Elena Pulcini – I diritti e la morale

Anche quest’anno l’8 marzo sarà oggetto di molteplici celebrazioni. Ma ormai da tempo le donne hanno imparato a vivere questa ricorrenza non come un retorico e vuoto rituale bensì come un’occasione per riflettere su se stesse, sulle proprie conquiste e sconfitte, sui traguardi raggiunti e gli obiettivi mancati.
Anche quest’anno non mancano motivi per festeggiare: basti pensare, con uno sguardo al mondo, al ruolo inatteso che le donne hanno svolto nella “primavera araba”, dove hanno sfidato un’immagine secolare di oppressione intervenendo attivamente nella rete e persino scendendo in piazza contro un potere tirannico e omicida. Ma ci sono anche motivi per restare in allarme e per continuare a lottare. Perché quella delle donne è una rivoluzione permanente, che non consente soste né definitive certezze, in quanto esposta, più di ogni altro percorso emancipativo, a continue regressioni.
Come negare infatti, che l’anno appena trascorso sia un esempio lampante del pericolo regressivo sempre in agguato? Un pericolo che assume un duplice volto, manifestandosi in forme molto diverse, ma tristemente speculari, di violenza. Da un lato, nella sfera privata, assistiamo ad episodi quotidiani di stalking, molestie, delitti, da parte di uomini risentiti per la perdita della loro posizione sovrana, incapaci di accettare la profonda trasformazione che investe oggi inevitabilmente l’identità e i ruoli dei due sessi. Dall’altro, le donne hanno subito, sul piano collettivo, una mortificazione della loro immagine, ridotta in modo addirittura caricaturale ai suoi attributi sessuali; un’immagine che credevamo obsoleta grazie alle nostre conquiste intellettuali e professionali, e che invece è tornata ad imporsi, rafforzata dall’arroganza di un potere politico compiaciuto della propria immunità e veicolata da un potere massmediale complice e subalterno.
Il fatto è che queste due forme di violenza, l’una evocatrice di tirannie premoderne, l’altra espressione di derive postmoderne, sono due facce della stessa medaglia; vale a dire di un degrado culturale e morale di cui l’era berlusconiana ha rappresentato indubbiamente l’apice miserevole, ma che ha radici più profonde: radici e ragioni che sarebbe troppo semplice confinare ad una stagione politica. E’ un degrado che trova origine infatti nelle patologie della società post-moderna: nello smarrimento di valori prodotto da un mondo liquido e privo di parametri, nel dilagare delle passioni tristi come l’invidia e il risentimento e nell’affievolirsi delle passioni del limite, come la paura e la vergogna; nell’esaltazione del mito del successo senza merito e senza impegno e nella presunzione di un individualismo illimitato in nome del quale tutto appare lecito; come pure nella visione strumentale e competitiva dell’altro quale ostacolo da superare o mezzo da usare ai propri fini. Non spetta certo solo alle donne combattere tutto questo, e tanto meno autoinvestirsi di una funzione salvifica. E’ vero però che una delle più preziose eredità della riflessione femminile e femminista è stata finora la capacità di esercitare la critica del presente e di denunciarne gli aspetti negativi. Lottare contro la violenza nelle sue molteplici forme significa allora non solo lottare per affermare i propri diritti e la propria libertà, ma anche denunciare l’immiserimento delle prospettive, delle passioni e delle relazioni che, sebbene sia duro da ammettere, investe oggi anche le donne, laddove diventano, in nome di una malintesa libertà, complici delle patologie della contemporaneità. Questa denuncia non ha niente a che fare con un presunto “moralismo”, come pretendono oggi i sostenitori di un liberalismo selvaggio, che purtroppo annovera tra le sue fila sia uomini che donne; ma tende piuttosto ad affermare il diritto al dissenso persino verso le altre donne, laddove sia necessario, e ad esercitare la capacità morale di interrogarsi, sempre e comunque, su ciò che riteniamo buono e giusto.
Redazione

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