negli USA la questione della razza o dell’etnicità è importante fin dagli inizi degli anni ‘60, nel contesto della storia americana dove sia schiavitù che immigrazione giocano un ruolo chiave. Il movimento femminista sorse parallelamente ai movimenti delle Pantere nere ed altri movimenti antirazzisti. Non c’è da stupirsi dunque se, nel bel mezzo degli anni ‘80, emerge tutto un gruppo di pensatrici che sottolineano il razzismo implicito nella teoria femminista attuale.

La critica della tendenza etnocentrica del femminismo è, per me, uno dei momenti fondamentali del femminismo teorico: le compagne di colore affermano che mettere al centro dell’analisi della condizione femminile il concetto di gender oppure quello di differenza sessuale porta all’occultazione della centralità della razza in quanto fattore di differenziazione tra donne. 11 femminismo bianco passa sotto attacco per il suo sfondo razzista. Gli esempi sono molti e mi limiterò a citare le esponenti più importanti di questa ondata di pensiero: Gayatri Spivak, già citata; Chandra Mohanty39 Audre Lorde40 Cherry Moraga e Gloria Anzaldua41 Barbara Smith42 e Trinh Minh-ha43.

La critica però si estende fino alle fonti del femminismo europeo: nel suo lucido studio sulla Beauvoir, Elizabeth Spelman registra la mancanza assoluta di coscienza razziale di questa madre simbolica. Lei

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poi ricollega questa lacuna al quadro concettuale della Beauvoir, colmo di hegelianismo e di dualismi di derivazione cartesiana. In una vena molto simile Donna Haraway45 critica la nozione stessa di filosofia che è all’opera nei testi di Irigaray, sottolineando le radici giudeo-cristiane del suo pensiero e, ancora una volta, la mancanza totale di riconoscimento di altri schemi concettuali meno etnocentrici.

Da molte parti si leva la stessa critica: ma com’è possibile che il femminismo insista tanto sulla differenza sessuale e non sappia pensare le altre differenze? Parlare di gender, o di differenza sessuale va benissimo, ma come ci aiuta a pensare la differenza tra donna bianca e donna nera? Come ci aiuta a vivere la questione palestinese? E quella ebraica? O per restare più vicino a un’Italia in cui la banalizzazione del razzismo è realtà quotidiana, dove i «terroni» e i «vu’ cumprà» rappresentano un’alterità scomoda ed inquietante (specialmente in questa Italia settentrionale coinvolta nel fenomeno delle leghe e dei particolarismi regionali, dove più che mai «l’Africa comincia al Po»), ditemi un po’, compagne, ci aiuta il nostro femminismo a pensare le differenze? E se il femminismo ci impedisce di pensare a questi problemi, insistendo su un ordine gerarchico delle differenze che privilegia la differenza sessuale su tutte le altre, che razza di teoria potrà mai essere?

Una nuova esigenza è sorta dall’interno stesso del movimento femminista: che il pensiero della differenza sessuale, o le gender theories, ci permettano di pensare tutta la differenza e non semplicemente quella sessuale, che è stata codificata da millenni di metafisica occidentale. Se la differenza sessuale non ci permette di pensare tutte le altre differenze, a partire da quelle di razza, ma anche quelle di classe, di nazionalità e cultura, di preferenze sessuali, di scelte di vita, se la differenza non si apre sull’orizzonte delle differenze che differiscono tra di loro, non farà altro che ripetere una delle mosse più classiche del sistema metafisico occidentale: l’elevazione della dicotomia sessuale maschile/femminile al rango di principio generale e concetto fondatore. Mimesis già priva di capitale sovversivo.

 

  1. Gender/differenza sessuale verso i nuovi «cyborgs»

Questo processo di diversificazione e revisione critica dei parametri delle gender theories, sotto l’influsso di varie correnti di pensiero, tra cui anche quelle di provenienza europea (tedesca, francese ed italiana), ma non esclusivamente, con un accesissimo dibattito sulla differenza

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sessuale secondo Cixous ed Irigaray, un forte impatto del discorso lesbico ed una potente spinta critica contro l’etnocentrismo femminista, portano verso la de Lauretis e la Haraway. La de Lauretis si appoggia sulla semiologia di Peirce ed Eco per analizzare la costruzione del soggetto femminile come un processo simultaneo di costituzione simbolica e materiale.

Teresa de Lauretis fa riferimento a Foucault per spiegare sia la nozione di materialità che il processo di soggettivazione, che lei definisce anche come la tecnologia delle differenze. Noi siamo costituiti come soggetti, dice la de Lauretis, secondo un numero di variabili di cui la differenza sessuale è una, ma non l’unica. Altrettanto importanti sono la razza, le scelte sessuali, i diversi livelli d’intensità soggettiva. Tutte queste variabili contano, in rapporto all’essere che non è già più quello della metafisica classica ma riposa invece sul discorso post-metafisico, post-strutturalista, quello del post-umanesimo di Foucault e ancor più di Deleuze. La de Lauretis attacca l’ordine metafisico su cui riposa la filosofia europea della differenza sessuale, richiamando all’ordine l’eterogeneità delle donne. E tutto questo, non in nome di una visione retrograda delle gender theories, ma piuttosto in nome di una complessità crescente nell’ordine stesso della differenza.

Nel suo importante testo intitolato: Technologies of gender, la de Lauretis pone la sua visione del soggetto come processo, eccentrico a se stesso, cioè molteplice e scisso secondo un numero vasto di variabili, in opposizione al soggetto pieno della metafisica. Questo è perfettamente binario e secondo la de Lauretis il binarismo ci impedisce di vedere la vera complessità dei rapporti di potere, che sono molteplici, complessi e s’intersecano in maniera continua. Solo se riusciamo a pensare le molteplicità, e non solo il due o l’una potremo arrivare allo sradicamento della visione classica del soggetto femminile.

La de Lauretis parla molto del paradosso dell’essere donna: il femminile è categoria fondamentale dell’alterità e come tale rappresenta il polo di opposizione assoluto nella scala dell’essere. Il problema per le donne è di riferirsi o di lasciarsi interpellare dalla categoria del femminile senza lasciarsi oggettificare. In altri termini: per poter ride- finire la soggettività femminile dobbiamo partire da una definizione dell’essere donna che è già contaminata da presupposti oggettificanti per le donne che compiono quest’operazione. Partire da una definizione del femminile per poi ridefinirla equivale ad utilizzare metodi di analisi che si sottraggono al nostro potere di analisi: è un terreno minato per cui ci mancano spesso le parole per esprimere ciò che vogliamo dire.

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La categoria del femminile è dunque ben altra cosa che la coscienza femminista, che è portatrice di potenziale critico e politico. Si potrebbe definire la posizione femminista come dis-identificazione delle donne dall’ideale di donna fabbricato dal fallo-logocentrismo come categoria astratta del femminile. Seguendo Foucault si può dunque parlare di resistenza e ridefinizione del soggetto-donna. Quindi la coscienza femminista è già post-coloniale, nel senso di essere già fuori dal fallo-logocentrismo.

Questa visione è ben altra cosa della vecchia idea della donna come altro metafisico, opposto all’egemonia dell’uno maschile. Ed è anche un discorso nuovo nei confronti delle gender theories in quanto costruzione sociale delle differenze tra i sessi. La de Lauretis spiazza entrambi i discorsi, obbligandoci a pensare i rapporti di potere che attraversano il corpo sessuato. Così facendo, ci porta anche a ripensare i rapporti di potere che esistono tra donne, nella discorsività e nell’attività del nostro femminismo: mette a fuoco i molti assi di verticalità che ci differenziano, specialmente i giochi di potere inerenti al fatto stesso di teorizzare, di scrivere, di parlare in pubblico. Ci allerta rispetto al potere che già circola qui tra noi, e ai meccanismi di esclusione, ai silenzi e ai non detti intorno a cui si tesse un discorso che pur tuttavia ci accomuna. Il suo obiettivo è di pensare il legame politico tra donne in modo da poter attraversare gli assi di differenziazione. Che il nostro femminismo possa essere un tessuto di esclusioni, intriso di sfondi classisti e razzisti, e che né le gender theories, né il pensiero della differenza sessuale, nelle loro forme attuali, siano molto utili per rispondere a questo dilemma – sono idee che noi non possiamo ignorare, anzi esse devono spingerci a trovare risposte più adeguate.

Teresa de Lauretis prende in prestito dal pensiero della differenza, specialmente dalla rilettura che Luisa Muraro ha fatto di Irigaray, la necessità della rivoluzione simbolica femminile, cioè di ridefinire il soggetto donna non solo in opposizione al maschile, ma nel senso di un’autoaffermazione del valore e della libertà femminile. Al tempo stesso, riprende certe tematiche tipiche delle gender theories, specialmente l’enfasi sul discorso lesbico e post-coloniale, per produrre la sua formulazione di un soggetto «femminile femminista» per un mondo post-umanista in cui il dominio del fallo-logocentrismo è già a pezzi.

Donna Haraway continua sulla via della de Lauretis e del materialismo foucaultiano; i suoi termini di riferimento immediati sono però la storia delle scienze e della tecnologia, specialmente nel campo della biologia molecolare e tecniche relative ed anche della telematica ed

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informatica. È molto importante per la Haraway pensare il femminismo insieme alle tecnologie più avanzate, per essere veramente all’altezza del secolo in cui viviamo; facendo eco alla scuola epistemologica francese che fin da Bachelard rifiutava la separazione categorica delle scienze umane dalle scienze vere, Haraway ci propone di utilizzare le nuove tecnologie come paradigmi che ci permettono di pensare all’identità in maniera più complessa ed articolata. Molto importante su questo punto è anche la rilettura che la Haraway propone della nozione di politics of location, che lei radicalizza nel senso di una nuova epistemologia. Nell’articolo intitolato Situated knowledges ci propone difatti ilposizionamento come categoria fondante del sapere. Per poter elaborare una qualsiasi teoria, bisogna poter partire dalla lucida consapevolezza di essere situate in un punto preciso. Questa situazione è tessuta di assi variabili; il posizionamento implica un rete di rapporti: di classe, razza, cultura, censo ecc. – che ci strutturano. Il potere è dunque dovunque nello schema della Haraway ed il discorso teorico è per lei, come già lo fu per Foucault, un modo critico di rapporto con le reti di potere e sapere che tessono la soggettività umana.

Questo pensiero high tech serve a disfarci dell’umanesimo classico e ci sprona a ripensare la soggettività contemporanea in termini scientificamente adeguati al nostro tempo. L’idea che il soggetto possa essere ripensato con la cibemetica, cioè su un modello impersonale, multiplo, fatto di connessioni costanti è per la Haraway un punto chiave. Nel suo celeberrimo articolo intitolato Manifesto for cyborgs, Donna Haraway pensa il soggetto come già post-gender cioè come iscritto in un mondo in cui la metafisica distinzione dualistica tra i sessi è già crollata. In questo universo, la tecnologia, lungi dall’essere il nemico, è fonte di nuove forme di identità, fatte di connessioni rapide e discontinue.

In altri termini, per poter riattraversare ed uscire sia dalle gender theories che dalla differenza sessuale, per approdare ad un mondo nuovo, Haraway ci propone di lasciarci interpellare dai fenomeni border-line, alla frontiera di ciò che abbiamo imparato a riconoscere come l’umano: da qui l’importanza delle macchine cibernetiche, degli androidi o cyborg, dotati di poteri sensoriali e capacità di connessione eccezionalmente nuovi. Essi stanno trasformando il concetto stesso di umanità ed anche la differenza sessuale non ne esce indenne.

Haraway iscrive al centro della questione della differenza il rapporto tra l’umano e il tecnologico, affermando che l’alterità radicale ed inquietante oggi non è più la donna, eterno altro dell’uomo nell’ordine metafisico, ma la macchina tecnologica. La frontiera chiave sulla quale

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crolla il vecchio mondo non è già più quella della differenza sessuale – lì il crollo avvenne alla fine del secolo scorso – ma piuttosto la frontiera tra l’umano e l’inorganico. L’artefatto, il simulacro, lo spazio virtuale sono i parametri della nuova soggettività, innalzati sulle rovine dell’edificio metafisico.

Centrale in questa teoria è l’idea che il femminismo odierno deve andare oltre le sterili classificazioni nel quale stagna, per poter pensare il fenomeno, che è quasi tabù, del potere tra donne, dei rapporti di esclusione e di manipolazione tra donne attraverso la parola. Non si può parlare di patto tra donne, o contratto simbolico senza tener conto che queste alleanze implicitamente escludono altre donne. Non è possibile, né politicamente giusto, parlare qui ed ora a nome della Donna, per tutte le altre donne. Questo tipo di pensiero globalizzante è totalitario ed inoltre resta ancora schiavo del sistema dualistico della metafisica occidentale. E quindi urgente tener conto della gamma di poteri che strutturano il discorso femminista, sapendo che il femminismo non è incontaminato dal fallo-logocentrismo, tutt’altro: perpetuiamo noi stesse meccanismi di dominio e di esclusione, manipoliamo noi stesse certe immagini del femminile, a nome di una categoria globalizzante e discriminatoria: quella della donna.

Conclude dunque la Haraway, insieme alla de Lauretis, che l’obiettivo d’oggi per il pensiero femminista è di elaborare un progetto di saperi situated, cioè situati, dove la questione della soggettività femminile si lascerà attraversare da altri assi d’interrogazione, provenienti da altre regioni frontiera: i venti del sud soffiano da regioni molto più lontane. Per la Haraway, questa sarà una vera tempesta che ci libererà da vecchi polarismi per farci pensare in maniera più complessa ed articolata. Ed allora solo si potrà parlare di momento politico nuovo, all’interno della vecchia differenza che le donne rappresentano.

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NOTE

  1. «The essence of the triangle, or: taking the risk of essentialism seriously», in Differences, vol. 1, n. 2, 1988.
  2. Vedere, su questo punto, il numero 37/38 di questa rivista, intitolato «Le genre de l’histoire», il cui saggio introduttivo tratta di questo problema. Il dibattito e stato inoltre riaperto recentemente, nel numero 45 dei Cahiers du Grif dai titolo «Savoir et difference des sexes», che porta tutto sui women’s studies, sia dal punto di vista pratico che teorico.
  3. Vedere, tra l’altro, Le donne al centro. Politica e cultura dei centri delle donne negli anni 80, Roma, Utopia, 1988; DWF, “Il negoziato”, n. 9, 1989; A.M. Piussi, Educare nella differenza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989.
  4. Donna Haraway, «Gender for a Marxist dictionary: the sexual politics of a word», in Simians, cyborgs and women, London, Free Association Books 1990, pp. 127-148.
  5. Un esempio di questa chiave polemica è l’articolo di A. Torriglia sui women’s studies, (il manifesto, 12/9/90, p. 13). Quest’articolo, dal titolo evocativo di: «Cento fiori nel recinto» (non specifica se siano di campo o di serra) dà un’immagine tendenziosa della situazione americana. Dire che tutti i «grandi nomi» del femminismo d’ispirazione post-strutturalista europea sono opposti ai women’s studies è commettere un doppio insulto: contro i mille piccoli nomi che fanno la realtà quotidiana degli studi femministi in America come altrove e contro le stesse donne famose. Visto il poco spazio concesso alle cattedre di women’s studies nelle università americane, non c’è da stupirsi che le intellettuali più conosciute abbiano cercato di fare carriera altrove; ciò non impedisce loro, però, di portare il loro sostegno allo sviluppo di questo campo di studi. E d’altronde, non appena si aprirono i concorsi per le prime cattedre di studi femministi, qualche anno fa, si videro dei grandi spostamenti: Evelyn Fox Keller prese la direzione dei women’s studies a Berkeley e quanto alla cattedra della Columbia University, tutti i grandi nomi di cui si parla in questo articolo vi si candidarono e sembra, ma non è ancora ufficiale, che la carica sia andata alla Spivak. Farebbe assai meglio la Torriglia ad attaccare i women’s studies apertamente e a nome suo, senza strumentalizzare la situazione americana.
  6. Di de Lauretis: Alice doesn’t, Bloomington, Indiana University Press, 1984; The technologies of gender, Bloomington, Indiana University Press, 1987; Feminist studies/critical studies, Bloomington, Indiana University Press, 1986; «Sexual indifference and lesbian representation», “Theatre Journal, n. 2, 1988, pp. 155-1773 tradotto in italiano Differenze e indifferenza sessuale, per l’eleborazione di un pensiero lesbico, Estro editore, Firenze, 1989.
  7. Di Haraway: Primate visions, London and New York, Routledge, 1989; Simians, cyborgs and women, cit.; quest’ultimo raccoglie i suoi articoli più conosciuti, fra cui il

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celeberrimo «Manifesto for cyborgs» ed anche «Situated knowledges».

  1. C. Gilligan, In a different voice, Cambridge, Harvard University Press, 1982.
  2. C. Mancina, «La libertà femminile e i confini dell’etica», Reti, n. 3-4, 1989, pp.

95-99.

  1. Per un’illuminante lettura parallela dei due testi vi rimando all’articolo di Bia Sarasini in Noi Donne.
  2. Di S. Benhabib vedere il celebre libro Feminism as critique, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1987; notevole anche l’articolo «The debate over women and moral theory revisited» in H. Nagl-Nocegal, Feministische Philosophie, Munchen, Oldenburnh Verlag, 1990, pp. 191-201.
  3. Di J.Benjamin: The bonds of love, New York, Pantheon, 1988; «Authority and the family revisited: or a world without fathers?», New German critique, n. 13, 1978; «A desire of one’s own: psychoanalytic feminism and intesubjective space», in T. de Lauretis, Feminist studies/critical studies, cit.
  4. Di J. Flax: Thinking fragments, Berkeley, University of California Press, 1990; «Postmodernism and gender relations in feminist theory», Signs, 12, n. 4, 1987; «Political philosophy and the patriarchal unconscious: a psychoanalytic perspective on epistemology and metaphysics», in S. Harding and M.B. Hintikka, Discovering reality, Boston, Reidel, 1983.
  5. La letteratura su questa materia essendo molto vasta, mi permetto di riferirmi al mio studio sul femminismo e la filosofia della differenza: Patterns of dissonance, Cambridge, Polity Press, 1991; in corso di traduzione in lingua italiana per la Tartaruga.
  6. Fra i molti testi di H. Cixous, cito: Prénoms de personne, Paris, Seuil, 1974; La,

Paris, des femmes, 1976; Portrait de Dora, Paris, des femmes, 1976; Angst, Paris, des

femmes, 1977; Ananke, Paris, des femmes, 1979; Entre l’écriture, Paris, des femmes,

1986; Promethea, Paris, Gallimard, 1987. Tra gli innumerevoli articoli, cito: «Le sexe

ou la tête», Les Cahiers du Grif 1975, pp. 5-15; «Le rire de la Meduse», L’Arc, n. 61,

  1. Notevole anche il suo libro, scritto con C. Clement, La jeune née, Paris, U.G.E.,

1975.

  1. Uno dei primi grandi interventi in questa area crepuscolare del pensiero femminista è quello di E. Fox Keller, «Competition: a problem for academic women?», in V. Miner and H.E. Longino, Competition: a feminist taboo?, New York, The Feminist Press, 1987.
  2. Vedere su questo punto il libro di Claire Duchen, Feminism in France, London, Routledge, 1986.
  3. Il volume più significativo in questo campo è l’antologia di E. Marks e I. de Courtivron, New French Feminism, Amherst, University of Massachussets Press, 1980; si tratta di una vera vetrina delle scrittrici della differenza sessuale in Francia.
  4. Per anni direttrice dei women’s studies al Barnard College della Columbia University, N.K. Miller ha scritto: The poetics of gender, New York, Columbia University Press, 1985; Subject to change, New York, Corneil University Press, 1988. Notevole anche il saggio: «Changing the subject: authorship, writing md the reader», in T. de Lauretis, Feminist studies/critical studies, cit., pp. 102-119.
  5. Per anni componente del celebre Pembroke Centre for research on women e co-fondatrice della rivista Differences che è il migliore esempio della nuova direzione

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del pensiero femminista americano, N. Schor ha scritto: Reading in detail, New York, Methuen, 1987; «Dreaming dissymetry. Barthes, Foucault and sexual difference», in A. Jardine e Paul Smith, Men in feminism, New York, Methuen, 1987; notevole anche «This essentialism which is not one: coming to grips whit Irigaray», in Differences, n. 2, 1988.

  1. Coordinatrice dei women’s studies all’Università di Harvard, A. Jardine è l’autrice di Gynesis, Ithaca, Cornell University Press, 1984; notevole anche «Pre-texts for the transatlantic feminist», Yale French studies, n. 62, 1981 e «Opaque texts and transparent contexts: the political difference of Julia Kristeva», in N.K. Miller, The poetics of gender, cit.
  2. Di G.C. Spivak: In other worlds, New York, Methuen,1987; importanti anche:

«Displacement and the discourse of woman», in M. Krupnik, Displacement, Derrida and after, Bloomington, Indiana University Press, 1983; «Feminism and deconstrucion again: negociating with unaknowledged masculinism», in T. Brennan, Between feminism and psychoanalysis, London, Routledge, 1989, pp. 206-224.

  1. Di D. Stanton, che dirige i women’s studies all’Università di Michigan, «Difference on trial: a critique of the maternal metaphor in Kristeva and Irigaray», in N. K Muiller, The poetics of gender, cit.; «Language and revolution: the Franco-American disconnection» in A. Jardine e H. Eisenstein, The future of difference, Boston, G.K Hall, 1980.
  2. B. Johnson, The critical difference, London e Baltimore, John Hopkins University Press, 1982.
  3. Di C. Delphy esistono solo articoli sparsi, raccolti in un volume in inglese, Close to home – a materialist analysis of women’s oppression, London, Hutchinson, 1984; notevoli i suoi testi: «Pour un feminisme materialiste», L’Arc, n. 61, 1975; celeberrimo il suo attacco contro il pensiero della differenza: «Proto-feminisme et anti-feminisme», Les Temps Modernes, n. 346, 1975.
  4. Di A. del Re: Stato e rapporti di sesso, Milano, Franco Angeli, 1989; I rapporti sociali di sesso in Europa (1930-60), Padova, Antonio Milani, 1991; vedere anche: «Pratiques politiques et binomes theoriques dans le feminisme contemporain», Les Cahiers du Grif, n. 45, 1990, pp. 17-28.
  5. C. Guillaumin: «Questions de difference», Questions feministes, 6, 1979.
  6. Famosi i suoi attacchi contro Luce Irigaray: «Pouvoir phallo-morphique et psychologie de la femme», Questions féministes, 1, 1977 e «La même mère», Questions féministes, 7, 1980. Notevole anche la sua critica di Foucault, «Nos dommages et leurs intérets», Questions féministes, 3, 1978.
  7. Nemica giurata del pensiero della differenza sessuale, residente in California, è l’autrice del celebre Le corps lesbien, Paris, Minuit, 1973; Les guerrillieres, Paris, Minuit, 1968; notevoli i suoi saggi: «La pensée straight», Questions féministes, 7, 1980 e «Postface» in D. Barnes, La passion, Paris, Gallimard, 1982.
  8. Titolo: Sexual difference: a theory of socio-symbolic practice, Bloomington, Indiana University Press, 1991; molto interessante l’introduzione della de Lauretis con uno scambio epistolare significativo con Luisa Muraro.
  9. Italian feminist theory, Oxford University Press, 1991.
  10. Vedere, su questo punto, la doppia pagina curata da Anna Maria Crispino in

 

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Leggendaria, supplemento libri di Noi Donne, maggio 1990.

  1. G. Rubin, «The traffic in women: notes on the political economy of sex», in R. Reiter Rapp, Towards an anthropology of women, New York, Monthly Review Press,

1975.

  1. A. Rich: Of woman born, New York, W. W. Norton, 1976; On lies, secrets and silence, New York, W.W. Norton, 1979; «Compulsory heterosexuality and the lesbian existence», Signs, n. 4, 1980; «The politics of location», Blood, bread and poetry.
  2. N. Hartsock, «The feminist standpoint. Developing the ground for a specifically feminist historical materialism», in S. Harding md M. B. Hintikka, Discovering reality, cit.
  3. «Gender: a useful category of historical analysis»; importante anche «Deconstructing equality versus difference», in Feminist studies, 14/1, 1988.
  4. S. Harding, The science question in feminism, Ithaca, Cornell University Press,

1986; in collaborazione con M. B. Hintikka, Discovering reality, cit.

  1. N. Chodorow: The reproduction of mothering, Los Angeles, University of California Press, 1978.
  2. C. Mohanty, «Feminist encounters. Locating the politics of experience», Copyright, n. 1, 1987; «Under western eyew: feminist scholarship and colonial discourse», Feminist review, n. 30, 1988.
  3. A. Lorde, Sister outside, Trumansberg, N.Y., Crossing, 1984.
  4. C. Moraga e G. Anzaldua, This bridge called my back, Watertown, Persephone, 1981; Loving in the war years, Boston, South End, 1983.
  5. B. Smith: «Towards a black feminist criticism», in E. Showalter, The new feminist criticism, New York, Pantheon, 1985, pp. 168-185; Home girls: a black feminist anthology, New York, Kitchen Table, Women of Color Press, 1983.
  6. Trinh Minh-ha, Woman, native, other. Writing postcoloniality and feminism, Bloomington, Indiana University Press, 1989.
  7. E. Spelman, Inessential woman, Boston, Beacon Press, 1989.
  8. Donna Haraway, «The promises of monsters», sarà pubblicato in P. Treichier, L. Grossbergn, Cultural studies now and in the future.

 

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