La selezione biopolitica nella ricerca italiana

di Ilaria Agostini e Roberto Ciccarelli

Quando la ricerca la fanno gli uomini e non le donne in età fertile. Su 59.914 ricercatori precari, le donne sono 31.286. Non hanno tutele per la maternità e al loro lavoro non verranno riconosciuti i diritti previdenziali. E’ lo stesso destino riservato alle professioniste autonome, a partita Iva, alle contrattiste precarie.

All’università di Firenze le donne che lavorano con un assegno di ricerca cofinanziato, e desiderano avere un figlio, dovranno aspettare che il loro «tutor» – di solito maschio e professore ordinario – si impegni a reperire i fondi per l’integrazione dell’indennità corrisposta dall’Inps. Altrimenti l’assegno di ricerca non può partire e le ricercatrici non riceveranno 22.816,91 euro lordi (soglia minima annuale) né 25.177 euro (soglia massima fissata arbitrariamente dall’ateneo, assente invece nella legge Gelmini).

Medioevo italiano
La legge Gelmini, per la prima volta da quando sono stati istituiti gli assegni di ricerca 14 anni fa, ha riconosciuto il diritto alla continuità di reddito durante la maternità. Ma, in fase di attuazione della legge, a Firenze questo diritto è stato stravolto in base alla discrezionalità che la stessa Gelmini ha attribuito agli atenei. Se, da un lato, questo paradosso minaccia la neutralizzazione di una delle poche innovazioni prodotte dalla riforma, dall’altro lato rispecchia la sistematica discriminazione di genere che vige nell’università e, più in generale, nella società della conoscenza in Italia. Le ricercatrici precarie condividono il destino riservato alle professioniste autonome, a partita Iva, alle contrattiste precarie. In tutti questi casi i congedi parentali sono stati introdotti dalla legge, ma non sono ancora applicati. Per le lavoratrici «indipendenti» gli importi sono largamente inferiori rispetto alle dipendenti: tre mesi nel primo anno di vita del bambino, contro i 6 mesi entro il terzo anno di vita del bambino previsto per le dipendenti. In quesi casi, la discriminazione è doppia perché viene effettuata all’interno dello stesso genere, cioè tra le dipendenti e le precarie, i cui congedi parentali sono legati a redditi molti bassi e discontinui.

Selezione biopolitica
Una rapida incursione sul sito del Miur è sufficiente per confermare l’entità di questa doppia discriminazione di genere e infra-genere. Nel 2010, su un totale di 59.914 ricercatori precari, le donne erano 31.286, e hanno i contratti meno tutelati che di solito vengono offerti ai neo-laureati. Raggiungono il 61,5% tra i contrattisti specializzandi in medicina e ricevono il 56% delle oltre 6 mila borse di studio che non hanno nemmeno la copertura previdenziale. La «gavetta» è di solito molto lunga e verrà certamente allungata dai tagli alla ricerca imposti a tutto il settore. In queste condizioni il ricercatore-uomo ha sicuramente maggiori possibilità di avanzamento (e quindi di arruolamento) della sua «antagonista» donna. Lo confermano i dati sui «ricercatori a tempo determinato», l’unica figura rappresentata negli organi accademici, con diritto alle ferie e al sussidio di disoccupazione. Sulle 792 unità esistenti in Italia, solo il 39,5% è donna. Anche tra i 32.341 docenti a contratto, figura controversa, spesso malpagata e che spesso lavora gratis in cambio del titolo di professore, gli uomini sono il 61,6%. La doppia discriminazione diventa esclusione biopolitica tra i docenti di ruolo under 40 anni dove le donne sono il 42,7%. Invece tra gli ordinari della stessa età la percentuale crolla al 23,3%. In Italia possono fare ricerca gli uomini e non le donne in età fertile. Altro che merito, quello che conta nell’università è la biologia.

(Il Manifesto 27 novembre 2011)

Redazione

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