As rosas não falam

As rosas não falam

di Elvira Federici


As rosas não falam
(Ney Matogrosso)

Esco in giardino come ogni mattina. Mi piace camminare nell’erba ancora umida della notte mentre il sole già arriva caldo. Il contrasto è sontuoso, le foglie sono luminose e trasparenti nella luce ancora obliqua che c’è uscendo dall’alba. Tra le mani ho la tazza di caffè, calore delizioso nell’aria fresca del mattino. Rientro, salgo a cercarti. E’ un’abitudine, ti faceva piacere che ti svegliassi con un caffè. Così torno a prepararlo.

Faccio il caffè e faccio come se ne volessi. Non voglio pensare alle parole scambiate sull’orlo della catastrofe. Le cose si consumano, le vite finiscono, le storie passano: c’è un marcire promettente, in questo. Dalla finestra getto uno sguardo alle rose, il bocciolo più chiuso della rosa di Damasco, della rosa più bella, è piegato su sé stesso – un vulnerabile flettersi che mi commuove. Lascio tutto e vado a vedere che cosa è accaduto.Quando è cominciato tutto questo? Quale ne è stato il segno? Il cambiamento somiglia all’impercettibile scorrere delle acque fino a quando, come nel fiume Iguaçu, tutto in un fragore muto nella Garrganta do Diablo.

Soltanto un mese fa eravamo ancora noi, due vite insieme da decenni, storie, relazioni, nello spazio ormai antico di questa casa. Al silenzio reciproco eravamo abituati da anni. Quando si tace non è perché non si ha più niente da dirsi, piuttosto perché la lingua è diventata, come per l’acqua, come per il bruco, come per le zolle, insufficiente o superflua: al suo posto, i gesti, lo sguardo, un reciproco modo di prenderci cura. La stessa comunicazione che si tiene con le cose, con gli animali domestici, con gli alberi. Le cose non hanno sguardo ma pure si lasciano vedere. Così, quando è stato che hai lasciato che vedessi quello che ti stava accadendo? Durante il viaggio in Brasile, quando avevi deciso di prolungare il soggiorno con una piccola spedizione dentro la Mata Atlàntica del Paranà, partendo dalla baia di Paranaguà, verso Guaraqueçaba; in un’area abitata da ribeirinhos provammo un’emozione senza ricordo, andando su lance leggere per grandi vie d’acqua; penetrando, quando l’acqua decide, nel mangue dove le radici aeree delle mangrovie aspettano la marea, metà salata, metà acqua di fiume. Sul posto, nel cuore della foresta, dove i pescatori recano il pesce arpionato con sottili stecche di legno e aprono montagne di ostriche sulla brace, nelle capanne di legno che circondano la grande veranda comune, dove si descança dondolando nella rete, la pioggia batté per ventiquattro ore. Nel dormiveglia continuava a comparirti, mi dicesti, la foto di quel luogo scattata dal satellite: grosse arterie azzurre e gonfie che si insinuavano in un verde senza lacune.

Che strano vedersi così un puntino, un puro nulla, tra acque e foresta; un arbusto mi sento, mi dicesti, meglio: una felce preistorica. Fu al ritorno che mi annunciasti, con una foga imprevedibile e un nuovo luccichio nello sguardo che d’ora in avanti, tutto il meglio del nostro tempo, tutto il meglio di noi sarebbe stato dedicato al giardino. Lo spazio verde, neppure troppo esteso ma suggestivamente foresto che circondava la nostra casa sarebbe diventato “noi”; noi nella forma più degna, la più mite e resistente, la più silenziosa e durevole, la più essenziale e prodiga di doni. Se non possiamo essere una foresta pluviale, dicesti, saremo un giardino. Risi della battuta ma accolsi l’idea come un di più del nostro legame. Tra noi e tra noi e il mondo. Da allora quello spazio, mediterraneo per accidente, si è riempito di melograni e forsizie, di lauri e tamerici, di rosmarino e ginestra, di lavanda e timo, di mirto e ginepro ma anche di roverelle, lecci, cipressi.

E su tutto, in mezzo a tutto, le rose. Le più loquaci sorelle del mondo vegetale, capaci di interpellarti dal culmine della primavera fino a dentro l’inverno: impavide, talvolta solitarie, generose, spesso regali, mai altere. Il giardino che stavamo diventando sembrava bastare a se stesso. Uscivamo di mattina presto, per assaporare la rugiada notturna nell’afrore della vegetazione. Quando cominciavano le modulazioni degli uccelli eravamo già, gambe in croce, presso l’orto dei semplici. D’estate, al culmine della giornata c’erano ora il ronzio come un basso continuo delle api intorno al pergolato dei rampicanti, ora la zigrinatura del canto delle cicale. Noi eravamo quel profumo, quel ronzio, quel frinio. Delle lucertole che si affacciavano sotto la tamerice, avremmo indovinato i nomi, se ne avessero avuti. Fino a quando si manifestò un malessere che non si spiega: all’improvviso – chi ha cominciato? – tutto di quello che siamo ci è parso inutile, persino ridicolo: il nostro silenzio si inquina; spesso ricorriamo alle parole per farci del male e le parole, l’ho imparato bene, più di ogni altra cosa fanno male. Non conta cosa sia accaduto, neppure lo ricordo. So che nella furia delle parole solo il giardino è la nostra benedizione.

Nell’infuriare della battaglia, restava il buon senso di recarci in giardino. Mentre, insieme: seminare, concimare, impastarsi con le zolle, inanellare lombrichi, Così, tacevi e restavi. Cominciarono le gambe: avevano preso un colore indefinito, tra il verde e il viola e si assottigliavano più di quanto il tuo corpo smagrisse. Vi comparivano pustole che sembravano spine. Sulle braccia un reticolo azzurro di vasi, una trama sottile come nella trasparenza delle foglie. Se c’era vento, la tua testa frondosa si agitava ma i tuoi piedi restavano piantati. Se, per neutralizzare la ferocia delle parole, provavo ad abbracciarti, tutto, a parte il tuo odore, mi respingeva, mi sfuggiva. E mi sfuggivi, forse, se di te ora mi resta il ricordo. Un ricordo che non ce la fa a ricostruire i fatti, non riesce a metterli in fila ma li affastella e li raggruma in domande senza risposte possibili. Ecco che ti dimentico. Ecco il bocciolo reciso accanto alla pianta che abbiamo messo a dimora insieme. Cominciava a vegetare, ha messo su foglioline pallide e tenere, anche le spine sono ancora rosee e molli come la lunetta delle tue unghie. E non poteva averne già di boccioli. Tu mi hai guardato mentre rincalzavo la terra intorno alla radice. Mi hai guardato come a dirmi: non abbiamo bisogno di parlare, non parlano le piante né l’acqua né l’aria. Mi hai guardato come a dire: restiamo a fare questo, non aggiungere altro a questa cura. C’era un diffuso pallore sul tuo volto, la pelle intorno agli occhi è trasparente e setosa come un petalo, come le ali di una farfalla. Non parlavi e mentre mi affanno con vanga e zappetto tu non mi stai aiutando. In posizione accovacciata, all’altezza della rosa, cespuglio fra i cespugli, nell’immobilità tuttavia fremente sei quasi indistinguibile. Non guardavi la rosa non vedevi il giardino, stavi di fronte a me in uno stato di languore che respingeva per contrasto il mio darmi d’attorno. Ti guardo insieme alla rosa, ti guardo nella luce verde oro. Il tuo sguardo, così fermo che nuota nelle pupille immobili non riesce a vedermi. Le foglie però si distendono, in un impercettibile rigoglio al momento in cui aggiungo un po’ d’acqua alle radici.

Mentre mi avvio per il caffè quel bocciolo caduto mi colpisce. Resta appena un filamento a collegarlo alla pianta. Farò come si fa con gli animalucci: steccherò lo stelo, metterò una fasciatura sulla lesione. Intanto il tuo silenzio occupa tutto lo spazio. Prendo una canna, un nastro – lo spago potrebbe recidere la tenera corteccia dello stelo, non credi? Prima medico la lesione, faccio ricombaciare le parti, stringo una striscia di stoffa intorno alla frattura, sigillo con il cerotto. E adesso, con il nastro ti raccolgo lo stelo fianco a fianco della canna.

Ecco, c’è solo la promessa di un bocciolo in cima e se la medicazione è ben fatta, forse arriverà la tua fioritura. Ti vedrò sbocciare piano piano, si apriranno arricciati i sepali e ripiegata come un segreto, potrò intravedere la tua pelle di petali carnei. E un profumo che non hai mai indossato. Dove rinvigoriscono le spine, faccio attenzione: non hai mai smesso di pungere; al piede che non si invola, una manciata di pianterelle infestanti: liberarti le radici permette un più efficace radicarsi. Il bocciolo si dischiude nella promessa di un bacio, non hai sguardo, hai respiro. Poco importa che venga dal lento smuovere che fa il soffio di ponente, mentre l’arco del giorno si compie ed io resto qui, nel groviglio tiepido di foglie e radici, scordando il caffè da preparare per te.