Franca Clemente – Violenza e matri-archè. A proposito di “Dio è violent”

Franca Clemente – Violenza e matri-archè. A proposito di “Dio è violent”

Due aspetti vedo emergere della analisi sulla violenza che Muraro propone sul suo pamphlet “Dio è violent.”. La messa in discussione della violenza delegata l patto sociale e la violenza diffusa come conseguenza della crisi di questo patto, del venir meno dei suoi presupposti.
Muraro scrive che il patto sociale è generato da un accordo: rinunciare alla prepotenza per convivere civilmente con gli altri. Quindi un accordo tra forti. Ma perché i forti avrebbero dovuto rinunciare alla loro forza, al potere, se non perché un accordo di tal genere ha soprattutto il fine di difenderli dalla prevaricazione di tutti gli altri. Un patto sociale quindi dovrebbe essere eminentemente difensivo. Ma quando lo stato decide di esercitare la sua funzione difensiva, lo fa attraverso la forma dei diritti, diritti che valgono però solo se chi ne è soggetto ha la forza di esercitarli. Il diritto è dei forti quindi, non dei deboli.. Le donne ovviamente non potevano far parte di un tale patto.
Di più: lo stato, il garante del patto sociale, si pone come predone. E’ la violenza più odiosa, quella esercitata dal protettore che si trasforma in aguzzino.
A mio avviso però, il patto sociale non è degenerato, ma è nato con un difetto genetico. Lo stato moderno nasce dalla spinta delle classi che detengono il potere economico. Eric Roll, ad esempio, nella sua storia economica, afferma che il mercantilismo, il fenomeno che ha preceduto e reso possibile la formazione del capitalismo, nasce da un complesso di misure che potevano essere garantite solo dagli stati moderni e che i governanti accolsero le proposte mercantilistiche e vi adattarono la loro politica. Il connubio tra economia e stato si è andato sempre più stringendo e le teorie del contratto sociale ne sono la giustificazione teorica..
Il nostro patto sociale si è basato sul capitalismo, sull’esistenza delle classi sociali, sulla costrizione a vendere il proprio lavoro come una merce. Il patto sociale si è fondato storicamente sulla accettazione dello sfruttamento di alcuni, dei più; sulla schiavitù economica, che oggi si chiama delocalizzazione; sul diritto, questo sì garantito dallo stato, di appropriazione delle risorse della terra, che erano e sono ancora di tutti, e sul loro uso indiscriminato a fini di denaro, che ha portato oggi la terra al collasso. E l’ultimo consesso di Rio de Janeiro ha seppellito l’ennesima, estrema speranza di resipiscenza.
La politica conforma le regole dello stato a quelle del mercato. La conseguenza è l’impoverimento diffuso, gli stati in balia del capitale, i livelli sociali che si omogenizzano verso il basso.
In questo patto sociale, qualcuno detiene il potere di vita e di morte su altri e decide se questi domani potranno ancora mangiare col proprio lavoro, che comunque dovranno ripagare debiti enormi o soccombere alla fame. E’ un processo di esproprio già visto quando, tra la fine del Basso Medioevo e l’inizio dell’era moderna, cominciò la recinzione delle terre dei contadini , che li portò a vendere il proprio lavoro alle condizioni del nascente capitalismo. Il gioco si ripete, ma oggi ha cambiato nome: la chiamano crisi, ma ormai sempre più economisti la definiscono strutturale, di sistema e questo significa che potranno esserci oscillazioni anche verso la crescita, ma il trend delle condizioni di vita e delle possibilità di lavoro è decrescente. L’imposizione fiscale abnorme è un salasso senza costrutto. Il capitalismo si nutre ormai delle proprie carni e il potere politico che ne ha sempre garantito l’esistenza non rappresenta ormai che i poteri forti dell’economia. Essa non è in grado di soddisfazione i più elementari bisogni come nutrirsi, abitare.
Ha un bel dire chi ha sostenuto che il lavoro può essere occasione di realizzazione personale e che per le donne l’obiettivo è lavorare bene e dividere con il proprio compagno l’onere del lavoro riproduttivo.
Che la struttura economica sia la prima causa di violenza sulle persone mi sembra indubitabile. E la violenza a mio parere scaturisce dalla lotta manifesta tra due paradigmi. La violenza è espressione di questo scontro ed è espressione ormai conclamata, resa evidente, salita alla superficie. Il carattere schizofrenico di questa società sta venendo a galla , nel momento in cui è in gioco la sopravvivenza delle persone e della terra. Si tratta di una guerra all’ultimo sangue e i contendenti sono due diversi, ormai incommensurabili paradigmi.
Da una parte la società capitalistica, dove ogni cosa, materiale o no, può e deve essere comprata contro un prezzo e ogni cosa ha valore solo se può essere trasformata in denaro. E il mercato è necessariamente fondato sul principio dell’homo homini lupus, sull’abnorme espansione della popolazione da cui trarre braccia e consumatori per sorreggere la sua espansione. Grandi numeri significano e complicazione normativa della convivenza, estrema specializzazione, meccanismi di decisione delegata, artificiosità spiralica dei controlli che pretenderebbero di ingabbiare la variabilità dell’agire umano.
Una società insomma dove le regole della convivenza sono plasmate su quelle della economia di mercato, ma che per sopravvivere ha bisogno di essere supportata dalla intelaiatura del circolo del dono. Quella che Muraro chiama “fare la nostra parte“ e che identifica come sostanza del vero patto sociale. Che mi sembra più appropriato chiamar economia senza corrispettivo economico , e non si tratta di un patto, di un accordo, ma della base di ogni relazione umana, necessariamente nata sul modello della relazione materna.. La società basata sul capitalismo se ne nutre ma se ne differenzia drasticamente come il nutrire si differenzia dal produrre cibo per il mercato, il curarsi delle persone dal fare politica, l’impegnare la propria attività per creare convivenza migliore dallo sfruttamento del lavoro salariato
Il circolo del dono viene strumentalmente definito come sfera morale e riproduttiva, come se fosse possibile separare dualisticamente la sopravvivenza da ciò che è necessario perché si realizzi, l’ambito della vita dai mezzi con cui alimentarla e gerarchizzare questi ultimi come ordinatori di quella.
Ritengo che sia una aporia generatrice di violenza la convivenza di due paradigmi incompatibili e che sia possibile anzi indispensabile cominciare a pensare e costruire una scelta di campo.
Svelare come una illusione quella di riformare il capitalismo e pensare l’economia di mercato come un contenitore adeguato di una società più vivibile.
Condivido molto della analisi di Muraro, ma non ho chiaro in cosa consista per lei la leva che deve muovere le donne, né riesco a connotarne la “differenza”. Mi pare piuttosto una affermazione che non afferma, non costruisce, non propone, ma si ferma alla decostruzione: almeno su quella siamo tutte d’accordo. Contratto sociale come contratto sessuale imposto. Patto sociale come artificio che nasconde rapporti classisti e sessisti. Differenza basata sulla rottura del contratto sessuale. Sottrarsi alla fascinazione simbolica del potere. Sacrosante parole, ma che non connotano ancora la differenza.
A mio avviso il desiderio , sfoltito del suo aspetto irrazionale, è una modalità per fare ponte tra pensiero ed azione, così come la violenza. Né tanto meno può il desiderio di protagonismo rendere senso alla nostra discesa sul campo di battaglia della storia. Niente di tutto ciò sostanzia una alternativa, la cui ricerca è l’unico motivo per cui siamo qui e apriamo un racconto e non certo un imbuto, una strettoia in cui è opportuno non cacciarsi.
La risposta la trovo piuttosto proprio nella affermazione di Muraro
“Siamo diventati umani grazie a un ordine simbolico materno”
 e più oltre
“Senza forza simbolica che cosa diventa la politica?”
. La leva per me può essere soltanto il Matri-archè. Il concetto di materno che non è un discrimine tra chi genera e chi no. Le Matri-arche non sono donne che generano. Ne abbiamo fatti abbastanza di figli, per soddisfare il diritto di proprietà del padre, fornire braccia all’agricoltura, allargare la platea dei consumatori. Le società matriarcali che conosciamo sono demograficamente stabili e la terra non sopporta altro. Matri-archè è piuttosto il principio modellatore della convivenza. Tradurre in politica, nel senso antico di polis, l’ordine simbolico della madre. Ne abbiamo esempi concreti e forse lo abbiamo nelle radici storiche, sicuramente nelle radici simboliche delle origini.
Il concetto di materno è stato storicamente deformato e racchiuso nella famiglia mononucleare, con tutte le patologie che si porta dietro. Il concetto di materno che usiamo oggi è un surrogato della della forza e vastità della potenza performativa più che dell’atto.
E’ quello che si intuisce nelle immagini della cosiddetta Dea Doppia, patrimonio delle antiche culture matrilineari di tutto il mondo e dell’Europa in particolare, come ci racconta Gimbutas. Non credo fosse una rappresentazione religiosa, l’immagine di una divinità, per quanto immanente pur sempre metafisica. Preferisco vederla come una simbolizzazione delle radici in cui affonda una cultura. Simbolo che ribadisce l’appartenenza, riaffermazione della adesione ai valori di una comunità. Simbolo di un modello sociale che non contemplava l’Altro, ma il doppio di sé. Simbolo che riafferma la collocazione nel solco delle radici. Il materno come doppio femminile. Emblema e modello di un tipo di relazione, dove la separazione non è mai distacco, individuazione come strappo. Madre degli umani, degli animali, delle montagne, di ogni essere comunque generato e mai Altro. Il materno. Non banale senso di responsabilità, che rimanda al dovere, né solo cura come sinonimo di attenzione, parola abusata. Ma qualcosa che permea la cultura.
Una forma di legame che si deve tradurre in legame sociale soppiantando e non più convivendo con il patriarcato e le sua espressioni materiali, il capitalismo, il mercato, il denaro.
Appare chiaro allora che la questione non attiene agli strumenti, le buone pratiche, l’ecologia, la decrescita, ma alla struttura della società e al suo senso, alla motivazione e alla forma dello stare insieme.
La cura non si basa, a mio avviso, sulla dipendenza reciproca, la dipendenza dei mammiferi, che crea gerarchia, ma sul principio del doppio. Principio che unifica contrapposto al concetto di Altro che crea contrapposizione. E’ il principio della sapienza materna, contrapposto a quello, violento, del distacco, della lacerazione come valore fondante della individuazione.
Egemonia del materno, assunto come status originario, modellante della cultura, attributo che modifica . E regole sociali coerenti con il paradigma in cui tutti nascono e che sta alla base della ricomposizione di produzione e riproduzione.
E’ qui,per me, il centro del problema e il punto di partenza della riflessione di senso sulla violenza. L’invito a “non entrare nell’imbuto delle alternative ma aprire un racconto”, mi sembra una parodia di pensiero debole, in cui del resto troppo spesso le donne si sono rifugiate, per non creare divisioni interne. Questa scelta di scopo si è di fatto tradotta nel suo contrario. Individualismo e parcellizzazione. Assenza di una proposta da condividere. Una magari, fondativa, su cui orientare una battaglia che funga da quella leva di cui parla Muraro. Una leva che soltanto può concernere la struttura della società. Ci appelliamo alle giovani, ma purtroppo non possiamo al presente che proporre il nostro disorientamento ela nostra paura. Il fascino emancipazionista che le attrae va controbilanciato con una altrettanto fascinosa proposta. Potrebbe rivelarsi sbagliata? E’ nelle cose.
Il comunismo, a mio avviso, non ha rappresentato una leva perché tra i suoi mezzi contemplava l’uso possibile della violenza., ma perché il suo discorso era una promessa, apriva una possibilità di radicale cambiamento della società.
Oggi, tenere insieme cura e conflitto rischia di rivelarsi una giustapposizione, una ulteriore espressione di malinteso pensiero debole. Non farei appello alla intelligenza collettiva, che suona come indefinito buon senso; né al desiderio, che può portare ad un irrazionale surrogato della realtà. Preferisco piuttosto affermare : I have a dream!
Dissertare di violenza mi sembra piuttosto un pleonasmo, una affermazione ridondante rispetto a quella di “legittima difesa”. L’istinto, più che il diritto, di difenderci da tutto ciò che ci nuoce.
Che è altro dalla resistenza. Resistere è mantenere le posizioni, resistere all’assedio. Ma, visto che i nostri non arriveranno mai, non li aspettiamo proprio, resistere significherà perdere e allora per spezzare l’assedio occorre uscire dalle mura e combattere. Ci saranno morti e feriti. Siamo assediati da un sistema violento e da un nemico che ci affama, ruba per sé le risorse della terra, attenta alla nostra salute con la contraffazione e l’inquinamento. E’ in gioco la sopravvivenza della terra: come si può concepire di scendere a patti? E’ proprio per antiviolenza che dobbiamo fermare la violenza, a qualunque costo
La cura non è pacifismo, proprio perché è finalizzata alla conservazione, deve fermare la violenza, costringerla, non invitarla, a desistere.
Alcune rivoluzioni contemporanee sono iniziate dalle madri, che hanno fatto un gesto di contrapposizione dei loro corpi alla violenza. Lo stesso gesto di piazza Tienanmen o del vecchio nativo americano di fronte ai trattori mandati a radere al suolo il suo villaggio. Ma è anche qualcosa in più. Afferma: di qui non si passa e non saranno ammesse trasgressioni. La posta in gioco è troppo importante, vitale.L’illusione di trovare una via per non pagare prezzi è un candido meccanismo di rimozione. Non credo che se l’Aquila avesse accolto Berlusconi con un lancio di sassi, ma neanche di pomodori, sarebbe stato capito e nessuno avrebbe reagito.
Gli spazi legali di opposizione sono assai esigui e ormai del tutto inefficaci. Il potere si concentra sempre più nelle mani di pochi, e il ricatto in atto in Europa costringe a rinunciare ad ogni spazio di democrazia, se non vogliamo chiamare democrazia la farsa delle elezioni. Ognuno di noi ha tanta voce quanta una goccia nel mare. La cosiddetta crisi è ormai concordemente definita strutturale, ma invece di indurre la profonda revisione del sistema economico e finanziario che l’ha generata, viene utilizzata per trasferire sovranità a livelli più globali.
Un disincantato sguardo storico rivela il tentativo di riformare, “moralizzare” questo meccanismo divoratore come la più grande utopia. L’utopia dei diritti, il cui esercizio è riservato ai forti. D’altra parte non condivido l’analisi che vuole il sistema vigente in, seppur lenta, agonia, ma lo vedo come un mostro vitale che sa rispondere con rinnovata energia ad ogni possibile colpo, dal momento che chi lo guida ha in mano tutte le leve di manovra.
E’ necessario cominciare concretamente a discutere la fattività della messa in mora del meccanismo di mercato. E qui l’apertura alla possibilità di forme di lotta non legalizzate si impone. Lasciamo pure la violenza alle istituzioni e ai loro mezzi espliciti od occulti. Per noi l’uso della violenza sarà q.b. per riuscire ad ottenere senza desistere.
Questo è credo la nostra giusta violenza: quella della disubbidienza a tutto ciò che esula dall’ordine simbolico della madre. Mettere fine allo sfruttamento dell’umano sull’umano, allo sfruttamento delle risorse per fini di mercato, che rende di fatto impossibile anche la semplice sopravvivenza di molti, significa mettere in mora alcuni dei diritti che sono storicamente a fondamento della nostra società, come il diritto di proprietà e le leggi di mercato e rimettere in circolo l’economia del dono.
Dono non certo di oggetti, la cui materia non ci appartiene, ma del valore aggiunto che poniamo nel procurarcela e nel trasformarla per la comunità. Dono quindi di energie, attenzione, responsabilità, cura insomma e non profitto.
Concordo che non esista una violenza giusta, ma solo una violenza efficace. Del resto solo di giustezza si può parlare perché il concetto di giustizia è invenzione umana, non pensabile al di fuori di tale ambito e funzionale solo nella misura in cui può essere interpretata.
Leggevo uno degli ultimi quaderni di via Dogana, in cui Ina Praetorius lancia una proposta che, alla prima lettura mi è sembrata ingenuamente fiduciosa. La proposta di andare, le donne, le madri, a Davos, dove annualmente si riunisce la crema della ricchezza mondiale per decidere le sorti di tutti gli altri umani, per parlare con questi Paperoni della irrazionalità del loro agire e della violenza che esercita sui nostri e sui loro stessi figli. Alla luce del discorso sulla violenza ho ripensato come questa forma potrebbe essere emblematica di una contrapposizione delle donne guidate dai principi del matri-arché, contro quelli, il potere e il denaro, che Davos simbolizza e concentra. Violenza alla Tienanmen, dove lo studente è stato ucciso, ma gli altri erano subito dietro. Violenza? q.b., ma fino a ottenere il cambiamento di paradigma.