Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto – Intervista

di Loredana Lipperini e Claudia Durastanti, Festival del Salone del Libro, Torino, 15 maggio 2020. A cura di Giulia Rossini – Collettiva Matsutake

Lipperini: In che modo il pensiero dello Chthulucene è un pensiero tentacolare e può se non impedire frenare quello che siamo abituati a definire come il pensiero della catastrofe che è quello che attraversiamo? Il pensiero della catastrofe infatti di certo fotografa il contesto in cui viviamo, ma rischia di peggiorare le cose. A me sono venuti in mente due personaggi di un racconto di fantascienza, sono gli Eptapodi di Storia della tua vita di Ted Chiang. Gli eptapodi hanno una scrittura semasografica, che si sviluppa come una ragnatela, che quindi non ha verso, né direzione né punteggiatura, non ha un inizio né una fine. L’eptapode quindi quando lo scrive sa già ciò che vuole dire. Dobbiamo quindi provare a sviluppare un pensiero che ci ponga ai margini e non al centro? Abbiamo bisogno di parole nuove?

Haraway: È una riflessione molto ricca e stratificata come il compost più che una singola domanda, il che fa assolutamente al caso nostro! Ci penserò insieme a un compagno familiare appollaiato sulla mia spalla che ha a che fare con lo Chthulucene. È un polpo di pezza proveniente dal Monterey Bay Aquarium. A differenza di gran parte dei polpi giocattolo, il suo occhio è biologicamente corretto, non è un occhio umanoide, rotondo e a noi familiare. È come dovrebbe essere l’occhio di un polpo. Quindi se comprate questo giocattolino, non state comprando una proiezione umana, ma vi state in un qualche modo aprendo alla possibilità di incontrare qualcosa che non siete voi. Un essere vivente che vive in mondi che non vi appartengono, ma che forse state imparando ad abitare insieme a questo altro essere vivente in una maniera meno distruttiva. Per me lo Chthulucene, il tempo dei terrestri, il tempospazio ctonico, non è qualcosa di antico e passato e ritrovabile solo nei testi classici, ma è il tempo dell’essere-terrestri-adesso, insieme ad altri esseri terrestri nello sforzo di vivere e morire bene insieme. In un modo che escluda l’eccezionalismo umano dal quadro, anche se le specificità degli esseri umani, fatte di storie situate, di desideri e bisogni situati non sono fuori dal quadro: sono in questa ricca “intra-azione”, come direbbe Karen Barad, con altre macchine, altri organismi, con il mondo costruito, il mondo ereditato, in termini naturalculturali.
Non ragiono senza una direzionalità, questo non è un pensiero oceanico, una semiotica di non significati: questo orizzonte di pensiero è invece un mondo fatto di pensieri situati, i cui significati non sono mai semplici né univoci. Se penso, ad esempio, ai ragni non penso all’assenza di una direzione ma penso: di quali ragni specifici stiamo parlando? E dove vivono? E in quali mondi io e i ragni diventiamo presenti vicendevolmente? Si tratta di una relazione distruttiva o tesa a una prosperità? I ragni sono predatori – credo che ci sia un solo ragno vegetariano che si sia mai evoluto sul pianeta terra – e sono straordinariamente bravi a percepire, tracciare e mangiare la loro preda. I ragni non sono metafore semiotiche senza una direzione, ma esseri che esistono e hanno un ruolo ecologico per se stessi e anche per noi: ad esempio, i ragni a casa mia sono bravissimi a catturare le mosche e io non tiro mai giù le ragnatele negli angoli della stanza perché sono molto contenta del fatto che intrappoleranno e cattureranno le mosche. Lo Chthulucene mi interessa in quanto tempo di un vivere e morire insieme all’altro, un vivere e morire materiale, semiotico e situato che si snoda attraverso tante scale spaziotemporali; mi interessa per la capacità di risposta, per la nostra “responso-abilità”. Lo Chthulucene non è una sorta di vaga metafora pseudo-deleuziana, ma riguarda invece l’essere parte della Terra in tutte le sue complessità, che per noi esseri umani implica anche complessità linguistiche ed etiche che non sono le stesse che un polpo potrebbe ritrovarsi ad affrontare! Lo Chthulucene è contro l’eccezionalismo umano e si oppone a ogni declinazione apocalittica e alle svariate narrazioni secolari o religiose protese alla tragedia umana o al suo trionfo, narrazioni che sono evidentemente umaniste in ultima istanza. In questo senso è contro questo tipo di umanismo, ma non contro gli esseri umani! Al contrario, lo Chthulucene è contro tutto un apparato di pensiero, di raccontare e vivere all’interno del paradigma (o nei termini) dell’eccezionalismo umano.

Durastanti: Hai parlato del vivere e morire bene con le altre specie e gran parte del tuo lavoro recente si focalizza sulla solidarietà inter-specie. Ci ho pensato molto in questo periodo anche per via della pandemia: come si fa ad avere questo tipo di conversazione quando si fa tanta fatica a concepire la solidarietà con la propria stessa specie? Nel libro riprendi un bellissimo passaggio di Flight Ways di Von Dooren in cui c’è un invito a riconoscere il fatto che anche alcune specie animali fanno esperienza del lutto e cercano di riparare la vita attraversando la sofferenza. Mi interessa sapere in che modo i tuoi pensieri stanno cambiando per via della pressione di ciò che sta accadendo in questo momento e come ti rapporti al tema della solidarietà tra specie quando si tratta di un momento così critico per la solidarietà della nostra di specie.

Haraway: Per prima cosa, se quello che ho detto prima pare interessare solo le altre specie allora mi sono espressa male, poiché mi riferisco a diverse solidarietà anche all’interno di una specie, ma sempre insieme agli altri. Con i virus per esempio, che non sono sempre presenze amichevoli e che in questo caso non lo sono affatto. Come i vari modi di vivere e di morire, di nutrire e uccidere diventano parte costitutiva dell’essere una persona immersa nella sua materialità?
Quindi la solidarietà con gli altri non è mai stata così intensamente necessaria come adesso e per tanti versi non è mai stata così difficile da costruire, sostenere e diffondere.
In quanto professoressa in pensione che ha una casa e un giardino, mi trovo relativamente a mio agio, con un’entrata fissa e stabile durante le quarantene indette dal governo e la possibilità di stare all’aperto; per me questo momento è molto diverso dalla situazione che sperimentano molte delle persone migranti qui a Santa Cruz, diverso da quello che vive chi deve lavorare da casa con bambin*, in spazi troppo piccoli e senza reddito. Magari si può avere una sospensione degli affitti ma ciò non significa che tra tre o sei mesi quell’affitto non andrà pagato. Magari un membro della famiglia può lavorare, ma ciò contraddice l’ordine di restare a casa, quindi nel caso quella persona lavori all’aperto viene a malapena tollerata o sgridata dai vicini, convinti di essere messi in pericolo dalla sua presenza, anche se si sa che se quella persona non lavora la famiglia non mangia. Che tipo di solidarietà è necessaria?
Per prima cosa una solidarietà intesa come un lavoro concreto fatto ora con e per gli altri. Tale solidarietà è un dovere, non un’opzione. È un dovere esercitare pressione politica affinché, per esempio, lo Stato della California prenda misure per garantire cibo, affitto e reddito per implementare politiche che non siano una sospensione delle spese per affitto e mutuo ma un condono. È un dovere esercitare pressioni politiche che spingano a prendere decisioni sull’agricoltura non solo nel breve periodo ma anche nel lungo periodo, ad esempio chiudendo per sempre gli stabilimenti industriali, dove viene praticato il massacro degli animali per il mercato alimentare, garantendo un reddito e uno status legale per le persone che lavorano in questo settore. La maggior parte degli stabilimenti dove si lavora la carne animale negli USA sono tra i centri di maggiore contaminazione e diffusione della pandemia e la maggior parte dei lavoratori impiegati non hanno il permesso di stare nel paese, non hanno documenti anche se sono lavoratori essenziali. In tempi di pandemia, la solidarietà verso le persone migranti è diventata più importante, non meno importante.
C’è poi il tema dell’educazione alla scienza: in tutto il mondo, e di sicuro dove vivo io, c’è un fortissimo anti-intellettualismo e un piglio anti-scientifico, c’è un sospetto verso gli esperti – e a volte questo sospetto ha ben ragione di essere! Ma, in generale, ci troviamo davanti a una profonda e sistematica ignoranza e diffidenza. La solidarietà implica anche un costante e continuo incoraggiamento verso l’educazione scientifica, magari anche tramite giochi, performance online, paper affidabili, pubblicazioni popolari e diffuse che si occupino di domande fondamentali come: “che cos’è un virus”? “tutti i virus sono cattivi?” “e invece i microbi?” “sono tutti cattivi o abbiamo delle socio-ecologie con i virus e con i microbi?”. Dobbiamo pensare a questo: quale tipo di convivenza con i virus proteggerà qualcuno di più rispetto a un altro? Chi viene protetto e chi è in pericolo?
Quindi queste domande sulla solidarietà non sono antitetiche alla solidarietà multispecie. Essere una creatura terrestre significa vivere di queste solidarietà necessarie, situate e insieme all* altr*, un “insieme all* altr*” che non è mai solo umano, collocandosi sempre all’interno di ecologie socio-naturali.
Vi faccio un veloce esempio: questo particolare virus probabilmente si lega in maniera abbastanza diretta a un processo di costante distruzione e semplificazione dei sistemi di altri esseri viventi, tra cui i pipistrelli. Gli stili di vita degli esseri umani, nelle nostre pratiche agricole, nella nostra fitta urbanizzazione, nella nostra penetrazione degli ambienti di vita delle altre specie hanno creato un mondo vulnerabile alle pandemie. Un mondo vulnerabile alle pandemie che i ricchi riescono a tenere a bada – non questa volta, questa volta li abbiamo beccati, anche se non allo stesso modo!
Pensare seriamente ai virus richiede un pensiero critico sulle pratiche dell’agricoltura favorevoli alle pandemie in modo che diventino meno favorevoli alle epidemie, creando così un vivere e morire con l* altr* che non sia solo orientato al disastro per noi e per le altre specie.
Questo è il tipo di pensiero di cui abbiamo bisogno ora e non è apocalittico, ma prende seriamente in considerazione l’ipotesi di morti di massa.

Durastanti: Non credi che sia stata un po’ un’opportunità mancata l’abbondanza e la ridondanza delle metafore di guerra che hanno saturato il linguaggio durante la pandemia con retoriche belliche e con un lessico tecnocratico?

Haraway: Mi ritrovo completamente d’accordo con te. La metafora della guerra è un fardello enorme al momento e ovviamente non si tratta solo di una metafora: ci sono elicotteri militari che sorvolano la città in omaggio alle infermiere – se alle infermiere servisse un tributo di certo non lo necessiterebbero dagli elicotteri militari!
Non è solo una metafora! Abbiamo un intero approccio orientato al nemico invece di dire “aspettiamo un attimo: questo è un chiaro segno, e probabilmente anche più di un segno, di ecologie socio-naturali completamente sballate. Il nostro modo di stare con la complessità multispecie è sballato. Come facciamo a riparare queste ecologie danneggiate? Che tipo di lavoro riabilitativo e di recupero è necessario?”
E in questo discorso è fondamentale includere anche il tema della protezione delle persone che stanno vivendo il lockdown in luoghi di accoglienza senza un supporto al reddito o le persone che devono lavorare anche ora. Ci troviamo in questo stato di urgenza per via di ecologie distrutte. Ci sono infinite metafore a cui possiamo attingere e con cui possiamo lavorare, e non sono solo metafore “felici” poiché non si passa dalla guerra a una sorta di felicità estatica: ci sono altri tipi di serietà che non descrivono lo stare in una fortezza tra i nemici, ma parlano di recuperare e riabilitare il mondo l’un* per l’altr*. Questo non riguarda “solo” gli esseri umani, ma “anche” gli esseri umani.
Il ripensamento del rapporto naturalculturale non vale solo per i femminismi. Apparteniamo a culture che per centinaia di anni si sono rette sulla premessa dell’eccezionalismo umano sia in senso sacro che profano, orientato a una separazione tra natura e cultura. Il sé si è costituito in questa cornice qui. Stiamo veramente combattendo – vedete cosa ho fatto? Sono andata a prendere subito una parola guerresca, aiuto, aiuto! Siamo irretiti dentro a mondi che cerchiamo continuamente di riparare, recuperare, ripensare e rivivere. Perciò non vale solo per i femminismi.
Ad ogni modo, il Manifesto cyborg risale agli anni Ottanta, non agli anni Novanta, i primi anni Ottanta ad essere precisi: per tanti motivi per me le origini del Manifesto coincidono con gli Stati Uniti di Ronald Reagan e una nuova riflessione a sinistra in Jugoslavia, nello sforzo di ripensare il marxismo. Il Manifesto si inserisce chiaramente nel contesto degli anni Ottanta, non Novanta. Perciò il Manifesto cyborg aveva decisamente a che fare con la tendenza dei femminismi occidentali, non solo occidentali ma soprattutto questi, di accettare il determinismo tecnologico in chiave anti-tecnologica e di potere criticare l’apparato scientifico e medico a ragion veduta, rendendolo il nemico, invece di riappropriarsi di scienza e medicina per nuovi modi più fiorenti di vivere. Io volevo riappropriarmi dei cyborg per permettere al femminismo di prosperare e questo implicava una seria riflessione sul genere e i suoi apparati: il genere come qualcosa che non è mai solo naturale o culturale, ma qualcosa di diverso, per cui non abbiamo parole; per questo motivo ho fatto implodere le parole, arrivando a “naturalculturale”, qualcosa che nessuno sa pronunciare in maniera davvero spedita in quanto concetti che implodono a vicenda.
Non utilizzerei il termine “ibrido”, che rimanda a due cose prese distintamente e mischiate, perché è più un’implosione, una specie di “emersione” di qualcosa di diverso, ancora possibile in altri mondi, che, a dire il vero, sono qui e che sono sempre stati qui. Viviamo già in mondi profondi e complessi fatti di solidarietà, di cura e con una fame di giustizia e di cura, di capacità concrete per farlo, di modi seri di vivere con altre specie.
Queste cose sono ovunque se iniziamo a guardarci bene attorno- e non è detto che “guardare” sia la metafora corretta! Una mia amica, Katie King, quando si parlava di tutto ciò di cui abbiamo bisogno, diceva: “C’è già più di quel che pensiamo, e meno di quel che ci serve”. Più di quel che pensiamo e meno di quel che ci dovrebbe essere. Se pensiamo alle pratiche di giustizia, di cura e di solidarietà vitale di cui c’è davvero bisogno adesso, ne abbiamo di più, qui e adesso, di quel che pensavamo e meno di quanto ne avremmo bisogno. È compito nostro prendere i mondi ricchi di queste cose e aprirne i confini così da silenziare i mondi fascisti, punitivi e militaristi e trasformarli da potenti a insignificanti, riducendoli a inezie.
Ed ecco cosa i cyborg per me rappresentavano, mentre cercavo di ri-significarli: era sicuramente un progetto femminista, ma non solo femminista.
In Manifesto cyborg mi riferisco all’epoca in cui si è consolidato ed è esploso il neoliberismo con tutti i suoi apparati esponenziali. Credo che gli anni Ottanta siano stati un decennio di sconfitte degli assetti del secondo dopoguerra, includendo eventualmente anche i paesi nordici con i loro apparati sociodemocratici, apparati presenti anche in Italia: penso agli attacchi ai suoi sindacati o alle femministe degli anni Ottanta attive nell’ambito del lavoro che conobbi in Italia al tempo. Penso che gli anni Ottanta siano stati un decennio critico, un decennio di perdita, di grande perdita per la sinistra progressista, una perdita non totale ma significativa. Il Manifesto cyborg nasce da quello e non penso ci sia un “ritardo” nella sua fruizione in Italia perché durante quel periodo ero in contatto con le femministe marxiste della sinistra italiana che erano impegnate nella lotta sul lavoro; ricevevo notizie dalle femministe tedesche in maniera simile nello stesso periodo. Non conosciamo abbastanza dei nostri reciproci movimenti, di certo questo è un punto da considerare. Credo ci siano anche straordinarie differenze: per esempio, molte mie amiche femministe europee nutrivano un disprezzo per l’ecofemminismo, come se fosse un movimento retrogrado, naturalista, fatto di donne che venerano le dee – se fossi una persona religiosa adorerei una dea!
A ogni modo, l’ecofemminismo veniva interpretato come una cosa semplicistica e non lo è mai stato, è sempre stato un movimento ricco e complesso. Credo che per alcuni femminismi europei è stato difficile comprenderlo, almeno tra le persone nelle mie cerchie.
Ricordo di aver tenuto una lecture a Firenze e un gruppo di femministe romane prese il treno per venirmi a sentire. Era il periodo in cui stavo lavorando su The Companion Species Manifesto e in cui parlavo di cani; le femministe romane amavano il Manifesto cyborg, quello era un vero marxismo femminista, teoricamente robusto, un pensiero strutturato, che io avevo completamente distrutto buttandomi su un pensiero naturalista tra le nuvole e fissato con i cani: potevo essere considerata ancora una femminista? Non c’era niente nei cani a cui le femministe potessero essere interessate. Erano molto accigliate, molto sofisticate e io mi sono sempre sentita insicura tra le femministe romane perché erano vestite sempre molto meglio di me! Avevano un aspetto molto sofisticato, erano in grado di parlare di teoria in modi in cui non sono mai stata capace. Ero spaventata a morte da queste femministe romane che erano venute apposta a sentirmi ed erano molto, molto irritate da una femminista americana in comunione con la natura che ama le dee e porta a spasso i cani! Sto esagerando, ma sto esagerando solo un po’, perché più che “ritardo” direi che c’era una distanza: vivevamo nello stesso periodo di tempo ma c’erano fortissime differenze di stile, nell’uso di metafore, nei modi di pensare, nell’imparare ad ascoltarsi a vicenda. Penso che in un qualche modo la verità era che avevamo paura l’una delle altre, io so che avevo paura di loro e loro erano sulla difensiva rispetto a me. C’è voluto tempo e un po’ di senso dell’umorismo per imparare i reciproci femminismi senza essere giudicanti.

Durastanti: Mentre parlavi pensavo anche a questo interscambio tra il dentro e il fuori, penso alla riscoperta del lavoro di Silvia Federici dopo che è stato un po’ in ombra in Italia, anche perché ha operato in gran parte negli Stati Uniti, e i suoi scritti sul lavoro domestico salariato sono spesso stati marginalizzati qui. Ci sono state conversazioni ma anche distanze.
Un passaggio del libro che mi ha molto colpita, e so che è una domanda un po’ delicata, è legato a uno dei motti del libro “Generate parentele, non bambini!”: qual è il tuo punto di vista sul rapporto tra femminismo e giustizia ambientale? È una questione complessa perché dici che alcune femministe hanno negato la realtà della Grande Accelerazione e il fatto che ci siamo troppi umani sulla Terra. Come si traduce questo punto di vista nella pratica senza scivolare in scenari pericolosi come il controllo biopolitico del corpo o l’imperialismo? È giusto prendere sul serio la giustizia ambientale e abbiamo davvero il bisogno di fare parentele più che bambini.

Haraway: Prendo questa domanda molto seriamente e forse è stata la domanda più difficile con la quale abbia mai dovuto confrontarmi, motivo per cui non penso ci sia una risposta semplice. Consideriamo un libro – Making Kin. Fare parentele, non popolazioni: è un piccolo libro a cui ho lavorato con altre femministe come Adele Clark, Kim TallBear, Michelle Murphy, Ruha Benjamin, Yu-Ling Huang per cercare di confrontarci con una domanda difficilissima. Non siamo tutte d’accordo qui dentro, ma si tratta di un gruppo di femministe situate che tengono moltissimo al tema della cura e della giustizia nell’ambito dei diritti riproduttivi, che riconoscono la priorità delle donne del femminismo di colore[1] come SisterSong, che ha sviluppato gran parte del pensiero attorno alla giustizia riproduttiva, inclusa la terminologia. C’è un impegno verso la giustizia riproduttiva dal punto di vista femminista verso i diritti delle donne quando si tratta di autonomia riproduttiva e autonomia sessuale. Con questo vogliamo dire che solo una donna può prendere una decisione se avere un bambino o meno, rifiutando tutte le forme di coercizione sociale da parte dei programmi di controllo della popolazione. Riconosciamo lo scandalo procurato da tanti fenomeni di ingiustizia riproduttiva, come l’esistenza di abitazioni non adeguate, di un’istruzione non adeguata, assistenza sanitaria fallimentare, razzismo, il disprezzo verso bambin*, l’uccisione di giovani uomini neri, la separazione forzata dei bambini al confine con il Messico: sono tutte forme di ingiustizia riproduttiva, che rimangono un tema di interesse primario per le femministe, senza dimenticarci, neanche per un secondo, una domanda fondamentale: come possiamo prendere in considerazione allo stesso tempo la contraddizione rispetto al numero sempre crescente di umani, in un senso non-malthusiano? Se non usiamo parametri malthusiani, una femminista come noi si accorge subito del fardello imposto sulla Terra da parte della popolazione che vive nelle regioni ricche del mondo. Gli assalti più gravi alla giustizia riproduttiva avvengono nei contesti benestanti e consumisti: parlo di contesti iper-capitalisti, iper-consumatori in cui nascono meno bambini ma che hanno un impatto molto gravoso sul pianeta e anche sui bambini meno abbienti oltre che sulla biodiversità in generale. Penso per esempio alle attività di estrazione mineraria, volte a produrre le sostanze rare necessarie per produrre un mondo interconnesso tecnologicamente, così come le catene di produzione e distribuzione che hanno date conseguenze sugli esseri umani, così come altre implicazioni sulla biodiversità quando si parla di produzione dell’olio di palma per ottenere vari prodotti, l’industria della carne, per la soddisfazione degli appetiti del mondo benestante e la costruzione di apparati multinazionali commerciali per aumentare il consumo di carne, sia come pratica sia come status di benessere. Lo sviluppo globale della classe media occidentale l’ha portata a essere la classe che consuma sempre di più. Quindi anche se gli indici di natalità si abbassano – e si stanno abbassando pressoché ovunque – le pratiche di distruzione si intensificano. E queste sono tutte domande incentrate sulla riproduzione. Allo stesso tempo, come ho scritto in Making Kin. Fare parentele, non popolazioni quando sono nata, nel 1944, la popolazione globale era di circa 2,4 miliardi di persone e quando morirò da donna bianca ricca e privilegiata – a meno che il Covid non mi prenda prima – la popolazione della Terra sarà attorno agli 8,5 miliardi, forse un po’ di più. E così, nel giro della vita di una ricca donna bianca privilegiata il numero di persone è aumentato così tanto. Questo non va bene. Cosa ha scatenato questi numeri? Per molti versi sono state le stesse forze che hanno scatenato l’iper-sfruttamento chiamato Grande Accelerazione, che è un termine che uso con cautela perché porta con sé tutta una serie di ideologie problematiche. Ma le grandi esplosioni dell’industria agricola, dell’estrazione mineraria, dell’esaurimento genetico e dei grandi numeri, sommate all’esplosione degli ordini socioeconomici del secondo dopoguerra, che hanno preso una svolta netta negli anni Ottanta con il neoliberismo, sono apparati riproduttivi basati sulla crescita illimitata e il prodotto di questa crescita va a vantaggio di alcuni e a discapito di altr*. Parliamo di apparati di crescita, non solo di ideologie e gli esseri umani sono stati nella morsa di questi apparati esplosivi sia in termini di numeri sia rispetto ad altri aspetti: le persone sono state private delle proprie terre, dei metodi interni alle comunità per tenere sotto controllo e auto-regolare i propri numeri; le persone sono state private dell’autonomia in tantissimi modi. Gli esseri umani venuti al mondo nel secondo dopoguerra, coloro che sono “nat*” allora, sono quasi un gruppo uscito dalla fantascienza in quanto nat* in apparati basati sullo sfruttamento e la crescita intensificata.
Quindi sì, penso che dovremmo essere di meno e credo che in un centinaio di anni lo saremo. Ci sono voluti centinaia di anni per arrivare qui e riusciremo a diminuire grazie alla giustizia riproduttiva multispecie, che include anche gli esseri umani: giustizia e cura riproduttiva devono essere anche mezzi e non solo fini e ciò significa prendersi cura della dimensione abitativa, della salute, dei diritti sessuali, della autodeterminazione riproduttiva. Io voglio vivere in un mondo a favore di bambini, mentre ora vivo in un mondo a favore della natalità e non a favore dei bambini, perciò voglio che le persone, me compresa, generino parentele in modo che i neonati siano sempre meno e preziosi. Gli indici di natalità sono crollati in tutto il mondo e stanno crollando ovunque tranne nelle aree più sfruttate, dove la sofferenza riproduttiva delle donne è ancora intensa. “Fare parentele, non popolazioni!” è uno slogan più corretto ma suona peggio, mentre “fare parentele, non bambini” è un grande slogan ma può essere facilmente strumentalizzato dagli apparati razzisti e classisti che promuovono il controllo della popolazione. D’altro canto, non parlare del fardello dei numeri umani, evitare anche solo una semplice discussione su cosa significano questi numeri non è possibile. Entro la fine del secolo, se saremo fortunati e gli indici di natalità rimarranno bassi, se e solo se queste condizioni verranno soddisfatte, i numeri si assesteranno sugli 11 miliardi. Le femministe come me fanno fatica a parlarne con le altre poiché se lo fai possono dire che sei razzista, ed è questo quello a cui mi oppongo. Dobbiamo combinare le politiche a favore della generazione di parentele con la giustizia riproduttiva come mezzo e non solo come fine.

Durastanti: Siamo un festival devoto alla fiction e all’immaginazione ed è giusto ricordare che c’è un capitolo nel libro, I bambini del compost, dove tu effettivamente immagini una parentela con le farfalle monarca per rallentare la crescita della popolazione umana della terra. A volte le storie funzionano meglio degli slogan.

Haraway: Bisogna ricordare che in quelle storie di Camille, ogni creatura ha almeno tre genitori umani a testa. La socialità di Camille in un legame simbionte con le farfalle monarca implicava la solidarietà di alcune popolazioni native, ad esempio delle donne contemporanee zapatiste che lottano per proteggere le risorse idriche in Michoacán e in Messico. La solidarietà in quelle storie multispecie si basa su una parentela che va al di là dell’eccezionalismo umano, ma non al di là dell’umano.


[1] Traduzione fedele all’originale inglese “of color”. Come Balzano, Ferrante e Timeto scrivono nella postfazione all’edizione italiana di Makin Kin: “ci teniamo a specificare che sappiamo che questo termine è rifiutato da molte persone nere italofone che vedono nell’utilizzo di questa espressione un modo per neutralizzare il peso della razza e rendere trasparente il suprematismo bianco; tuttavia ci sembra più appropriato tenere questa traduzione come calco di quello che abbiamo trovato in inglese e segnalare al contempo l’insufficienza della traduzione” (Makin kin. Fare parentele, non popolazioni, DeriveApprodi, 2022, 188).

Redazione

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