Melania Baroncini – Le donne e la filosofia: la prospettiva del femminismo nelle teorie filosofiche

Melania Baroncini – Le donne e la filosofia: la prospettiva del femminismo nelle teorie filosofiche

Il femminismo è uno dei movimenti più eterogenei e di più vasta influenza del Novecento che si è sviluppato con caratteristiche peculiari in ogni paese ed epoca. Si può dire che al centro del femminismo ci sia l’idea che le donne siano trattate in modo ingiusto nella società, organizzata su una bipartizione di generi che avvantaggia gli uomini e che pone le donne in una condizione di subordinazione ad essi. L’accesso delle donne all’uguaglianza in una cultura a dominanza maschile non è comunque mai stato un obiettivo universale del femminismo, anche perché è controverso cosa significhi l’uguaglianza per le donne, come e riguardo a cosa essa vada acquisita, e quali siano gli effettivi ostacoli da superare. Si è periodicizzato il movimento femminista grosso modo in due ondate: la prima, a partire dal XIX secolo fino al 1920 (dopo la Prima Guerra Mondiale) incentrata sulla lotta per l’uguaglianza tra uomo e donna, e la seconda nel XX secolo (dagli anni ’60 in poi) incentrata sulla liberazione sessuale, fino ad arrivare al post femminismo che va oltre la dualità maschio/femmina e mette in discussione il concetto stesso di genere, qui utilizzato per indicare le modalità culturali, sociali, simboliche attraverso cui è stata costruita l’identità.

Nel XIX secolo, quindi ci riferiamo alla prima ondata del femminismo, le maggiori pensatrici si dedicano tutte al raggiungimento dell’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna, diritti non solo politici ma anche economici. Ad esempio, il voto fino al XIX secolo era considerato a suffragio universale quando tutti i maschi ne avevano diritto. A tal proposito, nel 1800, nasce un importante movimento quello delle suffragette per la richiesta del voto estendibile anche alle donne. Le suffragette rappresentarono una figura fondante il femminismo dei primi anni in quanto ricordarono al mondo l’esistenza della donna e dei suoi diritti sia in ambito politico e sociale ma anche in ambito economico.

Come già accennato prima, le donne si trovano in questa epoca in una situazione di inferiorità e subordinazione agli uomini, prima ai padri e poi ai mariti. La stessa maternità confina le donne alla sola sfera domestica e sviluppando un sapere privato, dell’oikos, non hanno la disponibilità di tempi e spazi sufficienti per dedicarsi alla sfera pubblica. Infine, alle donne non è necessaria una grande educazione, se non quella per l’accudimento e cura dei figli.

Per filosofie del femminismo si intende, invece, la pluralità di teorizzazioni e pratiche che vanno dalle prime formulazioni del prefemminismo, agli studi sulla costruzione del genere, al pensiero della differenza sessuale, sino alle elaborazioni più recenti, quali l’Anglo-American Feminist criticism, le teorie femministe francese e italiana, e da ultimo la Feminist Film Theory.

In particolare, mi soffermerò sulla trattazione e il pensiero di importanti figure fondanti il femminismo filosofico fino ad arrivare alla posizione di tre autori uomini, portatori dei valori della società patriarcale occidentale.

 

  1. Il femminismo progressista: Mary Astell.

Mary Astell è una figura peculiare nella filosofia soprattutto per il periodo storico da lei vissuto, il Seicento, in quella fase di transizione che dalle guerre civili ha portato a delineare lo “Stato di diritto”. Si impegnò in vari dibattiti filosofici e politici, non solo su questioni femminili ma, partendo dalla sua posizione e dal rispetto per il proprio sesso, dispiega un’analisi completa sull’ordine della convivenza.

Ed è proprio partendo dal concetto di convivenza che Astell diverrà la prima commentatrice di Locke: secondo il filosofo, l’ordine della convivenza stabilisce una continuità tra il modo in cui gli esseri umani vivono e la forma politica che accettano tramite la stipula di un patto. Ci troviamo di fronte alla questione del contratto sociale.

Ora in breve, possiamo definire il contratto sociale come quel passaggio fondamentale per la nascita di uno stato sociale e politico, in cui si passa dallo stato di natura, in cui tutti gli uomini, donne comprese, sono liberi, ma vivono nell’insicurezza e instabilità, alla formazione di uno stato giusto basato su un impegno reciproco, che riguarda allo stesso modo governati e governanti, e su delle regole precise.

Secondo Locke, il Contratto che lega gli esseri umani sarebbe dunque legittimato dal fatto stesso di essere umani, non più dal ricorso a Dio. L’essere umano di Locke è fondato sulla ragionevolezza, che qui diventa un’attività che genera un equilibrio momentaneo. È un essere umano pensato secondo moderazione e una temperanza umana che contrariamente all’uomo di Hobbes, caratterizzato invece dalla ragionevolezza come calcolo di costi-benefici, evita di pestare i piedi agli altri.

L’uomo di Locke è libero, sicuro e una peculiarità qui fondamentale è la proprietà; infatti, secondo il liberalismo lockaniano la relazione di proprietà esclusiva appartiene all’essere umano in quanto tale: essere ragionevole, proprietario e libero in maniera innata. Gli esseri umani vengono dunque definiti come “individui proprietari” industriosi che, proprio perché ragionevoli, non possono che affidarsi alla cooperazione e quindi al contratto sociale. Ma è vero che la donna non rientra nel profilo dell’individuo proprietario. La domanda di Astell però non è mirata a sollecitare un’inclusione della donna nell’ordine liberale nascente.

A questo proposito, tanto l’individualismo tanto la famiglia risultano importanti nelle riflessioni di Astell: la famiglia è, da una parte, necessaria a creare un primo ambito associativo senza il quale si possa passare dallo stato individuale a uno stato sociale e associato, dall’altra è la sfera in cui la vita del singolo può riprodursi e adempiere alle attività produttive. È qui che le riflessioni di Astell arrivano a toccare i suoi punti più alti connettendo le due tesi di Locke: il fatto che gli uomini siano liberi e che le leggi positive sono una persecuzione delle leggi e dei diritti naturali, secondo Astell: nella famiglia, se il potere costituito è legittimato dal consenso dei contraenti e se tutti gli esseri umani sono dotati di diritti naturali, allora anche le donne dovrebbero essere libere contraenti nei confronti del marito.

Mary Astell contesterà proprio a Locke la contraddizione insita nella mancata partecipazione della donna alla vita associata: “se tutti gli uomini nascono liberi, come accade che le donne nascano schiave?”. Ma la scrittrice inglese non si rivolge agli uomini, piuttosto alle donne e chiede loro di togliersi dalle circostanze che costituiscono appigli per i falsi ragionamenti dei costituenti. In questo caso Astell si riferisce alla Dichiarazione dei diritti che, approvata nel Settecento, aveva escluso sia donne che schiavi; la donna viene riconosciuta come un essere non totalmente umano, così come la teorizzava Aristotele perché dotata solo parzialmente del logos quanto capacità deliberativa. La donna dunque non aveva né voce né diritti in quella società e per questo che Astell riconosce nell’educazione il mezzo per eccellenza da usare per superare tali ostacoli e tale esclusione.

“Il grande scopo di questa istruzione sarà perciò di disperdere la nube d’ignoranza che ci avvolge a causa dei costumi, di rifornire le nostre menti di una scorta di conoscenze utili e solide in modo che l’anima delle donne non sia più la sola cosa disadorna e trascurata.”

La Astell è una delle prime donne che inaugura l’idea che per una donna possano esserci promesse maggiori al di fuori del matrimonio. Le figure qui riprese dalla pensatrice sono le orfane e soprattutto le vedove: si potenzia la figura della “vedova allegra” , donna indipendente da legami coniugali creando uno spazio del tutto nuovo per la donna composto da vuoti legislativi anziché di nuove leggi.

 

 

  1. Il femminismo francese: l’uguaglianza o la differenza? Simone de Beauvoir.

Il movimento delle donne della prima ondata del XIX secolo otterrà il massimo delle sue conquiste dopo la fine della Grande Guerra. Ma il movimento stesso entrerà in crisi e le pensatrici della seconda ondata, come Virginia Woolf e Simone de Beauvoir, ripenseranno l’intera ideologia femminista basata non più sull’uguaglianza ma sulla differenza tra uomo e donna all’interno di una società che comunque garantisca l’uguaglianza di diritti e di condizioni materiali per tutti nonostante il proprio sesso. Sia V. Woolf che S. de Beauvoir hanno aperto la strada per una “rifondazione teorica” del femminismo stesso.

Una delle maggiori pensatrici del femminismo francese che ha posto le basi per il pensiero femminista moderno è stata Simone de Beauvoir. Nel 1949 è pubblicato Il secondo sesso, un’opera fondamentale per la storia del pensiero sulle donne e che rappresenta la prima opera che cerca di analizzare e di narrare il femminile da tutti i punti di vista, in cui S. de Beauvoir utilizza il linguaggio della vita intima per narrare la donna.

È da sottolineare il fatto che S. de Beauvoir vive in una situazione “privilegiata” in quanto indipendente sia sul piano economico sia sul piano dei riconoscimenti culturali al suo lavoro di scrittrice. Anche il paese in cui vive e scrive, la Francia dei governi del Fronte Popolare degli anni Trenta, ha cambiato la condizione materiale delle donne soprattutto lavoratrici, con importanti conquiste relative alle ferie pagate o all’aiuto in maternità.

Il Secondo sesso parla della problematica della donna, che vive in una condizione di subordinazione e di oppressione, in una prospettiva esistenzialistica: S. de Beauvoir crede che ogni essere umano è essenzialmente libero, “costretto” a essere libero, e la sua vita è nelle sue mani; ogni essere umano può scegliere la via della “trascendenza” ossia della progettualità e trasformazione del mondo che lo circonda e dunque del vivere nel “per sé”, o la via della “immanenza” ossia dell’accettazione delle cose e del mondo così come sono e del vivere nell’”in sé”.

L’opera è suddivisa in due grandi parti: la prima parte che riguarda i fatti e i miti cerca di dare una risposta al problema delle cause della subordinazione della donna, studiandone il destino, la storia e i miti; la seconda parte invece analizza l’esperienza vissuta attraverso le fasi e i momenti che ciascuna donna attraversa o può attraversare nella sua vita personale (infanzia, fanciullezza, iniziazione sessuale, matrimonio, maternità); indica inoltre le vie di liberazione e di affermazione facendo un sorta di autoritratto della “donna indipendente”, come fase intermedia tra subordinazione e liberazione.

Per ciò che riguarda la prima parte dell’opera, S. de Beauvoir spiegando le cause del destino della donna chiama in causa le storture: della spiegazione biologica che vedrebbe la donna in uno stato di inferiorità dovuto alla divisione dei compiti nella procreazione, da spiegare dunque non in termini di animalità ma di società umana; della spiegazione di Sigmund Freud che spiega la situazione di inferiorità della donna costruendo la teoria dell’invidia del pene e della sua mancanza come di un vuoto per essa; della spiegazione marxista che infine afferma che la condizione della donna sia comune a quella della classe sfruttata dei proletari.

Ciò rivela l’asimmetria di base tra i termini “maschile” e “femminile”.

La donna è inevitabilmente confinata in una relazione di doppio con l’uomo: lui rappresenta l’Uno e la donna è l’Altro nella totalità. Ma cosa significa per la donna esser Altro? Secondo S. de Beauvoir la donna nella storia pur essendo libera (ogni essere umano secondo la prospettiva esistenzialistica della pensatrice è libero) si è trovata in condizioni diverse rispetto a quelle dell’uomo e ha scelto di essere Altro, ossia il secondo sesso rispetto al primo rappresentato dall’uomo. L’Altro dunque rappresenterebbe l’accettazione della donna della sua condizione di inferiorità in cui l’uomo l’ha collocata.

Ovviamente si tratta di una accettazione condizionata e non costretta dalle situazioni in cui la donna si è trovata a scegliere.

Quindi concludendo, la donna ha scelto l’immanenza impostale dall’uomo mentre l’uomo ha scelto la trascendenza nei termini della prospettiva esistenzialistica.

La donna come scriveva ripetutamente S. de Beauvoir non è nata donna ma lo è diventata, e può anche cessare di esserlo. Da qui, la pensatrice si muove verso una nuova trattazione ossia: così come la donna ha scelto di essere Altro, con la lettera maiuscola e quindi un essere subordinato ad un altro di sesso maschile così può trasformarsi in altro con la lettera minuscola, ossia in un essere umano di uguale dignità e condizione rispetto all’uomo, definito anche esso come altro. Da una “differenza” conflittuale fondata sulla subordinazione, si può passare a una “differenza” basata esclusivamente su una divisione di ruoli che però riconoscono parità di diritti e dignità.

Questa trasformazione della donna in altro eliminando la conflittualità con l’uomo dovrà realizzarsi in una società senza sfruttamento, e proprio a tal proposito S. de Beauvoir riprende le tesi marxiste e soprattutto quella relativa al raggiungimento della liberazione della donna attraverso la sua indipendenza economica.

Nella storia della specie umana, diceva S. de Beauvoir, la preminenza era stata concessa non al sesso in grado di generare e concepire ma al sesso in grado di uccidere, e su tali valori si è costituita ogni civiltà e società. Di fronte a questa situazione la donna non aveva mai opposto dei suoi valori, limitandosi a modificare la propria posizione rispetto alla coppia e alla famiglia. La donna invece doveva finalmente cercare la strada per la sua libertà, spettava a lei decidere che cos’è veramente la donna.

Infine, possiamo soffermarci su due argomenti centrali le trattazioni di S. de Beauvoir ne Il Secondo sesso, che sono i miti e la sessualità.

I miti sono quindi definiti come orizzonti narrativi collettivi che individuano i soggetti e le loro caratteristiche e dunque non solo figure letterarie antiche. In questa parte dell’opera S. de Beauvoir compie un’operazione interessante riprendendo i termini e il discorso della morale esistenzialistica sul rapporto tra soggetto e alterità e applicando ad essi uno sguardo sessuato. Ogni mito implica un soggetto che proietta speranze e timori, le donne non essendosi mai poste come soggetto, non hanno creato un proprio mito: sognano attraverso i sogni degli uomini.

Per ciò che riguarda la sessualità, la premessa che S. de Beauvoir pone nell’affrontare questo questione è che la vita sessuale della donna non è un destino tracciato dalla biologia, ma dipende dall’insieme della situazione sociale ed economica in cui la donna si trova.

Ciò che de Beauvior come le altre femministe vuole raggiungere è la libertà della donna, quando una donna si libera, crea liberamente il proprio destino, in questo modo si fa simile all’uomo nel suo atteggiamento verso la libertà. Questa affermazione non va però intesa come un inclusione che omologa la donna all’uomo ma più come un preciso posizionamento filosofico esistenzialista: liberandosi, la donna diventa soggetto e si sottrae alla funzione di puro Altro. Inoltre liberandosi, la donna libera anche l’uomo dalla posizione stereotipata di lavoratore e padre di famiglia. È proprio da questa modificazione del destino maschile che ho preso spunto per la conclusione del mio lavoro, dunque cambiando prospettiva anche al genere maschile e come quest’ultimo reagisca alla sua nuova posizione.

 

  1. La prospettiva psicanalitica di Luce Irigaray.

Per Luce Irigaray, come per altre pensatrici francesi degli anni Settanta, il legame con il movimento delle donne è stato un punto di svolta nel suo percorso. Il suo pensiero infatti si è sviluppato in un rapporto di scambio con la politica delle donne, la Irigaray stessa era in contatto con Antoinette Fouque, la donna che ha guidato uno dei gruppi più importanti del movimento delle donne francesi. Il gruppo si chiamava “Politique et psychanalyse” cioè Politica e psicoanalisi. Il nome del gruppo già dice dell’intenzione di fare della psicoanalisi uno scandaglio dell’agire politico.

Inoltre Luce Irigaray mostra da sempre molto interesse per le problematiche relative al linguaggio: rivede le categorie fondamentali della psicanalisi e della filosofia a partire dai temi dell’inconscio femminile, del corpo femminile, del legame della donna con la madre; riflette sul tema della differenza, sul mistero dell’altro, sulla necessita di un pensiero femminile maturo e saggio; infine lavora sul tema della democrazia e dei diritti sessuali. Un interesse particolare è quello che la lega al pensiero di Julia Kristeva, secondo cui nel linguaggio si giochi il potere sociale, il piacere, la sofferenza, il desiderio, la materialità degli affetti, il primo legame affettivo con la madre, da cui deriva la differenza tra i sessi a seconda di come viene vissuto.

La prima opera di riferimento per ciò che riguarda il pensiero della Irigaray è Speculum. L’altra donna del 1974. Il testo, che era la tesi di dottorato dell’autrice, segna la rottura con Jacques Lacan e le costa anche l’espulsione dall’Università di Vincennes.

Con Speculum dunque si matura la rottura tra Irigaray e Lacan riguardo alla loro collaborazione all’interno della scuola ma comporta anche una differenziazione sul piano del pensiero.

Facendo un passo indietro, sarebbe giusto soffermarci sul pensiero della Irigaray quando era ancora all’interno della scuola lacaniana; le sue riflessioni del momento segnalano il suo avvicinamento ad un pensiero sessuato della psicanalisi. Ma cosa vuol dire pensiero sessuato? Si intende come pensiero sessuato il fatto che l’essere donna non è indifferente a quello che sta dicendo sulla donna e sull’uomo, sul linguaggio, sul corpo. In realtà però Irigaray stessa afferma in un suo testo Comunicazione linguistica e speculare come il suo non sia ancora un pensiero sessuato. Si tratta però già di un pensiero che si differenzia da quello di Lacan, in un momento in cui lavorava ancora in collaborazione con lo psicanalista.

Lacan infatti sosteneva che una bambina o un bambino  divengono dei soggetti veri e propri quando entrano nel circuito di una rete di significati sociali e che danno loro una posizione precisa in rapporto ad essi. Questa posizione, secondo Lacan, è garantita dalla figura paterna. È dunque la figura paterna che simbolicamente fa sì che si sciolga quel rapporto di fusione amorosa con la madre, che altrimenti i bambini manterrebbero, rimanendo al di là delle regole sociali. È solo attraverso questo passaggio e grazie alla figura paterna che le bambine e i bambini posso uscire dallo stato di infanzia.

Uscire dallo stato di infanzia quindi significa avere la capacità di reggere la mancanza di qualcosa che amorosamente prima ci completava, ma che ora non è più a nostra disposizione. Lacan, seguendo Freud, aveva dato il nome di “superamento del complesso di Edipo” (si tratta di un atteggiamento ambivalente di desiderio e di sostituzione nei confronti del genitore dello stesso sesso e di desiderio di possesso esclusivo nei confronti del genitore di sesso opposto) al diventare individui andando oltre il legame amoroso con la madre; e aveva dato il nome di “legge di castrazione” all’accettazione della mancanza di qualcosa.

In Comunicazione linguistica e speculare Irigaray non critica direttamente le idee di Lacan e Freud ma pensa che ci sia un’altra spiegazione per diventare un individuo sociale mettendo da parte la figura del padre; pensa dunque alla comunicazione nel linguaggio: ad esempio quando i nostri genitori parlano, il nostro sentirci al centro del mondo viene posto in una posizione secondaria, siamo come niente perché essi parlano tra di loro. Inoltre quando una bambina o un bambino viene indicato come “ella” o “egli”, diventa una singolarità accanto ad altre singolarità: diventa dunque una e uno tra i tanti.

È dunque in questo modo, attraverso il linguaggio e il discorso e non dalla figura paterna, che si diventa individui sociali, nel momento in cui si smette di essere al centro dell’universo e nel momento in cui si viene indicati e ci si identifica nella figura dei genitori. Quando si capisce di non essere più al centro del mondo che la bambina e il bambini cercano la socialità con gli altri. La comunicazione linguistica, già da come si evince da questo primo testo, resterà a lungo parte del pensiero di Luce Irigaray. Ma si intende il linguaggio non come il contenuto di quello che diciamo ma linguaggio come modo di porsi, di rapportarsi a se stessi e agli altri legandosi anche al proprio corpo. Ad esempio, la bambina dopo esser stata nominata come “ella” nel linguaggio, passa alla possibilità di dire “io” quando si identifica con la madre; e lo stesso il bambino, quando si identifica con il padre, dice “io”. Irigaray sostiene quindi che quando uno parla e dice “io” in realtà si riferisce sempre ad un “tu”, parlando dunque riferendosi a una terza cosa o persona esterna alla relazione.

Nei testi successivi Irigaray affermerà che la prima posizione ossia quella concentrata sul “tu” è rappresentata dalla posizione isterica prevalente nelle donne. La seconda posizione, quella concentrata sull’”io”, è invece la posizione ossessiva, prevalente negli uomini.

Soffermandoci sulla donna e sulla sua posizione isterica, questa ha il significato di pensare quel legame dimenticato nella cultura patriarcale tra la figlia e la madre. La posizione isterica femminile è quella che si appoggia, parlando, sul “tu” e non sull’”io”.

È la posizione che valorizza sempre i discorsi, che però sente dire ad altri annullando i propri. In questo modo viene spostato continuamente il legame dimenticato con la madre perché è ciò che ci porta a dare valore al “tu”, al discorso dell’altro; la posizione isterica femminile quindi non rinuncia mai a un legame affettivo con tutto ciò che è altro da sé.

Speculum. L’altra donna, a questo punto diventa il testo nel quale Irigaray critica le teorie di Lacan e Freud in maniera dura e ironica. Il saggio è diviso in due parti: la prima è dedicata alla psicoanalisi, la seconda alla filosofia. Entrambe convergono nella tesi dell’essenzialità della differenza sessuale, spiegata però come esaltazione della sessualità femminile. Secondo l’autrice, la psicoanalisi e la filosofia antica hanno prodotto una cultura apparentemente valida per tutti ma che in realtà è portatrice di soli valori maschilisti.

Il riferimento allo “speculum” (contrapposto allo specchio) è un attacco indiretto a Lacan, che nel suo Stadio dello specchio indicava come centrale e decisiva nell’infanzia l’esperienza dello specchio, appunto. In questa fase, il bambino e la bambina si vedono riflessi allo specchio per la prima volta e per la prima volta cominciano a costruire la loro identità come individui separati dalla madre e dagli altri. Attraverso questa teoria, Lacan spiega come la donna funzioni come lo specchio dell’uomo che, guardando la donna nella sua condizione di inferiorità, vede se stesso nella sua condizione di superiorità. L’uomo vede in conclusione la donna come un buco, una mancanza, un’assenza e tutto è riconducibile all’organo genitale maschile che invece rappresenterebbe il pieno, l’attività, il tutto; l’organo genitale femminile è il vuoto, la passività, il niente.

Il discorso intorno all’uomo è un discorso fallocentrico in cui l’uomo pone al centro di se stesso il proprio fallo, il proprio discorso che dunque lo induce a pensarsi superiore rispetto alla donna.

La donna quindi è una sorta di figura simbolica che gli uomini stessi hanno formulato facendo sì che la proprio cultura diventasse quella dominante ma, al tempo stesso una donna si sente sempre fuori posto rispetto a queste figure, c’è comunque qualcosa che va oltre. Ma secondo Irigaray sarebbe meglio non prendere troppo sul serio questo essere oltre che produrrebbe una nuova autorappresentazione della donna, un nuovo discorso attorno ad essa.

Riprendendo la figura dell’isterica, Irigaray adesso la identifica oltre lo specchio del pensiero maschile. La donna isterica ripete ciò che gli altri le attribuiscono, solo il suo legame con la madre rimane reale, si tratta però di un legame senza immagini.

Irigaray ribadisce continuamente che la donna ha per destino il mutismo, non può produrre un pensiero che sia suo, che faccia riferimento a un proprio ordine, eppure, lei stessa denuncia questo mutismo.

Secondo Irigaray, se invece di usare lo specchio si usasse lo speculum, si vedrà che quello che per l’uomo era il vuoto, il nulla, è invece un luogo con una sua realtà e sessualità ricca che da parte sua fa apparire modesta quella dell’uomo.

Un’ulteriore figura che Irigaray descrive nel testo è quella del godimento femminile: descrizione che parte da una negazione delle teorie di Lacan; la filosofa parte dal pensiero lacaniano del godimento femminile per poi passare al di là dello specchio dello sguardo maschile sulle donne.

Il godimento maschile si rifà solo ad una parte dell’altro, ad un dettaglio, è impossibilitato a godere di un corpo nella sua interezza e di recente a questa impossibilità si è posto rimedio parlando d’amore.

Il godimento femminile, sempre secondo Lacan, non riesce a godere dell’altro come l’uomo, non riesce a concentrarsi su di un particolare, né di parlare del godimento stesso questo perché a lei il legame con l‘essere riesce.

Il godimento femminile invece oltre lo specchio si definisce come indefinito e senza contorni: la donna non prova piacere solo in una cosa in particolare, ed inoltre il suo piacere è senza parole e rappresentazioni. Essenza del godimento femminile è il toccare, il toccare produce confusione tra i due corpi.

La visibilità invece è propria del godimento maschile, la visibilità porta a distinguersi, a riconoscersi in quanto soggetti, da ciò che si guarda che diviene oggetto.

La donna descritta da Irigaray in questo modo è una donna che si confonde in continuazione, a volta con la madre, a volte con altre donne; la confusione, in particolare, generata tra lei e la madre è il rovescio del fatto che l’immaginario maschile vede sempre in una donna la propria madre.

La differenza sessuale uomo-donna si spiega attraverso la formula del “parlare non è mai neutro”, la differenza infatti ha bisogno sempre di un linguaggio che la determini affinché se ne possa parlare; la stessa donna ha bisogno di un dialogo simbolico conforme all’esperienza femminile. Secondo la pensatrice il linguaggio deve essere decostruito così che ne venga svelato il carattere falsamente neutro; facendo un’indagine sul linguaggio di ragazze e ragazzi Irigaray scopre che la società in cui viviamo parla sempre e solo di un soggetto unico (che di fatto è l’uomo); se si entrasse invece in un’ottica che comprenda due soggetti, l’uomo e la donna, allora questo rapporto cambierebbe e ciascun soggetto entrerebbe in relazione con la natura, con gli altri individui e con la cultura: da qui nasce la formula dell’ “umanità a due”.

Passiamo ora ad un altro testo: Etica del 1985. In questo testo Irigaray si pone oltre lo specchio dell’immaginario maschile, si impegna a tentare le forme simboliche del linguaggio che sia fedele all’esperienza delle donne e ne tocchi i punti giusti; questi punti simbolici sono il tempo, il divino, il soggetto e l’altro.

Che cosa è però che crea una vera socialità tra le donne? Secondo Irigaray esistono due condizioni: la prima è quella che si basa sulla ricerca del linguaggi inteso come luogo da abitare; la seconda condizione è che occorre che i rapporti tra le donne si istaurino su due assi: il primo asse, quello verticale, è il rapporto tra madre e figlia, l’asse orizzontale rappresenta invece il legame delle donne con altre donne. Questi due assi si incrociano e il risultato è che il rapporto di una donna con la madre prefigura il suo rapporto che le altre donne. Se il rapporto con la proprio madre risulta confuso di conseguenza anche il rapporto con le altre donne risulterebbe tale. Solo se queste due condizioni, sopra descritte, vengono soddisfatte allora la donna può amare e può amarsi.

Di nuovo, in Etica Irigaray riprende la figura del godimento femminile, qui definito come “mucoso”. Il godimento femminile è ancora una volta un elemento di differenza sessuale con l’uomo, la donna infatti grazie ad esso riesce a incontrarsi con l’altra persona. Nel mucoso dunque è presente la spiritualità, del tutto assente invece del godimento maschile e nell’uomo stesso. Ogni figura simbolica femminile è permeata di spiritualità. Nell’esperienza delle donne c’è qualcosa di divino che nasce dalla gioia di toccare, un divino che non deriva dai momenti di mancanza e sofferenza ma da momenti di pienezza dell’essere. Si tratta dunque di un divino che nasce dal piacere, dal godimento e dalla felicità. Non si incarna come il Dio nel cristianesimo in Cristo, secondo un movimento dall’alto verso il basso, dal cielo alla terra. Non è il Dio della sofferenza ma lo incontriamo in momenti di gioia e piacere.

Il tema del divino femminile è sempre stato un tema caro a Irigaray, anche se nelle sue ultime riflessioni si è allontanata dallo squilibrio presente in Etica, in cui l’incontro tra uomo e donna era possibile solo per via del godimento femminile, ma la differenza sessuale è modellata sulla figura del due: il due della coppia tra donna e uomo.

 

  1. Studi di genere: Hobbes,Platone, Hegel.

Importante è trattare anche le posizioni di tre dei principali pensatori dell’Occidente riguardo la figura della donna all’interno della società. In questo modo usciamo dall’universo femminista per approdare agli studi di genere.

Il primo dei tre filosofi che tratteremo qui è Hobbes: padre del contrattualismo, Hobbes si è spesso soffermato sul diritto dei genitori sui figli, specialmente sull’origine del potere paterno, qui chiamando in causa anche il ruolo della donna.

Questa trattazione è legata al saggio De Cive pubblicato nel 1642, qui Hobbes tratta i temi dello stato di natura e dello stato civile, i due ambiti fondamentali per spiegare il contrattualismo sociale.

Ora, soffermiamoci sul potere paterno: l’argomentazione che affonda questo potere sulla generazione, secondo Hobbes, non è affatto evidente perché si è in due, uomo e donna. Per questo bisogna tornare allo stato naturale, dove tutti sono considerati uguali; qui per diritto di natura è la donna a generare i figli e dunque ad averli a disposizione per prima, la padrona dei figli dovrebbe essere lei.

La perdita dunque del potere della madre sui figli, secondo Hobbes può avvenire in tre modi: in primo luogo se è la madre stessa a rinunciarvi, ad esempio abbandonando il figlio; in secondo luogo se perde proprietà di sé cioè se viene presa in guerra o diviene cittadina di uno Stato; o, infine, se si unisce in “società di vita” a patto che il potere spetti all’uomo. I figli così saranno a disposizione di chi possiede la donna: nei vari casi il vincitore della guerra, oppure lo Stato di cui diviene cittadina oppure, in ultima istanza, il marito  poiché, come scrive Hobbes: “in generale, se la società di maschio e femmina diviene un’unione, così che l’una sia sottoposto al potere dell’altro, i figli sono di chi ha il potere”.

In conclusione, in uno Stato in cui maschio e femmina sono uniti da un patto di coabitazione, i figli sono del padre, poiché in tutti gli Stati, costruiti sulla figura paterna e non sulla figura della madre di famiglia, il potere domestico spetta all’uomo. Inoltre, se questo patto viene concluso secondo le leggi civili, si contrae il matrimonio; se invece il loro accordo riguarda soltanto la convivenza, i figli sono della madre o del padre, a seconda delle leggi civili dello Stato di appartenenza. Dunque è il matrimonio, e solo questo, che istituisce la sovranità del padre sui figli e moglie.

Quindi, possiamo dire che la filosofia politica hobbesiana abbia due direzioni: la prima in cui tutti gli esseri umani sono liberi nello stato di natura, la seconda in cui nel momento di stipula di un  accordo/patto tra uomo e donna, il matrimonio appunto, il potere totale su famiglia e figli passa all’uomo, mettendo dunque la donna di nuovo in una posizione di subordinazione.

Il potere del marito sulla  moglie tuttavia non viene visto come un esempio di potere politico: alla base del patto si presuppone una differenza che rende la donna sottomessa. La differenza femminile, intesa come capacità di generare, se nello stato di natura fonda il potere materno, con il contratto di matrimonio è ciò che relega la donna alla sfera domestica, e all’interno di questa resta madre e moglie senza potere.

Anche Hobbes quindi segue il filone per così dire maschilista, accusato dalle precedenti pensatrici tra cui Luce Irigaray, che come abbia visto, mette proprio in discussione questa figura così predominante del padre nella famiglia, ricreando un nuovo spazio alla donna, soprattutto in rapporto con la figura della madre, per lei  molto importante.

Un altro filosofo che si occupa di famiglia è Platone. È proprio Platone che ha inaugurato quella filosofia che ha portato a ignorare la differenza e che porta a ridurre l’umanità al solo genere maschile.

A differenza di Aristotele che riconosce come principio di origine politica l’interdipendenza dei sessi e la necessità del loro coesistere, Platone dà scarso rilievo al carattere del sesso. Il problema della generazione riguarda lo stato non i singoli individui e la poca importanza che Platone dà alla natura biologica nell’assegnare ruoli e mestieri, è ottenuta ignorando questa differenza sessuale.

Nel V libro de La Repubblica, paragonando la differenza tra calvi e chiomati a quella tra uomini e donne, Platone relativizza la seconda nell’ambito della generazione: Socrate elimina il particolarismo abolendo la famiglia, ma per fare questo deve astrarre dal corpo e dunque della differenza essenziale che divide il genere umano in due. Gli individui, maschi o femmine, perdono il ruolo di padre, madre, marito o moglie in modo tale che l’organizzazione dello stato resti estranea alla differenza dei sessi. La materialità del sesso fonda il dualismo tra pubblico e privato in modo tale che i maschi, confinando le donne alla natura, si liberino per gli affari del mondo; questo si basa sulla concezione astratta di un individuo biologico femmina di fronte a un maschio che ha l’intento naturale di dominarla, e che assume che la donna sia sottomessa a lui per natura.

Il femminile diviene così centro della trattazione platonica in cui secondo il filosofo non esiste una differenza generale tra uomo e donna che condurrebbe all’inferiorità femminile, ma esiste, nei confronti dell’uomo, una “generale uguaglianza” in riferimento allo svolgimento di un’occupazione. Così quando si parla di differenza tra maschio e femmina, occorre indicare il criterio che assumiamo come unità di misura per tale differenza; poiché quella tra maschio e femmina riguarda solo la sfera riproduttiva in quanto le donne possono, al pari degli uomini, diventare guardiane della città. Platone però, secondo l’interpretazione del pensiero della differenza, propone l’uguaglianza generale tra uomo e donna solo nell’ambito pubblico dunque politico, ma ignora la diversità nel privato. L’argomento a favore dell’irrilevanza della differenza sessuale risulta però sessista e discriminatorio poiché Socrate giudica il lavoro delle donne secondo la tipica gerarchia che vuole il femminile subordinato al maschile.

Infine a differenza di Aristotele che giudica le donne come obbedienti ai comandi e alle decisioni dell’uomo, Platone teorizzando la polis perfetta, include come cittadini e cittadine sia gli uomini che le donne, ma ancora un volte ci si riferisce solo all’ambito del pubblico, lasciando vano il privato.

Ultimo pensatore è Hegel; nella trattazione dei Lineamenti di filosofia del diritto la famiglia, prima radice etica dello stato, sta alla base della tripartizione dell’eticità. Essa presuppone il diritto e la moralità. Inoltre ha il suo momento immediato nel matrimonio; il momento della scissione nell’esteriore esserci, la proprietà e i beni di famiglia; il momento etico nell’educazione dei figli e nel suo scioglimento. Inoltre all’interno della famiglia, il rapporto tra i coniugi non si basa semplicemente nell’istinto sessuale ad accoppiarsi e riprodursi ma trova il suo fondamento nell’amore inteso come la coscienza di un interesse e una fiducia comuni; non si tratta però della passione romantica né dell’amore platonico, che vede il rapporto sessuale come qualcosa di indegno ma l’amore si sviluppa e trova quiete nella relazione coniugale.

Dentro questo quadro uomo e donna ricoprono ruoli e figure diverse; la donna, più disposta al sentimento, è destinata alla famiglia mentre l’uomo nella sfera domestica concilia la “tranquilla intuizione e l’eticità soggettiva vivente nel sentimento”.

La famiglia così ha un interno (la donna) e un esterno (l’uomo) e i ruoli di genere ne definiscono i confini. Se nel modello di Hobbes il matrimonio si confermava una relazione naturale, nel modello hegeliano la natura biologica della donna viene storicizzata attraverso l’amore e messa a fondamento della famiglia confinando il genere femminile ai soli ruoli di moglie e madre.

 

  1. Carole Pateman

The Patriarchal Welfare State è un classico della letteratura intorno al concetto di donna. Si parla qui dello stato patriarcale, che teoricamente e storicamente, ha individuato il criterio della cittadinanza nell’indipendenza, basata su qualità e abilità maschili. Da sempre, come abbiamo visto nella trattazione negli studi di genere, gli uomini sono stati visti come possessori delle capacità di richieste di individui, lavoratori e cittadini, mentre alle donne è stato associato il significato di dipendenza.

Carole Pateman, nella sua tesi di dottorato Il contratto sessuale, scoprì che alla base delle società patriarcali c’è un patto fondativo che è, in realtà, anteriore a quel patto definito da Jean-Jeacques Rousseau “il contratto sociale”, che si credeva fondare la società umana. Il vero patto, secondo Pateman, è invece un contratto sessuale, che consiste in un accordo pacifico tra uomini eterosessuali per distribuire tra loro l’accesso al corpo femminile. Dunque qui ci soffermiamo sul carattere sessuale della donna, vista non solo come angelo del focolare e quindi per natura dedita alla casa e alla cura di figli, ma Pateman guarda alla donna anche come un oggetto sessuale usata dagli uomini a proprio piacimento. È per questo che nei rapporti sociali patriarcali la donna entra con una zavorra che genera disuguaglianza.

 

  1. La “Rivolta Femminile” e gli anni Settanta.

Negli anni Settanta, il gruppo di “Rivolta Femminile” a cui apparteneva Carla Lonzi, avanzava la pretesa di cambiare le posizioni che occupano donne e uomini all’interno della società, cambiando a sua volta la parola stessa.

La donna, come sempre detto all’interno di questa trattazione, è inserita quasi per natura in una cultura che le impone di ricoprire determinati ruoli; questo significa che anche quando la donna parla, non viene presa sul serio, viene derisa.

A questo punto vengono in mente le reazioni di Olympe de Gouges alla stesura della Dichiarazione dei diritti nel Settecento dalla quale le donne vennero escluse oppure la stessa posizione di Aristotele che, gerarchizzando la vita associata, ne escludeva le donne alla pari degli schiavi e degli stranieri.

La parola però a cui si riferisce Carla Lonzi è una presa di parola, ma a sua volta la presa di parola non è affatto facile: chi parla, ha bisogno di qualcuno che la ascolti e questo rende necessario che l’intera cultura cambi. Infatti, non solo la donna non è mai stata protagonista del nostro universo simbolico e culturale, perché esclusa da campi quali la storia, la letteratura, la filosofia, ma solitamente anche quando si parla della donna, lo si fa attraverso l’occhio maschile dando dunque alla donna posizioni e ruoli prestabiliti. La presa di parola, di cui parla Carla Lonzi, è una presa in carico del valore di quel che si dice, si tratta di rendersi responsabilmente conto di mancanze e possibilità reali. A questo punto è implicita la differenza tra la donna istruita e la donna educata: mentre la donna istruita impara a parlare imitando il valore della parola che gli uomini le attribuiscono, diventa emancipata, entra nel mondo maschile con le gerarchie e i valori che lo organizzano; la donna educata invece, che si identifica nella femminista, cerca una parola che esprime se stessa, la sua vita, alla ricerca di libertà. Parlare ha dunque un valore trasformativo della società e della mentalità della società patriarcale. È importante menzionare anche il rapporto della donna con la politica, anche qui ci si rende conto della difficoltà per la donne di entrare nella politica, mentre in Europa solo dalla seconda metà del Novecento le donne hanno acquisito il diritto di voto (ad esempio in Italia nel 1946, in Svizzera nel 1971), rimane però ancora bassa la percentuale delle donne elette. Quindi anche le donne stesse, dotate di diritto di voto, preferiscono essere governate da personalità maschili anziché femminili perché è l’uomo ha dare maggiori garanzie e certezze. Perciò la mancanza di libertà della donna non è tanto data da un ostacolo esterno ma soprattutto da un ordine che invade il suo sé al punto da diventare interno a lei.

Il primo passo da fare per uscire da questo ordine sarebbe creare una discontinuità che possa permettere di riconoscere l’esistenza di altro, oltre la tradizione maschile. Smettere di parlare con parole di tradizione e attribuire un nuovo valore alle parola è un inizio.

 

  1. Conclusione: il futuro della donna.

Dunque, in conclusione, si può dire che il femminismo risulta un movimento estremamente diversificato, anche il pensiero delle varie filosofe e scrittrici qui analizzate, presenta vari temi. Ciò che viene sottolineato in tutte le prospettive del femminismo è la condizione della donna che, nel corso delle varie epoche, sembra non essere cambiata: la donna viene descritta ovunque come un oggetto subordinato all’uomo, da sempre teorizzato come un essere superiore rispetto alla donna soprattutto in relazione alla presenza dell’organo genitale.

Tutte le filosofe del movimento tentano però attraverso le parole, il linguaggio e le loro opere di porre fine a questa condizione. Cercano tutte di creare una nuova società in cui la donna si possa sentire parte integrante, ricoprendo anche nuovi spazi oltre a quello domestico, di madre e di curatrice della casa.

Ma quali sono, ad oggi, le ripercussioni sulla condizione della donna nel mondo a noi contemporaneo? Innanzitutto, se parliamo del ruolo della donna, è giusto anche parlare dell’uomo, che nel corso del tempo ha cambiato la propria immagine. L’uomo non riveste più i ruoli dominanti a lui da sempre riconosciuti, come quello di lavoratore e di capofamiglia.

La donna ha sicuramente raggiunto posizioni del tutto diverse rispetto al passato, molte donne studiano, si laureano e hanno un futuro e una carriera professionale e in alcuni casi sostituiscono la stessa figura paterna nella vita dei loro figli.

Ma la donna viene ancora, in alcuni ambiti, usata e vista come un oggetto sottoposto alla forza e alle decisioni degli uomini che siano mariti, padri o semplici conoscenti. Sono molti i casi di cui potremmo parlare: i tanti casi di violenza, di femminicidi, di stalking, di abusi e maltrattamenti, di mobbing familiare come accade in molte culture straniere soprattutto arabe e indiane in cui madri e figlie sono considerate oggetto nelle mani dei padri e dei fratelli; qui di nuovo possiamo parlare di società patriarcali, di quelle trattate da Carole Pateman, in cui la donna è dipendente all’uomo. Ma perché esistono tutti questi episodi? Forse si dovrebbero ricercare le cause proprio nel cambiamento di ruoli nell’uomo? Probabilmente sono tanti i motivi che cercano di spiegare e conseguentemente di affrontare il tema della violenza sulle donne, che sia fisica o psicologia e persino sessuale: ad esempio, potremmo ipotizzare che gli uomini non accettino la cercata e raggiunta indipendenza della donna soprattutto nelle relazioni sentimentali e vedono  nella violenza un arma utile per riconquistarle e tenerle con loro; oppure che l’uomo non accetti di vivere e di staccarsi da un tipo di società, appunto patriarcale, che lo ha sempre messo al centro dell’universo e quindi non riesce ad rassegnarsi al suo passato e al potere perduto.

La “Rivoluzione culturale” portata avanti dal movimento femminista e dalla battaglia per il diritto di voto ha in realtà prodotto vari cambiamenti nella stessa capacità e visione della donna di se stessa; la donna riesce infatti a “metter fuori il naso” e a cambiare il proprio destino. La donna dunque, nella sua ricerca di darsi un’identità nel tempo, ha “invaso” gli spazi dell’uomo generando in lui quella passione che Lacan chiamava odio. L’odio come passione si manifesta anche come gelosia, l’uomo è geloso perché la donna, l’altro, gli deruba qualcosa che è appannaggio del suo essere nato uomo, l’altro donna invadendo gli spazi altrui induce una mancanza non sostenibile.

La manifestazione della violenza risulta anche come mezzo per eliminare il “rivale”, in questo caso la compagna che diventa il nemico da abbattere per ripristinare una posizione.