La resilienza delle comunità impreviste

La resilienza delle comunità impreviste

di Daria Kozhanova

La nostra missione è quella di restare qui e cercare di imparare a vivere diversamente sulle rovine del nostro povero pianeta
Chiara Mezzalama, Dopo la pioggia, E/O edizioni, Roma 2021

Se qualche anno fa mi avessero detto che mi sarei dedicata allo studio dell’(eco)femminismo, postumanesimo femminista, maternità e letteratura delle donne (per giunta, quella italiana), non ci avrei creduto. D’altronde, non c’è niente da meravigliarsi, perché sono nata e cresciuta nel paese — all’epoca il centro dell’impero sovietico — dove ancora oggi la parola “femminismo” viene etichettata come qualcosa di terrificante e nell’ambiente accademico è praticamente impossibile occuparsi della prospettiva di genere, considerata una moda passeggera di stampo occidentale, quindi, pericolosa. Tuttavia, per me tutto è cambiato, quando ho iniziato a leggere le opere delle scrittrici e ho visto che dietro queste pagine, spesso ritenute “romanzetti” e snobbate dal canone patriarcale, è nascosto un mondo profondo che desideravo esplorare sia come lettrice che come ricercatrice.    

Il dono più prezioso, che ho ricevuto da questo percorso aggrovigliato, è la liberta di pensare. Rompere gli schemi normativi, creare i collegamenti imprevisti, addentrarsi negli ambiti diversi. Proprio questa libertà senza limiti ispira gli scritti di Donna Haraway, che mescola in una maniera non-convenzionale metafore e termini scientifici, fabula speculativa e saggio, concetti e discipline. Per seguire il gioco della matassa harawayano ho deciso di leggere attraverso il suo pensiero il romanzo Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama.

A prima vista, il plot è ormai famigliare: la protagonista Elena, madre di due figli, scopre che suo marito Ettore la tradisce e decide di fuggire per qualche giorno nella vecchia casa materna in Umbria, il marito con i ragazzi partono da Roma per raggiungerla. Ci sono, però, due dettagli imprevisti. Primo, Elena sta traducendo il saggio di Anna Tsing The Mushroom at the End of the World, che diventa un sottotesto del romanzo. Secondo, la storia viene iscritta nello scenario della catastrofe ecologica, oscillante tra realismo e distopia. Poco dopo la partenza dei personaggi, in zona inizia il diluvio incessante, che distrugge città e villaggi. In prospettiva ecofemminista, lo sfruttamento della donna dal sistema patriarcale viene associato allo sfruttamento della natura nell’Antropocene — quindi, sia la protagonista che la Terra si ribellano contro il dominio del maschio/Homo/colonizzatore. 

Affrontando questa emergenza ambientale in miniatura, i protagonisti entrano in relazione con una comunità tra Lazio e Umbria, unita dalla critica consapevole dell’antropocentrismo ed eccezionalismo umano, i cui membri imparano a sopravvivere su pianeta infetto. È una vera e propria comunità compost, simpoietica, imprevista, basata sulla diversità di genere, classe, età, etnia e razza, come le comunità multispecie harawayane. Una dottoressa in pensione Ada, ora astrologa, una strega, capace di percepire le forze paranormali della natura. Un ragazzo norvegese Ove, che durante le vacanze in Italia ha scoperto il mestiere del contadino. Un frequentatore di boschi Guido, che ammira l’equilibrio del funzionamento della foresta. Una giapponese Iroko, un’altra abitante del bosco e amante dei matsutake (il fungo di Tsing). Il centro di questa comunità utopica emersa nello scenario della distopia reale è il monastero di Vitorchiano, la casa delle giovani suore-scienziate da tutto il mondo, che costudiscono i semi rari e antichi e applicano il concetto di permacultura alla coltivazione. 

Si espande un movimento di resistenza contro il comportamento umano irresponsabile e si propagano le connessioni invisibili e parentele imprevedibili,non vincolate dai legami tradizionali. “La famiglia non è ecologicamente sostenibile. I legami vanno cercati altrove, in progetti di vita comune. Sono gli incontri che fanno la famiglia, non il sangue. Anche questo dobbiamo imparare, se vogliamo sopravvivere sulla Terra”, dice Iroko echeggiando lo slogan harawayano “making kin non population”.

Come le comunità compost di Haraway, anch’essa è nata attraverso le Migrazioni. Iroko e suo marito sono venuti in Italia, dopo aver scampato la tragedia di Fukushima. Successivamente grazie all’aiuto delle suore i coniughi sono riusciti a far arrivare dal Giappone le famiglie degli sfollati di Fukushima, acquistano per loro i terreni abbandonati nel Centro-Sud Italia. Uno può pensare: che cosa hanno in comune contadini giapponesi e laziali, boschi Satoyama e foreste umbre? E invece, vi è formata una rete imprevista di agricoltori giapponesi e locali, che si scambiano sapere e tradizione. In questo piccolo universo, quindi, è avvenuto quello di cui ha parlato Tsing, come ricorda le sue parole Elena: “dalle rovine del capitalismo nasceranno nuovi sistemi di produzione e conseguentemente nuovi modelli di vita, più precari ma anche più sostenibili”.

Dall’intreccio di relazioni e pratiche responso-abili, si è creata una comunità accogliente di umani e non-umani in cui, parafrasando Haraway, i rifugiati ricostruiscono i luoghi di rifugio nello Chthulucene. 

Installazione Reservoir di John Grade a Borgo Valsugana (Trentino)