Letture femministe su economia ed ecologia

Letture femministe su economia ed ecologia

Federica Giardini, Sara Pierallini, Federica Tomasello (a cura di) La natura dell’economia. Femminismo, economia politica, ecologia Deriveapprodi, Roma, 2020, 198 pagine

Silvia Federici, Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx, Deriveapprodi, Roma, 2020, 102 pagine

Recensione  di Elvira Federici per Leggendaria. Libri Letture Linguaggi n.143/settembre 2020

L’economia è sempre più convocata nel femminismo, da cui non è mai stata assente, benché all’interno dei femminismi si siano articolate visioni ora più legate alla dimensione simbolica e linguistica – con un lessico marxista si direbbe sovrastrutturale – ora più attente alla struttura dei rapporti di produzione. La polarizzazione struttura/sovrastruttura non è che l’ennesima delle dicotomie su cui si è edificato il pensiero occidentale e della modernità.

L’amministrazione, la gestione (-nomia) della casa, (oikos-) non è stata  cosa per donne, specialmente da quando la parola economia ha assunto il significato di ottimizzazione degli utili. L’eco-logia invece come studio, discorso, ragionamento sull’oikos in quanto luogo della complessità delle interrelazioni e delle interdipendenze molteplici, ha convocato il pensiero e le pratiche delle donne da sempre,  specialmente ora, in concomitanza  con le crisi di ordine geopolitico, economico, sociale e le accelerazioni esponenziali dei problemi legati alle devastazioni ambientali e alla crisi climatica, dovuti al capitalismo finanziario del terzo millennio.

Economia ed ecologia tornano ad incontrarsi nella critica femminista dell’economia politica, che ne  rende esplicite le intersezioni. Il processo di riappropriazione e apertura di prospettive di mobilitazione è il  fil rouge che lega le esperienze politiche e di pensiero a partire  dalle lotte degli anni Settanta per il salario al lavoro domestico a quelle delle native sudamericane, alle esperienze dei commoning, che ridisegnano la mappa delle città. Nei femminismi del XXI secolo si riconnettono  la lotta al patriarcato e al capitalismo,  le condizioni materiali di produzione e di sfruttamento al simbolico. Il passaggio necessario è ancora nello smascheramento dell’inganno, della trappola epistemologica del dualismo produzione/riproduzione,  paradigma della divisione binaria  del mondo.

I due volumi, usciti entrambi quest’anno per DeriveApprodi, aprono la strada l’uno all’interrogazione di quale sia la natura dell’economia e quanto questa abbia a che fare non tanto con l’oikos  che  abitiamo quanto con l’oikos che siamo – ricucendo i margini tra economia politica ed ecologia; l’altro alla riformulazione del suo ambito a partire da una critica femminista al pensiero marxista che  riprende le basi materialistiche dell’economia.

Entrambi, non è un caso,  non sono  solo  il prodotto della riflessione e della ricerca in ambito accademico ma rappresentano il precipitato di lotte, mobilitazioni, esperienze politiche fino alle più recenti riflessioni sul Salario di cura.

La natura dell’economia, articolato in tre parti e arricchito di una  bibliografia ragionata, si compone dei contributi di diciassette autrici. Il libro infatti è l’esito, ci ricorda Federica Giardini nell’introduzione,  di un’invenzione pratica e simbolica: trasformare  un master – che nasce da un’idea privatistica del sapere, presente ormai anche dentro le istituzioni pubbliche  come strumento di specializzazione professionalizzante, mezzo di “adattamento” al mondo del  lavoro –  in un laboratorio epistemologico e politico, in cui salta la separazione tra la ricerca accademica e le domande “a partire da sé collettivo” e si mobilitano i saperi che nascono in altri luoghi, a partire da domande legate alla vita e alla relazione politica.

Le autrici, studiose, ricercatrici in ambito economico sono anche  attiviste formatesi nelle pratiche  sperimentate in Italia come in Spagna, America Latina, Rojava ecc. Esse non si sono poste sopra ma al centro e dentro  le domande sull’economia, segnalando anche così lo scarto epistemologico e simbolico dagli approcci tradizionali dello studio accademico. Nell’esperienza a partire da sé di un’economia che affetta della precarietà le vite stesse di chi si dedica alla ricerca, confrontata con  le teorie,  c’è l’interrogazione su quale ne sia la natura e in quale direzione si possa portare  la riflessione e la mobilitazione che ne disfi la misura « separata, tecnicistica, proprietaria». E di questa ricchezza di pratiche, sperimentazioni e immaginario e approcci disciplinari, danno conto i saggi che lo compongono mettendo un’ipoteca sui modelli dominanti.

Ripercorrendo i rapporti del femminismo con l’economia politica, Giardini ci ricorda il rifiuto del lavoro come tale in Rivolta Femminista, in cui «è il patriarcato, più che il capitalismo, ad essere preso di mira», mentre – riferimento su tutte il lavoro di Silvia Federici Calibano e la strega [1]  – la critica femminista dell’economia politica evidenzia come l’economia capitalistica prosperi sulla messa a profitto non solo del lavoro ma della vita stessa, delle relazioni, dei criteri morali, delle gerarchie simboliche e di sapere, mostrando «come essa sia arrivata a utilizzare le differenze per produrre profitto e insieme per governare nuove divisioni del lavoro, produttivo e riproduttivo che si articolano lungo gli assi di genere razza, classe» (p.8).

Sara Pierallini ripercorre, dentro la linea del pensiero dell’esperienza l’approccio femminista all’economia a partire dalla critica a Marx, e alla sua teoria del valore-lavoro, che espunge il lavoro di riproduzione sociale; ricorda le lotte femministe fino alla proposta di NUDM del reddito di autodeterminazione, incondizionato e universale ma, soprattutto,  si sofferma sul cambio radicale dovuto all’economia post-fordista, in cui «la riproduzione sociale e la riproduzione biologica entrano nel mercato del lavoro» (p. 14).

Paradossalmente, è il nuovo capitalismo stesso a fare giustizia della separazione produzione/riproduzione , inaugurando una fase in cui ogni differenza del vivente, umano e non,  è soggetta all’estrazione di valore e allo sfruttamento. L’ecofemminismo di questo millennio prende in carico insieme alla cura delle risorse naturali le pratiche politiche e di relazione «che le rendono risorse comuni, commoning».

Le soggettività in relazione che scartano  dalla norma dell’homo oeconomicus – paradigma della rivoluzione economica borghese, bianca, occidentale – prospettano nuove interconnessioni, tra umano e non umano, tra umano e macchina; scardinano l’idea di individuo situandosi come                      « soggetti incarnati, differentemente posizionati in reti di interdipendenza, che partono dal piano materiale» (p. 17), ciò che propriamente rifonda non solo  l’economia politica oltre  il paradigma dominante  ma prospetta un’epistemologia differente, che mette in questione i dualismi, l’eteronormatività, la sottomissione della vita al profitto, l’idea individualistica del soggetto, accogliendo invece come costitutiva l’idea  dell’interconnessione di tutto il vivente, umano e non umano.

Federica Tomasello, parlando dell’economia dell’invisibile,  riprende il paradigma ecologico considerandone l’incompatibilità con quello economico della crescita lineare all’infinito, mettendo al centro  la finitezza del pianeta e delle sue risorse e la vulnerabilità dei corpi. Il drenaggio delle risorse  non si limita alla natura ma affetta le vite stesse dei soggetti espropriati, cui è fatto carico il lavoro di cura. Il gesto ecofemminista è dunque fortemente politico quando smaschera l’invisibilità dell’immenso lavoro necessario «allo svolgimento di una vita umana degna», rimettendo al centro la condizione di interdipendenza tra umani e  tutte le  specie viventi, animali e vegetali e il non  vivente;  ripensando radicalmente il metabolismo sociale della biosfera, che  attualmente  distrugge e drena risorse per produrre rifiuti e inquinamento, con un’idea di crescita che comporta in realtà la dissipazione di ogni ricchezza ( natura, sapere, relazioni)  umana, non umana, non animata.

Nei capitoli Il taglio Femminista, Epistemologie, Nuovi mondi, si avvicendano undici saggi con focus  teorici e di ricognizione valorizzazione di esperienze politiche e simboliche che restituiscono il senso della visione, riarticolando lo spazio incarnato nel posizionamento dei corpi – l’attraversamento dello spazio pubblico di esseri marginali, la rottura del confine pubblico/privato – e riportando l’ecologica, spesso tema meramente culturale, alla radice politica del rapporto dominio/sfruttamento. Solo per brevità citiamo:

-l’economista femminista Antonella Picchio con una riflessione che  sovverte le categorie teoriche tradizionali; non microeconomia, piuttosto l’economia come  esperienza,   a partire dal lavoro non pagato – ciò che propriamente è espunto dall’economia- e dal valore del lavoro domestico, del lavoro rispetto alla vulnerabilità e ai bisogni di cura;

– la riflessione di Luci Cavallero e Veronica Gago, sull’esperienza dell’organizzazione dello sciopero femminista del 2016, che ha comportato, a partire dalla mobilitazione delle donne argentine, la politicizzazione degli spazi della riproduzione oltre quello domestico;

-la lettura critica  femminista di Stefania Barca, Catia Gregoratti, Rya Raphael, dell’idea di decrescita  basata su un approccio neutro dei loro teorici di riferimento ( Latouche e ) che non considerano nella loro visione economica,  forme di oppressione come classe, genere, razza;

– le esperienze di economia comunale (commons), in cui la condivisione della ricchezza è strettamente connessa ai processi decisionali collettivi ma anche ad una rivoluzione delle relazioni tra i soggetti dei processi stessi;  come nei contesti strappati alla guerra della Rojava, attraverso l’intervista  che Gea Piccardi a rivolto ad Azize Aslan, partecipe del processo di costruzione del federalismo democratico del  Kurdistan.

La scommessa presente in questo lavoro è quella di un pensiero politico dell’economia che ne faccia emergere una genealogia femminista; non si articoli solo sul piano dell’antagonismo ma sulle prospettive di sperimentazione, di creazione di immaginario e di simbolico dei  femminismi, che sgretolando le gerarchie dicotomiche del pensiero antropocentrico occidentale, riconnettono economia, ecologia e  politica con i corpi e il vivente, in una diversa trama di parentele e metabolismi, come Haraway[2] non cessa di suggerirci.

Silvia Federici, in sintonia con il libro precedente interviene proprio sulla ricostruzione di una genealogia dell’economia politica femminista con Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx, in cui dà ragione del dissidio tra marxismo e parte del femminismo, riarticolando  l’idea di un materialismo femminista che pone a tema le condizioni materiali, da cui scaturiscono la  discriminazione sessuale e razziale  «elementi strutturali, dell’organizzazione del lavoro e della produzione nella società del capitale», peraltro non presi in considerazione da Marx, il quale ha fiducia in una crescita indefinita, che porterà il capitalismo stesso a collassare, dopo che l’enorme accelerazione determinata dai modi di produzione capitalistici avrà consentito alla tecnica di liberare l’umanità dal lavoro. Per Marx il capitalismo sembra il male necessario che, nello schema hegeliano della contraddizione, ne produrrà il suo superamento.  

Rileggere Marx da femministe significa, sì,  prestare attenzione alle materiali condizioni di sfruttamento e discriminazione che si articolano nel simbolico patriarcale ma significa anche toccare nodi irrisolti di un pensiero sistematico, omniesplicativo, di stampo radicalmente idealistico. Ciò che Federici fa da studiosa e attivista attraverso  la rilettura del corpus teorico, a partire dai saggi sul  Salario al lavoro domestico, fino ai più recenti, in cui le categorie marxiane vengono vagliate alla luce di una ridefinizione della riproduzione e della divisione sociale del lavoro nell’economia neoliberale.

La mancata comprensione da parte di  Marx del potenziale distruttivo ed altamente entropico del capitalismo, la sua sopravvalutazione della razionalità delle forme industriali di produzione, da cui deriva l’espunzione del lavoro riproduttivo nella dimensione naturale, senza storia né valore;  l’elezione della fabbrica come “luogo decisivo” della lotta di classe dipende da un pensiero pienamente  inscritto  nel paradigma occidentale che andiamo criticando.

Marx, che misura il valore dell’ “uomo” nella «capacità di dominare la natura e adattarla ai bisogni umani», coglie un potenziale liberatorio nell’industrializzazione, considera progressivo il capitalismo, non  si rammarica per l’enorme bagaglio di conoscenze preindustriali, espropriate o cancellate dall’organizzazione capitalistica e da un’idea di scienza e conoscenza basata sulla quantità, sulla logica lineare, sull’astrattezza. Di qui il fatto che nelle sue teorie non trovino spazio, nella definizione dello sfruttamento, né il genere né la razza.

Perché  dunque riprendere Marx considerati questi  limiti così radicali e apparentemente inemendabili?

Perché  le lotte e i  movimenti anticapitalistici, incarnati dalle donne  in questi anni, le battaglie decoloniali, le correnti del femminismo popolare  ci ricordano come la riproduzione incorpori il lavoro di cura e tutte le forme di produzione  non pensate per il mercato. Perché, nonostante  il patriarcato non sia coincidente con il capitalismo è proprio con quest’ultimo che nasce il modello della famiglia borghese e si radicalizza la divisione tra lavoro produttivo pagato e il lavoro  di cura e sessuale non pagato né riconosciuto, grazie all’istituto del matrimonio (Origini e sviluppo del lavoro sessuale negli Stati Uniti e in Gran Bretagna,1975).

Perché lo schema produzione/riproduzione è stato ampiamente modificato da un neocapitalismo che estrae valore e commercializza a fini di profitto tutto il lavoro di riproduzione, ogni lavoro di cura e di relazione. In questo senso a partire dal terzo millennio ha ripreso vigore, nelle lotte delle native, nelle battaglie per i commons,  un femminismo anticapitalista che sembrava sopito dalla fine degli anni Ottanta ( Dal comunismo ai commons: una prospettiva femminista, 2018). Già allora tuttavia la lotta per il salario al lavoro domestico si poneva non come rivendicazione ma prospettiva politica che rifiutava di incasellare nelle sacche di arretratezza il lavoro di cura e il suo disvalore rispetto al lavoro in fabbrica.

Nella critica di Federici alle teorie marxiane è fondamentale – per le teorie, le mobilitazioni, le lotte, le visioni e le pratiche femministe del presente – la rilevazione  che  «contrariamente all’assunto di Marx, l’accumulazione originaria non è un evento confinato agli albori del capitalismo ma è un processo permanente» (Note su genere e razza nell’opera di Marx, 2018).


[1] Vedi Leggendaria 119/2016

[2] Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Roma, NERO, 2019

Redazione

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