Movimenti e pratiche di solidarietà oltre i confini, la gerarchia, il potere- Intervista con Chandra Talpade Mohanty

Introduzione

L’incontro con Chandra Talpade Mohanty è avvenuto un anno fa, il 22 Maggio del 2015, in occasione della sua visita a Napoli, dove era stata invitata dalla rete Deco[k]now [1] nell’ambito del ciclo di seminari intitolato “Gli studi postcoloniali e la questione della soggettività politica nella teoria radicale”. Nella lezione dottorale tenuta all’Università L’Orientale (che qui diffondiamo e rendiamo di libero accesso) Chandra Mohanty aveva affrontato, da una prospettiva femminista e postcoloniale, un’analisi dei regimi securitari nelle zone di frontiera, focalizzandosi sulle dinamiche della governamentalità e sui movimenti di resistenza nelle zone situate tra Messico-Stati Uniti, tra Valle del Kashmir-India e tra Gaza-Israele.
La mattina seguente alla lezione, l’abbiamo incontrata prima della sua partenza da Napoli, per condividere con lei una colazione e delle questioni. Le domande che come gruppo che cura l’ Atelier Iaph-Intercultura avevamo elaborato e che ponevamo all’autrice di Femminismo senza frontiere si trasformavano immediatamente in questioni rilanciate a noi proponenti. La curiosità mostrata verso le nostre vite e esperienze politiche e la postura amichevole di ascolto e parola hanno rotto rigidità nel dialogo, e fornito lo spazio empatico di una piena vicinanza generando fluidamente dei modi circolari di conversazione imprevisti, in un’appassionata, immediata e impensata alleanza. L’asse dell’intervista, come lo avevamo immaginato prima dell’incontro, è stato invertito. Siamo state noi a ricevere delle interrogazioni rigorose e urgenti dalla”intervistata”, seguite da un assunto: «Se non si ci si pone certe domande, il rischio è di stare dalla parte sbagliata della storia». Durante questo scambio politico riteniamo che alcuni argomenti cruciali siano emersi e li proponiamo di seguito come questioni fondamentali che sfidano il presente: quali sono i metodi per creare una concreta solidarietà femminista transnazionale nell’interconnessione tra lotte? È minimamente possibile oggi abbracciare i femminismi senza dirsi antirazziste e anticapitaliste? Come dare l’attenzione necessaria alle comunità marginali, in un rovesciamento di privilegio epistemologico importante? Che senso ha partire dalle dinamiche interculturali, dalla migrazione in un’ottica di genere e occuparsi seriamente del funzionamento della violenza epistemica e del funzionamento del potere, in connessione al tema dello sfruttamento? Come ridefinire, per superarli, gli stretti confini perpetuati dal modello eteropatriarcale dello Stato-Nazione?
L’incontro con Chandra Mohanty non ci ha fornito delle risposte. A noi ha piuttosto consegnato una serie di interrogativi che abbiamo sentito chiamarci parimenti in causa, non come ricercatrici universitarie ma come persone consapevoli e partecipi di una lotta comune da portare avanti ogni giorno senza chiusure, insieme ad altre e altri, unendoci nelle diversità. Decolonizzando pratiche e saperi, tendendo alla produzione di differenti valori oltre quelli dominanti, in ogni parte del pianeta e a partire dalle differenze, ad ogni livello della società e in ogni aspetto della vita.
Interrogazioni di senso come queste sono presenti dalle prime righe del dialogo e sono suggerite come indicazioni di metodo. Le pubblichiamo qui per proporle alle attiviste, agli studiosi, ai ricercatori e alle ricercatrici militanti, alle femministe in Italia dentro e fuori l’accademia, per riflettere sulle basi attuali delle pratiche dell’internazionalismo e della ricerca politica, per riposizionarle sull’oggi nel qui e ora ma richiamando ad uno sguardo di ampio raggio decentrato in apertura verso l’altrove.

Alessia Drò*

*un ringraziamento particolare a Lucia Turco che ha proposto e accompagnato questo incontro


[1] Deco[K]now è una rete di ricercatrici e ricercatori con lo scopo di attivare pratiche teoriche finalizzate alla decolonizzazione dei saperi e di avviare un percorso di liberazione della conoscenza attraverso inchieste legate al lavoro critico e alla lotta politica a partire da contesti concreti e locali per immaginare spazi di soggettività comune. Per info http://www.decoknow.net/

 

Come sai, discussioni sugli approcci femministi interculturali e postcoloniali non sono troppo diffuse nell’attuale dibattito femminista italiano. Come Atelier Intercultura in Iaph, vorremmo sviluppare in Italia uno spazio di incontro, di risonanza, a partire dalla connessione di diverse e dislocate esperienze di lotta e di ricerca situate. Da un lato per criticare- da una prospettiva interculturale- un modo eurocentrico di produzione dominante dei saperi, dall’altro per creare un’apertura verso pratiche di apprendimento alternative, stimolando nuovi incontri e nuovi contributi politici di ricerca. Con i tuoi lavori, già a metà degli anni ’80 e poi successivamente, ci hai dato orientamenti preziosi sui modi in cui la critica all’eurocentrismo possa decolonizzare il discorso femminista egemonico

Quello che mi domandi credo abbia molto a che fare con quel salto generazionale di cui abbiamo parlato, quando ti ho chiesto il vostro posizionamento all’interno del femminismo italiano in una prospettiva postcoloniale e anticapitalista. Le generazioni più giovani, dunque, mi sembra che qui in Italia stiano portando un punto di vista meno eurocentrico; ma posizionamenti particolari e dislocati appaiono talvolta ad altre come se non abbiano niente a che vedere con e come se non abbiano niente da dire al femminismo italiano e alle questioni che affronta.
Innanzi tutto il lavoro che io porto avanti da tempo è sistematicamente anticapitalista. Però, ci sono molte pensatrici femministe postcoloniali che non lo sono, e non c’è una presa di posizione specificatamente antirazzista e anticapitalista.

C’è forse una specie di modo di universalizzare il femminismo che deriva dalla sua storia italiana e dal modo in cui ci si concepisce come italiane ed europee. Qui la sfida si pone in termini di voci e di critiche che vengano non solo dal fuori, ma che necessitano, dal di dentro, di dare precisa attenzione alla vita delle donne nelle comunità marginali, nelle periferie, che stanno teorizzando le loro prese di posizione, le loro pratiche, in relazione ad una cornice più ampia. Se no quello che fai, teorizzando, corre il rischio di colonizzare le esperienze delle donne che vivono altrove, in India, in America Latina. Allora io mi chiedo: come si sta affrontando lo scenario della razzializzazione qui in Italia e cosa significherebbe per voi teorizzare le lotte femministe a partire dai luoghi di quelle persone marginalizzate? E’ questo un progetto che il femminismo italiano dovrebbe intraprendere e iniziare? Perché, se non lo iniziasse, allora significherebbe, oggi, essere dalla parte sbagliata della storia. Significa essere dalla parte sbagliata della storia se non si fa attenzione a cosa succede in Italia e in Europa rispetto alla questione delle migrazioni. Perché la questione delle migrazioni riguarda anche il genere: i migranti non sono solo “ i migranti”.

La domanda da porre sarebbe: in questo contesto, da quali luoghi possiamo far partire un’analisi anticapitalista femminista antirazzista? Da quali luoghi e contesti? Tu stai pensando a spazi o a comunità, alle relazioni di vicinato a Roma? Posso fare un esempio concreto: a Roma son stata nel quartiere dell’Esquilino, uno spazio visibile sotto una prospettiva di genere. C’erano molti uomini, poche donne. Ci son quindi molti spazi dove potremmo chiederci, in primo luogo, dove siano le donne. E poi anche potremmo chiederci: quali sono i problemi importanti per le donne in quelle comunità? Cosa affrontano quotidianamente? E le femministe italiane come stanno in queste situazioni? Sono utili a queste donne? E, se non lo sono, questo è un problema. Quindi, ancora, la questione è: il femminismo è una politica che è solo di chi ha potuto teorizzare sul femminismo o è una politica radicale che ha bisogno di essere rilevante e polivoca, perché il mondo non è univoco? E’ una politica che deve fare attenzione alla storia coloniale e ai panorami di razzializzazione che esistono, oggi, in Italia?
Penso che questa sarebbe una domanda da porsi. Mentre, per parlare proprio di femminismo transnazionale, per dire come funziona, come possa creare una rete di connessioni oltre il concetto di “sorellanza”, ti posso raccontare subito il progetto collaborativo messo in piedi con la mia collega-sorella femminista Linda Carty.

Il nostro progetto ha fatto nascere una genealogia materialista e collettiva di pratiche femministe transnazionali che vanno oltre le nozioni romantiche di sorellanza. Si tratta di un progetto che si basa sui dialoghi intrapresi con studentesse-attiviste femministe di tutto il mondo che riflettono nel loro specifico sui contatti esistenti tra istanze di giustizia sociale riguardanti l’economia, l’antirazzismo, l’anticapitalismo oltre e attraverso i confini nazionali.
E c’è un capitolo iniziale contenuto nel libro The Oxford Handbook of Transnational Feminist Movements, 2015 che si concentra su un filo conduttore che attraversa tutti i nostri dialoghi: le anatomie dello spossessamento e della violenza nell’era del neoliberismo, e in particolar modo, le sfide connesse che questa pone alle femministe situate in vari luoghi e contesti geopolitici del mondo. Noi crediamo che sia questo particolare contesto contemporaneo a permettere di vedere più chiaramente, attraverso analisi sociopolitiche, la produzione di conoscenza femminista riflessa in differenti angoli del mondo. Questo ci permette di creare una cartografia, una mappa dei contatti e delle lotte femministe transnazionali e ottenere così la possibilità per una reale solidarietà attraversando i confini, basata sulla giustizia e sull’attenzione al potere nelle specificità e differenze storiche. Molta della produzione di conoscenza femminista transnazionale organizzata sul campo da donne di colore ha criticato il femminismo e altri movimenti sociali: queste critiche hanno avuto un impatto forte e hanno cambiato tanto il più ampio panorama socio-politico quanto i contesti intellettuali, trasformando così il movimento femminista in sé.

Certamente, le questioni che ci chiediamo oggi riflettono un modo di teorizzare femminista transnazionale che è direttamente legato alle, e spesso emerge proprio dalle lotte reali, e dall’impegno politico nelle battaglie portate avanti da diverse comunità.
Sto pensando poi che il nostro progetto in corso sviluppa anche un archivio video digitale, chiamato Femminist Freedom Warriors. Questo archivio digitale, primo nel suo genere, consiste in una serie di interviste con donne ispiranti, chiamate, appunto, guerriere per la libertà, le cui lotte sono profondamente interconnesse, anche se i loro contesti e luoghi geografici di riferimento potrebbero sembrare non connessi. Usando la storia orale per documentare le vite e l’impegno politico delle attiviste femministe del XX secolo e del presente, Feminist Freedom Warriors cerca di portare l’archivio video femminista dentro il contemporaneo contesto digitale; queste donne, da noi chiamate Freedom Warriors, sono state filmate nelle conversazioni con noi, loro contemporanee. Le sorelle che hanno lottato e lavorato insieme per più di 4 decadi. Tutti questi elementi si combinano per creare un progetto diverso, d’enorme importanza, ad ora l’unico archivio digitale femminista con questo scopo. Feminist Freedom Warriors si vuol dedicare in primo luogo a pratiche pedagogiche contemporanee per le femministe del futuro, ma ha anche lo scopo di ospitare storie attraverso un dialogo con femministe il cui lavoro è profondamente ancorato al passato. Questo progetto incorpora, secondo me, una prassi femminista transnazionale e promuove una visione collaborativa a livello teoretico e metodologico che stimola il pensiero e l’organizzazione attraverso diversi contesti e paesaggi geopolitici.

In ogni caso, per rispondere alla domanda che ci interroga su come può la critica all’eurocentrismo essere applicata al femminismo, penso che questo dipenda da a chi vuoi indirizzarti, che tipo di politica femminista vuoi portare avanti, perché c’è una cornice coloniale che crea fraintendimenti ed equivoci: in ciò che significa essere europeo, in ciò che significa essere italiana. C’è un modo di intendere esclusiva quell’identità, in un accesso esclusivo. Pensiamo al sistema della cittadinanza: c’è chiaramente una connessione con il potere in questo. Ma lascerò da parte le questioni molto teoriche, perché ora sono interessata a capire che esempi possono essere usati per intendere una prospettiva postcoloniale femminista e transnazionale, sulla quale ho lavorato.
Io penso che non si possa avviare una politica radicale femminista se non si fa attenzione a sistemi multipli e intersezionali di oppressione, perché sono questi i sistemi che hanno a che vedere con persone di differenti nazionalità, classe, provenienza, situazione, etnia, con diversi vissuti: esperienze differenti, specialmente vissute da donne.
E quello che posso dire è che se non troviamo modi di capire come le persone possano fare teoria critica dai margini, per come funziona il potere, ci saranno problemi che non verranno mai visti e capiti.

A Roma, nella zona di Piazza Vittorio, ho visto un sacco di persone provenienti dal Bangladesh e dall’Africa. Capisco che sia difficile entrare in contatto con queste comunità, ma mi chiedo comunque se ci siano persone di lì che vanno, per esempio, all’università a Roma, ma che hanno radici in quelle comunità, e che, magari, stando all’università, possono essere approcciate come tutte le altre persone, non parlo di incursioni nelle comunità, ma mi riferisco al guardare alle zone liminali. Immagino sempre che non siano intoccabili queste comunità, immagino che ci siano persone in queste comunità che hanno fatto un passo fuori, e che forse pure son state punite, chissà, per questo, voi anche lo sapete bene, che ci sono persone che lasciano casa.
Per vedere certe cose circa la tua casa, la devi lasciare: non le vedi se stai là dentro tutto il tempo. Tu per esempio, Alessia, sei andata a vivere e fare ricerca politica in Argentina e hai visto situazioni totalmente differenti rispetto a quelle che avresti visto se avessi continuato gli studi qui. Quindi se tu fossi rimasta qua, certamente, non sarebbe stato lo stesso.

E in un nuovo contesto, direi che è importante non pensare mai come scontato che le persone portino avanti vite normalizzate o, come molte pensano, che le donne siano sempre controllate e segregate. Io cercherei sempre di tentare di capire: cosa significherebbe per voi partecipare a degli incontri politici in quegli spazi che ho elencato prima? Per esempio, andare in quelle loro organizzazioni politiche, anche solo come partecipanti.
Faccio questo esempio perché questo ha a che fare con lo stare in situazioni che ti mettono a disagio, nelle quali non riusciresti ad esprimerti inizialmente e in cui tu sei un’ outsider e marginale.

Provare questa importante sensazione di marginalità, che va ricercata di continuo, fa sì che si inizi un processo in relazione per cui tu cominci a comprendere gli altri, le altre, e loro comprendono certe cose su di te. Credo che il modo in cui si possa veramente costruire la solidarietà non sia in astratto, ma che si dia nei termini di rischio di sé e nel mettersi in situazioni dove emerge un’autentica voglia di capire che cosa succeda, senza pensare che le persone lì non siano coscienti della situazione e che io debba insegnare loro qualcosa.
Bisogna partire dall’ammettere che non sappiamo cosa stia succedendo e che il modo per capirlo è sicuramente il mettersi in profondo ascolto, per tutto il tempo che è necessario. Penso che se noi non abbiamo conversazioni con le persone che non sono come noi, e che specialmente stanno in differenti relazioni di potere, allora ci saranno sempre parti del mondo sociale che non capiremo mai. Questo ha delle conseguenze sul nostro modo di pensare al cambiamento di cui abbiamo bisogno oggi, e influisce sul modo di arrivare alle teorie che elaboriamo. Quindi, nell’analizzare un passaggio generazionale in chiave postcoloniale nel femminismo italiano, non possiamo dire che è problematico il fatto che si stia portando avanti un’ottica colonialista: il modo in cui la politica femminista si è articolata nel passato è stato utile. Ha portato ad un modo attraverso cui comprendere il mondo, e a liberarsi da particolari situazioni patriarcali, quindi non è che ci sia qualcosa di sbagliato in questo. Le persone vivono delle loro categorie. È sbagliato pensare che queste categorie di pensiero debbano essere valide e funzionare per tutte. Così facendo, non ci si accorge per esempio di quelle donne marginali e delle loro resistenze anche quotidiane. Donne che proprio in base ai preconcetti categorici non sarebbero definite “femministe”, perché non si comportano nei modi che son stati considerati “liberati”, e che per questo sarebbero considerate erroneamente, di fatto, completamente oppresse. In questo senso funziona una struttura coloniale eurocentrica. Perché questa sia interrotta, però, c’è bisogno di interventi dall’esterno di questa struttura.

Talvolta, nel panorama italiano, si rimane anche focalizzati su categorie secondo un ordine gerarchico, come quella di razza, che verrebbe prima del genere. In questo modo non ci si sta neanche minimamente avvicinando a un’ottica e ad un approccio intersezionali.
Questo, in certi casi, è qualcosa di simile a ciò che è storicamente capitato negli Stati Uniti.
I movimenti delle donne non entravano in contatto con i movimenti antirazzisti, con le donne razzializzate e di colore.  Il movimento nero dei diritti civili non aveva un assetto antipatriarcale. Questo d’altronde è comune a molti movimenti del Sud globale.
Per esempio, quando parlavo a L’Asilo di alcuni movimenti antirazzisti che stanno prendendo piede ora negli Stati Uniti, lì è davvero possibile vedere il risultato di decenni di pensiero e organizzazione. Ci sono ora grandissimi movimenti sociali che parlano di come la vita delle donne nere conti e sia importante, perché i risultati ottenuti delle donne nere sono un punto focale d’entrata in uno spazio epistemologico e di esperienza. Un punto importantissimo di entrata che dovrebbe essere preso in considerazione da molti movimenti sociali, per rendere visibile il modo in cui si manifesta lo Stato e la violenza di Stato nelle sue multiple forme.

Per iniziativa della Casa Bianca, dopo l’elezione di Obama, hanno preso piede attività che si stanno focalizzando sugli uomini neri e sulla loro criminalizzazione e detenzione in carcere. Ma anche questo focus antirazzista ha cancellato la condizione delle donne. La situazione delle donne è totalmente trascurata. Per render conto di come le vite nere contino[2], bisogna analizzare come la vita delle donne nere sia importante da capire in ogni aspetto, in modalità diverse, perché le loro esperienze di vita sono totalmente differenti, in molti modi: l’accesso che le donne hanno ad un certo tipo di risorse, per esempio. Rispetto alla condizione nelle carceri, spesso vengono rinchiuse madri single con figli. Un gran numero di donne è messo in prigione per crimini di droga, e, nella maggior parte dei casi, la ragione è che nascondono droga per i loro compagni o mariti. Penso a quando la polizia entra nelle case: se la donna è sola, lì, lei si trova a proteggere tutta la famiglia.

Ci sono diverse esperienze che le donne vivono e che hanno a che fare con il sistema su più livelli, e che non hanno niente a che fare con l’esperienza individuale.

Molti temi da te posti su un piano di analisi ed esperienza mi portano a pensare ad un’ interlocuzione che stiamo portando avanti con l’esperienza del Rojava. C’è stata una Conferenza ad Amburgo il 3 Aprile, che ci chiamava a riflettere da un posizionamento anticapitalista e femminista; là le donne curde ci hanno raccontato la loro lotta per la costruzione del confederalismo democratico, una pratica di democrazia diretta e un paradigma basato sull’autodifesa, sull’ecologia e sulla liberazione delle donne, sull’autogoverno, sulle comuni, sul municipalismo assembleare e sulla co-presidenza. Ci hanno parlato di come stiano costruendo giorno per giorno le basi dell’autodifesa, e, con questa, nuove forme di produzione di sapere. Il punto è che l’incontro con l’esperienza di lotta delle donne curde sta facendo saltare le nostre categorie “occidentali” di pensiero. Il loro modo di produrre conoscenza ci fa forse capire come dovremmo riniziare a fare i conti, in nuove modalità, con la nostra storia. Quando le compagne curde parlano della necessità di un cambiamento della società tutta, credo che noi in Europa dobbiamo fare i conti con un femminismo che si è basato su un individualismo capitalistico forte e che evidenzia una frase che tu hai scritto: “si è passati dal personale è politico, al politico è personale.” E noi, infatti, collettivamente ci stiamo chiedendo, guardando alla nostra storia: che è successo in questo passaggio? Poi tutto questo ci fa pensare anche in un’ottica anticapitalista, come il concetto di Stato-Nazione sia ormai troppo stretto…le compagne curde ci invitano a riflettere su questo punto e a vedere quello che stanno costruendo oggi, a promuovere l’incontro e la diffusione delle loro pratiche.

Mi torna tutto quello che dici e davvero attira moltissimo la mia attenzione.
Mi viene da pensare che quello che succede nei vari collettivi di donne di cui racconti ha anche a che vedere con quello che ha fatto il movimento zapatista in Messico, dove ci sono collettivi di donne indigene, che si nominino o no come femministe, che portano avanti una mirata posizione anticapitalista e anti-statale. Ora, il movimento zapatista ha scelto di essere un movimento autonomo e di andare contro l’idea che loro siano messicani come tutti gli altri messicani. In altre parole, hanno scelto di dire che la sovranità statale in Messico non può funzionare senza che non venga data attenzione alle comunità indigene zapatiste. Hanno smosso il discorso sullo Stato-Nazione per denunciare che il modo in cui il concetto di nazione è costruito nella sua storia è un problema in sé e c’è bisogno di cambiarlo completamente sotto un’ottica anticapitalista. Però, questo che mi dici sulle donne curde, è ancora diverso. Ci mostra quanto malleabile sia il concetto di Stato-Nazione. Lo Stato e i confini sono gli unici modi attraverso cui le persone riconoscono la sovranità? La mia risposta è no. C’è una densissima storia di conoscenze indigene dal Latinoamerica, dagli Stati Uniti, e da luoghi come l’India, dove ci sono tribù indigene e comunità che hanno differenti modi di vita e hanno differenti modi di pensare alle relazioni tra loro stessi, con l’esterno, con l’ambiente. Sono visioni diverse su cosa significhi costruire una struttura di governo o cosa significhi realizzare relazioni tra persone nella società che siano umane e inclusive. Spesso queste idee non trovano luogo nel concetto di Stato-Nazione. Lo Stato-Nazione ha una storia corta, recente. Non ha una lunga vita, per molti aspetti.

Nelle mie ricerche di oggi trovo importante parlare delle comunità, ad esempio, che vivono negli Stati Uniti e al confine, come quelle delle riserve indigene: loro considerano però loro stesse “nazioni sovrane”. Usano il linguaggio dello Stato-Nazione, perché è oggi l’unico disponibile. Però quello che loro intendono dire, e che mettono in pratica, è più corretto nominarlo “popolo sovrano”, e cioè: “vogliamo vivere come desideriamo in relazione al territorio che abitiamo, alle nostre terre. Non vogliamo essere messicani o americani”.
Le comunità curde non hanno questi confini, naturalmente, quindi non usano gli argomenti del nazionalismo e non provvedono in senso statalista all’organizzazione di quei territori. Perché sarebbe una struttura oppressiva, perché riconoscono lo stretto legame tra Stato-Nazione e capitale globale. Oggi è in uso dire che il capitalismo contemporaneo è multinazionale, transnazionale. In realtà il capitalismo agisce attraverso gli Stati e quindi gli Stati-Nazione sono la chiave centrale per il funzionamento del capitale globale. Alla luce di queste considerazioni, alla tua domanda se io pensi che dovremmo smantellare lo Stato-Nazione, la mia risposta è: sì.
Possiamo farlo ora? Probabilmente no. Ma in termini di teorie, penso che sia importante metterlo in questione.

Perché andare oltre il concetto di Stato-Nazione, specialmente per come letto nel contesto della lotta delle donne curde e ragionare, a partire da un diverso punto di vista, sulla migrazione e sulle dinamiche interculturali, costringe studentesse, accademiche, attiviste femministe a decentrare le questioni delle pratiche dello Stato maschilista, delle identità nazionali, patriarcali. Porta ad immaginare alleanze al di là dei confini e a forme di solidarietà femminista tra donne.
Se lo Stato-Nazione non è più l’arbitro della cittadinanza e se i confini geopolitici non sono più circoscritte identità politiche e culturali, le questioni della giustizia economica e sociale devono essere teorizzate come contestuali e, allo stesso tempo, attraverso i confini.
Così, i movimenti che attraversano tali confini (come avviene nelle migrazioni) possono diventare, un tropo femminista. Questo è totalmente diverso da un’assegnazione basata sui termini di identità nazionale, come fa la maggior parte della teoria femminista decoloniale e postcoloniale. Io penso che questo paradigma ponga alcune nuove ed interessanti questioni teoretiche femministe intorno alla connettività del locale/globale. Suggerisce modi di pensiero che sono specificatamente situati, ma non localmente confinati.

Sto pensando che questa messa in discussione dello Stato-Nazione è centrale anche in Latinoamerica, nel momento in cui si sono denunciati i governi progressisti legati alle multinazionali che finanziano politiche estrattiviste. Qui, come suggerisce anche l’antropologa femminista brasiliana Rita Segato, bisogna rendersi conto che il capitalismo nella sua finanziarizzazione globale, passa proprio dalla centralità oppressiva e violenta di direzione dello Stato-Nazione. In luoghi come l’Argentina, per esempio, lo Stato maschera la rendita derivata dalle politiche estrattive – che uccidono persone e devastano territori- in redistribuzioni pacificatorie attraverso specifici “piani sociali”: assegnano sussidi economici per le fasce più povere e marginalizzate della popolazione, creando una nuova governamentalità del debito e del controllo nelle semiperiferie urbane. Di fronte a questa consapevolezza, le lotte femministe, specialmente nelle villas, producono alternative concrete attraverso pratiche radicali di democrazia diretta, nell’organizzazione del lavoro e in ogni aspetto della vita. E penso anche ad altre lotte latinoamericane e di come, contro le politiche di privatizzazione dell’acqua del governo della Bolivia, si siano autorganizzate le comunità, come quelle in Cochabamba.

Le battaglie dell’acqua in Bolivia sono qualcosa che conosco molto bene. Oscar Olivera è una parte importante di quella battaglia. E’ incredibile parlare con coloro che hanno fatto parte di queste lotte, perché la loro visione di giustizia economica  e sociale è completamente differente dalle concezioni ereditate dal femminismo che abbiamo nelle varie parti del mondo. E’ basata sul comprendere le relazioni tra le persone attraverso il genere, l’età, rigettando la  nozione di proprietà privata e di appartenenza di terre e territori. Questo per me è profondamente anticapitalista.
Le conoscenze indigene, le epistemologie indigene, rifiutano l’idea di proprietà e parlano di un modo comune di vivere: con la terra, non sulla terra, non sfruttandola. Si autorganizzano in collettivi, in unione con l’ambiente, e senza intendere l’essere umano come una creatura monadica o atomizzata. Il neoliberalismo, le governamentalità neoliberali devono invece addomesticare tutto questo.
Perciò, anche le politiche di redistribuzione, certo, diventano una forma di appropriazione o di addomesticamento e controllo. Credo sia di grande interesse guardare alle comunità in tutto il mondo che vivono oltre i confini dello Stato-Nazione o che rigettano  completamente questa definizione. E quello che trovo più radicale è mettersi al di fuori delle strettoie, fuori dai confini posti dalle definizioni e dalle concezioni di cosa significa essere un cittadino, cosa significa realizzarsi nella vita. E’ importante capire come calcoliamo questi valori, senza lasciarli misurare a chi detiene il potere in modo che le persone si limitino a scegliere tra una serie di opzioni e portare avanti una routine. Il che significa che non si può più sottostare alla narrazione che ti garantisce “è questo il modo migliore per fare le cose” perché ci son persone che non lo fanno, e stanno bene, e sono capaci di mostrarlo ad altre persone.

A partire dal tuo discorso sui valori, mi vien da pensare alla nozione di “qualità della vita”, da te giustamente criticata come categoria astratta normante e coloniale, quando usata come indice statistico omologante. E sto pensando all’esempio boliviano, alla questione di rivalutare profondamente nuove misure della vita. Penso al Buen Vivir indigeno e ai valori che pone nella sua concezione di buona vita: il Buen Vivir è stato riconosciuto formalmente nella Costituzione della Bolivia ma è ben lontano oggi dall’essere effettivamente praticato. Come intendere l’uso che si è fatto e si fa della categoria di “qualità della vita”? Quali nuove misure di fronte ad attuali indicatori?

Capisco a che ti riferisci. Ma sai, io penso alla categoria di “qualità della vita” come indice di misura. Credo che l’indicizzazione della qualità della vita utilizzata da molte organizzazioni mondiali (un tetto, cibo, libertà dalla violenza) sia un modo molto ristretto di intendere la qualità della vita, in una mera divisione tra ricche e povere. Perché la qualità della vita ha a che fare con la capacità di determinare le proprie vite e di fare delle scelte sulla propria vita. Ha a che fare con relazioni differenti tra le persone e una relazione differente con l’ambiente. Non vorrei che la qualità della vita divenisse una categoria teoretica, perché sarebbe allora una categoria che includerebbe solo, pensandoli al di là dei contesti geografici, in una forma globalmente accettata, i valori di qualità della vita di chi ha certi privilegi. Per certi versi, vivere a Mumbai è tanto difficile quanto vivere a New York. Il valore della moneta, certo, è diverso in questi luoghi, ma l’1% di Mumbai è paragonabile all’1% denunciato dal movimento 99%, a New York. Probabilmente è così anche a Roma. Ci sono nuove classi, create dal movimento del capitale e dallo Stato-Nazione che lo supporta. Ci sono eredità coloniali tra la crescita del capitalismo e lo sviluppo della modernità, un certo tipo di modernità europea. Pensiamo a tutte le persone coinvolte in lotte su diversi terreni: il femminismo dovrebbe lavorare a partire dalla coscienza che il genere conta e che è parte di una struttura più generale. Il contributo in questo senso è chiedersi cosa significa organizzare relazioni che siano eque e giuste, erotiche, ma non erotiche nel senso classico.

Cosa significa allora pensare ad uno spazio democratico femminista?
Sicuramente non è uno spazio in cui le persone prendono il tempo di quindici minuti per parlare senza dare parola alle persone più giovani.
Nelle nostre lezioni abbiamo sviluppato una cultura che ti permette di dire: “Puoi tacere almeno per 2 secondi ora? Qualcun altro, qualcun’altra, oltre te, vorrebbe parlare!”.
Piuttosto, questa è una domanda per voi: quanto il femminismo rimane ad un livello teoretico? Ci sono altri modi in cui il femminismo arriva alle vite quotidiane delle persone? E ha intaccato nel profondo pratiche culturali?

Per esempio, in India, non credo che ci sia un livello teoretico del femminismo, ma ci sono moltissimi movimenti femministi nei territori, specialmente contro la violenza sulle donne, movimenti enormi. Penso ci sia molto lavoro da fare in termini di street culture, di cultura di strada. Qualcosa è cambiato nella vita domestica delle donne indiane, ma c’è una struttura dominante patriarcale molto forte ed è questo che deve esser trasformato, dalle persone coinvolte, non da quelle esterne. Ma è in termini di cultura di strada che c’è bisogno di cambiamento. In India ci sono posti in cui puoi sentirti tranquilla e altri posti in cui non lo sei. Quando vivevo in Delhi, dove son cresciuta, nei bus, veramente affollati, gli uomini cercavano sempre di tirarti, spingerti, e tu ti trovavi a stare in uno spazio ristretto o a esser pronta a dare ceffoni alla gente: puoi dare un ceffone ad un tipo, ma dico, queste situazioni devono cambiare non solo per un gruppo di donne che son educate o privilegiate.
Per me questo è il lavoro che può fare il femminismo, non credo esistano altri movimenti che abbiano queste pratiche, queste politiche. Questa è una domanda. Ci sono altri movimenti che hanno messo al centro relazioni eque e non gerarchiche e autoritarie come centrali per quello per cui combattevano? Io non penso.

Non so che tipo di livello di discorso ci sia in Italia su diritti civili o sulla nonviolenza. Per me, quando si pensa al movimento dei diritti civili o alle lotte anticoloniali in India, si tratta di un addestramento alla nonviolenza, alla non risposta: questa è una forma di allenamento.
Solitamente gli uomini stavano davanti, durante le manifestazioni, ma nei movimenti dei diritti civili ci sono donne, neri, nere, studentesse bianche, che utilizzano lo stesso metodo per affrontare la polizia. Credo sia un esercizio e un allenamento per le donne mettersi nelle prime linee.

Sto pensando alle donne Chipko, in una famosa protesta: in un parco, queste donne hanno abbracciato degli alberi rifiutandosi di spostarsi. Le ruspe non sarebbero mai andate contro di loro, ci sono certe azioni per parte di donne che fanno un uso diverso del corpo.
Sto pensando alle donne di alcuni villaggi indiani, che hanno fondato la pratica di circondare un uomo che ha commesso violenza, per esempio. Lo circondano e lo insultano, non permettendogli di muoversi. Vanno lì con il loro corpo, oggi è una pratica ormai diffusa al di là dell’appartenenza ad una classe sociale, ma, all’inizio, le donne di classe media, a Mumbai, per autodifendersi, hanno imparato da quelle dei villaggi.

Ho sentito alla Conferenza di Amburgo “Challenging Capitalist Modernity II” [3]l’attivista indiana Radha D’Souza raccontare dell’esperienza politica di alcuni villaggi indiani e della loro pratica di “Rigenerazione nella resistenza”. Una lotta portata avanti a favore della biodiversità e dell’autorganizzazione dei territori attraverso l’autogestione dell’acqua, contro le privatizzazioni statali delle reti idriche. Mi ha colpito una sua frase: “L’industrialismo ci dice che dobbiamo costruire in grande, e rende così sempre più insignificanti le nostre vite; mentre, per costruire in grande, bisogna partire dal piccolo.” Radha D’Souza si è posta in contrasto con il lì presente David Harvey, che nella sua relazione sottolineava la necessità di un approccio marxista economicista, basato sull’analisi del valore inteso come monetario. Lei parlava di altri valori, che non possono essere riferiti solo al macrolivello finanziario e che non possono essere sganciati da una critica all’attuale potere coloniale. Sarebbe banalizzante ravvisare nell’esempio riportato da Radha ‘D Souza una forma di localismo. Il problema sarebbe mal posto. Ci interessa molto il modo in cui tu invece usi il rapporto tra locale e globale, particolare e universale, fuori da polarizzazioni e binarismi. Il globale non si può pensare slegato dal locale.

A proposito di questo, non so se conosci i lavori delle due geografe femministe Julie Graham e Katherine Gibson: quello che hanno fatto è aver mostrato alternative economiche al capitalismo in differenti comunità. Ne parlano nei termini di “Postcapitalist Politics”, di pratiche politiche postcapitaliste. E’interessante sapere che ci sono persone che stanno ripensando sistemi economici e politici, che stanno inventando altri modi al di là del capitalismo. Su queste esperienze portano avanti analisi in diverse parti del mondo.
Ritengo che questo sia un modo valido di pensare, più che solo vedere, un sistema globale finanziario che è davvero difficile cambiare ad un macro livello: bisogna allora guardare ad altre comunità che stanno mettendo in piedi altri sistemi che oltrepassino il valore monetario. Possono essere sistemi come comunità agricole. Per esempio, dove io vivo, a Ithaca, abbiamo inventato un sistema chiamato “Ithaca money”: è un sistema di baratto, ma il modo in cui funziona è che se tu sei un’insegnante e devi dare un’ora del tuo tempo e hai bisogno di un martello per aggiustare qualcosa, puoi fare questo genere di scambio.
Vivere in comunità che non hanno valori di sfruttamento, proprietà, cambia le strutture valoriali. Perché il capitalismo è una struttura valoriale.

Penso sia importante riuscire a nominare processi ampi e strutture ampie, senza però dimenticare che queste sono sostenute dal modo in cui le persone vivono le loro vite in diverse comunità. Dobbiamo sempre dare attenzione alle lotte nei loro contesti.
Dunque, per tornare al tema dell’universale e del particolare, come è possibile che il locale e il particolare incapsulino il globale?
Il punto è che non capisco come si possa parlare delle caratteristiche del mondo sociale senza riferimenti alle vite concrete delle persone, che sono connotate storicamente, geopoliticamente, situate culturalmente. Non possiamo fare teoria senza questi riferimenti.
E anche su questo consiglio un libro: è interessante da un punto di vista metodologico e politico.
Si chiama Playing with fire di Richa Nagar, e racconta di sette donne che lavorano per delle organizzazioni non governative e che riflettono sulla loro vita e teorizzano sui metodi di produzione di conoscenza. Dà interessanti spunti per pensare nuove domande femministe.

Proprio a proposito di metodi di produzione della conoscenza, nei tuoi lavori ti sei occupata di pedagogie del dissenso, che danno speciale importanza alle pratiche e alle metodologie di trasmissione del sapere, in termini di apprendimento esistenziale continuo. Abbiamo pensato che dai bachilleratos populares dell’America Latina, sino alla Escuelita Zapatista in Messico, un esempio è anche offerto dalla Jinologia, una forma di conoscenza prodotta nelle Akademie in Kurdistan. Come è possibile, secondo te, replicare la radicalità di queste esperienze in altri posti, come negli Stati Uniti o in Europa, dove il sapere è perlopiù e soprattutto trasmesso nei luoghi più istituzionalizzati, come le scuole e le università?

Qui stiamo parlando della possibilità di conoscenze insorgenti o di pedagogie del dissenso all’interno di strutture formali e istituzionalizzate dell’alta educazione. Il sapere radicale prodotto attraverso strutture alternative, in America Latina come in Messico e nel contesto curdo che descrivi, ha infatti avuto successo in grande parte a causa, in primo luogo, dell’assunzione di un punto di osservazione privilegiato per parte delle comunità marginalizzate nella produzione di conoscenza. In secondo luogo, per la connessione creata tra le questioni riguardanti il potere, l’oppressione e l’ingiustizia e le questioni d’alfabetizzazione e formazione. Infine, per il fatto che le pratiche e le metodologie dell’educazione popolare resistono alle gerarchie di valutazioni e imposizioni di status e esperiscono come queste siano invece naturalizzate nell’alta educazione istituzionalizzata in Europa e negli Stati Uniti.

Penso che i saperi radicali prodotti dentro l’educazione popolare non possano, infatti, essere replicati facilmente all’interno delle strutture normative istituzionalizzate dell’alta educazione. Ma quello che reputo possibile è la creazione attiva di comunità di educatori e educatrici radicali dentro questo tipo di istituzioni, che di fatto organizzino e insegnino secondo i principi che abbiamo elencato. E l’unico modo per cui questo possa funzionare è che la critica all’istituzione e all’università sia in sé una parte costitutiva dei saperi e del tipo di conoscenza prodotti. Così ogni forma di conoscenza insorgente dentro l’alta educazione formalizzata avrebbe bisogno di tracciare, in primo luogo, etnografie istituzionali che mappino il modo in cui il potere riempia e influenzi le pratiche, i curricula e le metodologie di queste istituzioni, ed è necessario poi connettere questo primo inquadramento a questioni sull’ etica, sull’ineguaglianza, e sulla giustizia sociale, perché siano ritenute fondamentali per la missione che l’università si prefigge. Questa è un’ardua impresa, ma conosco molte persone che stanno lavorando con questi metodi per decolonizzare l’università.

E attualmente quali sono i temi della tua ricerca che senti urgenti e su cui ti stai soffermando di recente?

Attualmente mi sto impegnando in numerosi progetti condivisi e collaborativi, come quello dell’Archivio digitale Feminist Freedom Warriors. Un altro importante progetto di produzione inter-istituzionale e condiviso si chiama: Democratizing Knowledge: Developing Literacies, Building Communities, Seeding Change. ( http://democratizingknowledge.syr.edu ).
Il mio attuale progetto editoriale si intitola: Just Feminisms: Radical Knowledges, Insurgent Practices, e riguarda temi simili a quelli di cui abbiamo parlato oggi: neoliberalismo e critica radicale, decolonizzazione delle pedagogie e la politica dei saperi, prassi femministe transnazionali antimperialiste e anticapitaliste, militarizzazione, incarcerazione, le epistemologie delle femministe di colore, femminismo transnazionale, privatizzazioni e politiche di solidarietà.


[2] Traduzione letterale di #Black Lives Matter. Mohanty fa riferimento alla campagna contro la violenza razzista verso le persone nere fondata negli Stati Uniti nel 2013 e iniziata da tre donne nere, due delle quali queer e una afroamericana. Il movimento internazionale #BlackLivesMatter si è diffuso in tutto il mondo in concomitanza agli omicidi di Ferguson e in seguito alle proteste per l’inaccettabile ingiustizia razzista commessa dalla polizia. Per ulteriori informazioni, il sito: http://blacklivesmatter.com/

[3] La Conferenza “Challenging Capitalist modernity II” si è tenuta ad Amburgo, in Germania dal 3 al 5 Aprile 2015. Tutti gli interventi sono pubblicati sul sito: www.uikionlus.com. Per ulteriori informazioni sull’evento http://networkaq.net/

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